Febbraio 2007  Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792
Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni
José Antonio Marina Il fallimento dell’intelligenza. Teoria e pratica della stupidità di Paolo Torresan

AUTORE: José Antonio Marina
TITOLO: Il fallimento dell’intelligenza. Teoria e pratica della stupidità
CITTÀ: Milano
EDITORE: Longanesi
ANNO: 2006
PAGINE: 201

 

Come il libro di Polito, anche il saggio di José Marina comincia là dove il lavoro di Gardner finisce. E cioè se Gardner ci introduce al regno delle intelligenze, José Marina ci illustra le molte forme che assume la cattiva gestione dell’intelligenza: la stupidità.
Come può essere che una persona intelligente, che vanti per esempio una brillante carriera professionale, si comporti in modo stupido? Si tratta di una domanda a cui Gardner non è sordo, ma che trova risposte poco chiare nei suoi libri. Marina invece la pone al centro delle sue riflessioni: “la discrepanza fra «essere» intelligente e «comportarsi» in maniera intelligente” dice lo studioso spagnolo “rivela la presenza di uno iato fra i due livelli nel quale entrano in gioco forze poco note” (17).
A cosa corrispondono i due livelli? E di quali fattori di disturbo sta parlando?
Il primo livello coincide con la struttura cognitiva umana, una struttura modulare, proprio come nel pensiero di Gardner: “l’intelligenza computazionale” agisce attraverso sistemi altamente specializzati (le intelligenze), i quali processano le informazioni per lo più in maniera inconscia. Il secondo livello coincide con l’intelligenza pratica di Sternberg, e, grossomodo, con le intelligenze personali di Gardner, tradottasi poi con il concetto di intelligenza emotiva coniato da Mayer e Salovey, e quindi divulgato da Goleman.
Veniamo ai fattori di disturbo. Per il professore della Complutense, l’intelligenza può fallire per via di una distorsione epistemologica, affettiva o operativa.
Il che vuol dire che il lavoro dell’intelligenza può essere ostacolato da credenze che agiscono come coercizioni (è l’impotenza appresa di molti studenti), da pregiudizi, da abitudini, da prese di posizione dogmatiche, da errori di valutazione del contesto, dal fatto che, per meccanismi che sfuggono al controllo della volontà, un modulo agisce sopra e contro gli altri (per esempio l’ansia o la vergogna che collidono con la voglia di imparare o di dimostrare la propria competenza), dalla conversazione sommersa (che nasconde, anziché rivelare, le reali intenzioni), dalla volubilità del desiderio (considerata di segno negativo, quale corrispettivo del deficit di attenzione), dall’indecisione, dalla routine, dalla difficoltà di gestire le compulsioni, dal mancato coordinamento degli obiettivi individuali con quelli perseguiti dalle persone con cui ci si trova a cooperare.
È un sguardo ampio, geometrico, per quanto la foga della penna lasci a volte gli occhi smarriti e il ragionamento, non di rado, sia lasciato fastidiosamente in sospeso, affidando all’immaginazione o alla conoscenza di chi legge, l’ingrato compito di proseguire sentieri interrotti.
Due appunti al saggio di Marina.
Il primo. È evidente che all’evasività di Gardner nel definire l’educazione delle intelligenze personali, si contrappone, in Marina, uno sforzo positivo. Lo studioso spagnolo indaga, più di quanto non faccia Gardner, il valore sociale dell’intelligenza. Il relativismo culturale di Gardner, legato presumibilmente alla volontà di evitare pregiudizi di tipo culturale, impone a questi di evitare un qualsiasi giudizio di valore sull’etica di un popolo. Marina, al contrario, sostiene l’esistenza di valori universali. Le sue parole contro il relativismo sono infuocate:

 

Il relativismo estremo tende una trappola sociale: è ormai diffusa l’idea che sia sinonimo di progressismo politico, e che l’equivalenza delle opinioni sia il fondamento della democrazia, una convinzione assolutamente imbecille e contraddittoria. Se tutte le opinioni hanno uguale valore, il credo degli antidemocratici pesa quanto quello dei democratici, e infatti tutti i neofascisti d’Europa sono saliti sul carro del postmoderno” (181).

 

E ancora:

 

Un egualitarismo travisato ci impedisce di apprezzare gli altri. «Nessuno è migliore di nessuno» è un’affermazione stupida da quanto è degradante: un uomo che aiuta gli altri e uno che li tortura non sono affatto uguali: Hitler non è lo stesso che Mandela” (176).

 

C’è, per Marina, un carattere reazionario nella visione fintamente progressiva del relativismo. In questo senso la distanza da Gardner è notevole. A suo dire, esistono società stupide tanto quanto esistono società intelligenti:

 

la società spagnola settecentesca che inneggiava alle catene, quella francese che plaudì la furia bellicosa e avida di Napoleone, quella tedesca che osannò Hitler lasciandosi contagiare dai suoi vaneggiamenti; la società industriale avanzata, fautrice di un sistema economico che sfrutta in modo indiscriminato la natura, di uno stile di vita in cui il lavoro e la famiglia sono incompatibili o di una globalizzazione che aumenta il divario fra Paesi ricchi e poveri, sono esempi di fallimento dell’intelligenza condivisa” [157-8].

 

E spiega:

 

Che cosa intendo per intelligenza sociale, comunitaria, condivisa o come preferite chiamarla? Non è un’intelligenza che si occupa delle relazioni sociali, ma che da essa sorge. Potremmo definirla un’intelligenza conversazionale. Quando due persone parlano, infatti, ognuna apporta il suo sapere, le sue capacità, la propria arguzia, ma la conversazione non è la loro somma, poiché l’interazione può spronarle o limitarle. È sicuramente capitato a tutti che certe relazioni ci stimolano, suscitano in noi nuove idee, risvegliano una perspicacia che nemmeno sospettavamo di avere. Altre, all’opposto, ci lasciano depressi, istupiditi: la conversazione è a poco a poco scivolata nella mediocrità, nel pettegolezzo e nella banalità, impoverendo entrambi. Io sono sempre lo stesso, ma una di quelle circostanze ha attivato la parte migliore di me, e l’altra la peggiore” (158).

 

Che se ne fa l’insegnante, chiediamoci, di queste riflessioni?
Dobbiamo ricordare che nelle indicazioni programmatiche del Quadro Comune al docente è assegnato un ruolo positivo nel contribuire alla formazione del “saper essere” dello studente. Si tratta di un contributo che si costruisce proprio sui tanti interrogativi presenti nel testi di Marina, come per esempio: Quale convinzioni nutre lo studente sulla sua persona e sul suo ruolo di apprendente? Se si tratta di convinzioni limitanti, è possibile decostruirle? Quali pregiudizi può manifestare nei confronti dei compagni che non hanno il suo stile di apprendimento? Come è possibile fare della classe una microsocietà intelligente? Come poter creare una mente flessibile, autonoma, critica, ben fatta? Quali sono le strategie attraverso le quali lo studente impara a autoregolarsi? E così via.
Rispondere ad esse richiede pazienza, sperimentazione, costanza, tanto quanto, dice Marina, lo richiede uno studio di una lingua straniera. Diventare persone che sanno usare intelligentemente la propria intelligenza, consci del contesto in cui operano, ha effettivamente a che fare con la capacità di trovare un nuovo modo di leggere il mondo, di capire se stessi, di definire di volta in volta, il difficile equilibrio tra il benessere personale e quello dei propri simili.  

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