Aprile 2003  Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792
Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni
Uno, nessuno, centomila, quale italiano insegnare? di Matteo Santipolo

A chi insegna italiano come lingua seconda capita talvolta di dover far fronte alla lingua “viva” che gli studenti portano in classe, l’italiano, cioè, che imparano vivendo a contatto con il mondo al di fuori della classe. In certi casi, specie in regioni come il Veneto, la Campania o la Sicilia, questa lingua può essere il dialetto, filologicamente parlando tanto simile all’idioma nazionale quanto possono esserlo lo spagnolo o il francese. 

Se non adeguatamente sfruttate queste esperienze linguistiche “esterne” degli studenti possono trasformarsi in un vero e proprio intralcio all’attività dell’insegnante. Viceversa, esse possono e, a nostro avviso, dovrebbero costituire un utile supporto per lo sviluppo di una competenza comunicativa completa ed autentica.

Per far ciò è naturalmente necessario che l’insegnante acquisisca una buona consapevolezza sociolinguistica ed in particolare che abbia coscienza delle diverse direzioni in cui la lingua può variare.

La variazione

La lingua, ogni lingua, varia nel tempo. L’italiano di Dante non è certo uguale a quello che parliamo oggi. Ma è presumibile (e forse anche auspicabile!) che lo stesso Dante non parlasse come scriveva, esattamente come accade a ciascuno di noi (anche se la posta elettronica sembra avere avvicinato molto il parlato e lo scritto). È noto a tutti che, pur senza pensare ai dialetti, l’italiano che si parla in Piemonte è molto differente da quello parlato in Puglia: per pronuncia, per scelte lessicali e morfosintattiche, ecc.

Allo stesso modo è esperienza comune quella di imbattersi in qualche Azzeccagarbugli che parla per non farsi capire. Anche senza arrivare agli estremi di manzoniana memoria è naturale che ognuno di noi presenti alcune caratteristiche loqutorie che lo identificano come appartenente ad un certo gruppo. Analogamente il nostro modo di parlare si modifica a seconda dell’interlocutore con cui interagiamo, ad esempio, a seconda del grado di familiarità o formalità.

In sintesi e con qualche semplificazione, possiamo affermare che la lingua è caratterizzata dai seguenti tipi di variazione:

1.      diacronica: cioè nel tempo

2.      diamesica: cioè a seconda del mezzo con cui viene veicolata

3.      diatopica: cioè geografica

4.      diastratica: cioè a seconda dei gruppi sociali (per età, per professione, per sesso, per livello d’istruzione, ecc.)

5.      diafasica: cioè a seconda dei registri.

È proprio perché la lingua è così mutevole che si pone il problema di quale debba essere il modello didattico di riferimento.

 

Il repertorio linguistico degli italiani

La complessità del repertorio linguistico degli italiani è tale da poter costituire un vero e proprio dilemma per l’insegnante.

Semplificando molto, possiamo affermare che tale repertorio è oggi costituito nella maniera seguente[1]:

a.      italiano standard

b.      italiano semistandard

c.      italiani regionali

d.      italiani popolari

e.      dialetti

Per italiano standard s’intende una varietà di lingua che s’ispira ai modelli dell’italiano scritto colto e letterario. Di fatto questa varietà è d’uso alquanto raro nella vita quotidiana e sembra essere esclusiva solo d’alcune categorie di persone (attori, qualche annunciatore radio e TV, ecc.). Si tratta di una varietà che gode d’una posizione di prestigio tale da sovrapporsi alle altre varietà che convergono verso di questa.  

La seconda varietà presente in questo continuum è l’italiano semistandard. Si tratta di una varietà i cui confini sono difficilmente delimitabili ma che pare comprendere aspetti dello standard assieme ad altri propri delle diverse varietà diatopiche, soprattutto a livello fonetico. Non si tratta quindi d’una varietà compatta ed unitaria, seppure presenti tratti comuni a tutto il territorio nazionale, e tanto meno, di un vero e proprio dialetto.  

Proseguendo in questa panoramica del repertorio linguistico degli italiani ci s’imbatte nei cosiddetti italiani regionali, termine col quale ci si riferisce alla vasta gamma di fenomeni compresa fra l’italiano della tradizione letteraria e il dialetto. Ciò significa, in concreto, che sull’italiano standard vengono innestati, qua e là, tratti di chiara provenienza dialettale che varieranno, appunto, da regione a regione.  

All’estremo più basso di questo continuum troviamo poi gli italiani popolari proprio degli strati sociali bassi, incolti e semicolti, ossia con basso livello di scolarizzazione, e caratterizzato da numerosi tratti di derivazione dialettale (assai più numerosi che negli italiani regionali) e da fenomeni d’ipercorrettismo, entrambi diffusi a tutti i livelli strutturali (fonologico, morfosintattico, lessicale, ecc.).

Oltre a queste quattro varietà, persistono, come già detto in alcune regioni più che in altre, anche i dialetti.

Consapevole di questa struttura del repertorio linguistico degli italiani, l’insegnante dovrà anche essere in grado d’inquadrare il proprio modo di parlare (o idioletto) che, di solito, è una qualche forma d’italiano semistandard.

 

La competenza sociolinguistica come obiettivo glottodidattico

In L1 la competenza sociolinguistica è sempre sia ricettiva che produttiva (nel senso che riguarda sia le abilità ricettive che quelle produttive).

In L2, invece, è necessario compiere una distinzione: in linea di massima, possiamo affermare che la competenza sociolinguistica da perseguire come obiettivo dovrebbe essere sia produttiva che ricettiva per quanto riguarda la variazione diafasica, diamesica e diastratica, ma può essere anche solo ricettiva per quanto riguarda la variazione diatopica. In altre parole, si deve portare lo studente ad una piena coscienza di tutte le tipologie di variazione presenti nella L2, ma senza richiedere che sappia reimpiegare produttivamente quella diatopica. Non avrebbe infatti senso insegnare intenzionalmente ad uno studente tedesco di italiano a parlare con un accento diverso da quello neutro (al massimo sarà compito dell’insegnante far riflettere sui tratti che lo studente ha appreso all’esterno della classe parlando coi nativi); mentre è certamente importante farlo pervenire, ad esempio, alla comprensione delle diverse regole che governano la lingua scritta rispetto a quelle della lingua parlata.

L’insegnamento degli aspetti sociolinguistici potrà comunque avvenire già nelle fasi iniziali di acquisizione della lingua, almeno per quanto riguarda certe caratteristiche elementari (soprattutto relative alla variazione diafasica – ad esempio la distinzione tra formale e informale – e diamesica), mentre sarà bene proporre gli aspetti più complessi (variazione diastratica – ad esempio aspetti substandard, gerghi, microlingue, ecc. – e diatopica) solo a livelli più avanzati.

La competenza sociolinguistica, come del resto qualunque altra componente della competenza comunicativa, deve essere perseguita induttivamente, a partire cioè dall’emisfero destro del cervello per giungere solo in seguito a quello sinistro. Ciò implica seguire un percorso che partendo dal comportamento perviene alla regola che lo governa. Ma gli aspetti sociolinguistici, data la loro natura socio-convenzionale non facilmente percepibile a coloro che non sono membri della comunità dei parlanti, potranno essere insegnati anche ampliando lo spazio deduttivo, specie quando si abbia a che fare con studenti adulti.

La scelta delle varietà

Considerando la complessità del repertorio appena descritto è difficile non tener conto almeno di parte delle sue sfaccettature. Il problema, a questo punto, è stabilire quale tipo di lingua debba essere fatto oggetto principale della didattica.

Se da un lato pare opportuno che la varietà semistandard sia l’oggetto della didassi, d’altro canto, per evitare che gli apprendenti commettano “errori” sociolinguistici (ad esempio, usare una parolaccia può essere accettabile e talvolta persino opportuno, ma lo si può fare solo se si ha pieno possesso del suo significato sociolinguistico), è necessario che vi siano pure riferimenti sia all’estremo più alto del continuum che a quello più basso, senza, peraltro, trascurare i dialetti, quando se ne presenti l’opportunità e comunque, avendo sempre ben presente la distinzione tra competenza ricettiva e produttiva nella valutazione degli obiettivi da perseguire.

Un modello dunque deve essere presente, ma non si dovrebbero ignorare le altre varietà e variazioni presenti nel repertorio linguistico dei parlanti nativi.

Per saperne di più:

SANTIPOLO, M. (2002), Dalla sociolinguistica alla glottodidattica, Torino, Utet Libreria.




[1] Non vengono qui prese in considerazione le minoranze linguistiche.

 

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