Novembre 2015  Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792
Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni
G. Priulla, Parole tossiche di Paolo Torresan

 

AUTORE: G. Priulla

TITOLO: Parole tossiche. Cronache di ordinario sessismo 

CITTÀ: Settenove     

EDITORE: Cagli

ANNO: 2014

 

Stiamo scrivendo questa recensione in un tiepido pomeriggio d’ottobre. Prima di accingerci a commentare il libro di Graziella Priulla ci vengono in mente un paio episodi a cui assistemmo queste sere alla TV:

  • l’allenatore della squadra di calcio dell’Arezzo si rivolge ai suoi “Siete una banda di pezzi di merda” (non molto diverso era l’epiteto usato da Antonio Conte – per riferirci a un nome più illustre – nei confronti dei giornalisti, un paio di anni fa, rei di aver tifato per la squadra avversaria)
  • nel programma “Le iene”, Francesco Totti si rivolge ai comici Paolo e Luca apostrofandoli, “merdine” (vezzeggiativo?)
  • Formigoni qualifica il vicedirettore del Corriere, Giangiacomo Schiavi “pezzo di emme” (la dice lunga il fatto di non aver completato la parola).

Se gli ultimi due non hanno avuto modo di ragionare sul proprio linguaggio –come se si trattasse di una normale routine linguistica– il primo sì. “Eziolino lo squartatore”, l’allenatore-trash, al microfono dell’inviato Staffelli, si dice “uomo vero”: ritiene che il suo linguaggio abbia il pregio dell’autenticità.
Ci chiediamo se anche i nazisti che trattavano gli internati come “cose” su cui esercitare violenza fisica e psicologica – così è nel ricordo trasmessomi da mio padre, prigioniero politico nella Germania dei primi anni ‘40 – si sentissero “uomini veri”. E mi chiedo se la gentilezza, la parola rispettosa, che ha un senso del limite e del confine, che sa argomentare senza dare del rifiuto all’altro, sia talmente evaporata, da presentarsi, quando appare, come “non vera”, “falsa”, sinonimo di “perbenismo”, di “buonismo” (altro mantra che declassa l’attenzione all’altro a un motto poco sincero –e che spazza via in un solo colpo doti come la delicatezza e l’autodisciplina).
Perché allora, oltre al danno (l’offesa), c’è la beffa (“che c’è di male? Sono un uomo vero”)?

Scrive Priulla (41):

Oggi il rifiuto di ogni istanza etica viene regolarmente espresso con la domanda “che male c’è?”. Di fronte a qualsiasi richiamo si decide che a sbagliare è chi formula l’osservazione, irriso come personaggio fuori dal tempo, bollato come persona che non capisce, che non è neppure autorizzata a richiamarsi a qualche principio, a qualche regola. Ogni riflessione che s’interroghi sulla questione del limite o perfino della legalità è automaticamente tacciata di moralismo, epiteto che sa di esagerazione e di colpa.
Chi lo fa è costretto a difendersi o a fare una premessa (“non sono un moralista ma…”) che gli toglie chanches in partenza e lo mette all’angolo. Diventa lui quello che deve giustificarsi.

La frase di chiusura di questo ragionamento ci fa venire in mente, per analogia, il comportamento di un relatore di un’università californiana, il quale, prima di parlare alla platea di “giustizia sociale e rispetto dell’ambiente” ci tenne a precisare che lui non era “socialista” –come se una visione politica di questo genere potesse esser percepita dall’uditorio di Santa Monica come pericolosa, scomoda, in-giustificabile, tabù.

Ad ogni modo, tornando al tema del saggio, ci viene da parafrasare la denuncia di Priulla, dicendo che è come se ci fosse un nazifascismo linguistico diffuso, e poiché affidato alla natura eterea del linguaggio, assai difficile da rilevare, da analizzare, nella sua apoditticità senza riserve, nella sua sicumera priva di contenuti, nel suo pensiero unico e inarticolato, nel suo narcisismo borderline. È l’etica del “tutto posso (dire)”, di un anarchismo che attraversa destra, sinistra, alto e basso, centro e periferia. Chissà se un giorno questa società di padri e madri psicologicamente adolescenti, responsabili di un sistema economico a tutto svantaggio delle nuove generazioni (costrette a far la valigia ed ad andarsene, zitte e mazziate: “bamboccioni”), se questo post-sessantottismo aggressivo (Pasolini insegnò) e narcisista (vivissimo anche a destra, si apprezzi il savoir faire dell’ex compagno Ferrara o gli eufemismi dell’ex militante di sinistra Bossi), troveranno mai una generazione negli anni a venire che ne metterà a nudo le contraddizioni, gli inganni, le debolezze e l’inconsistenza, l’arraffa-arraffa (si veda la lotta per i privilegi anche a sinistra) in nome della nuova religione: l’economia 2.0, che livella le differenze.

Il libro di Graziella Priulla era da tempo che lo cercavamo. Era da quando in Inghilterra era uscito “Impoliteness” di Jonathan Culpeper (Cambridge University Press), anni fa, che ci chiedevamo quando la pragmatica dell’italiano avrebbe messo a nudo forse la caratteristica che noi –italiani- pensiamo la più lontana dal nostro essere: la violenza, proiettata troppo spesso su altri paesi e altri popoli. Nello stereotipo tutto sole e mandolino, vecchio di oltre un secolo, non c’è posto per il lato “gloomy” della nostra anima: quello dell’offesa, dell’attacco, dell’individualismo spietato e incurante, tale per cui l’altro che polemizza è una bestia, a destra (“capra” è il mantra dello sgarbismo, ma come dimenticare l’“orango” dato alla Kyenge da Calderoli e silenziosamente tollerato dal PD?), ed è un idiota, a sinistra (“Connetta i due neuroni che ha” diceva Marino alla contestatrice in piazza). L’altro viene respinto in quanto “coglione” (così Berlusconi qualificava chi non lo avesse votato), in quanto “puttana” (lodi pentastellate in direzione Boldrini), in quanto “becero frociame” (omaggi resi a Vedola dall’illustrissimo Paolo Trudu, addetto stampa PDL della regione Sardegna). Si potrà dire che è la politica, e che la politica ha un’assonanza con polemos, la guerra.
Sarà. Il fatto è che il truce, l’offesa, la berlina, la messa in ridicolo (ci ricordiamo Berlusconi che insultava la Bindi o Grillo che offendeva la Montalcini?) solletica gli umori, fa sentire solidali, se non addirittura diverte – nel senso etimologico del termine: porta l’attenzione su altro, al punto da spegnere la logica ed accendere serbatoi di rabbia. E se la rabbia si concentra –come i raggi attraverso lente – sul capro da immolare (sarà casuale la scelta zoologica di Sgarbi?), ci si sentirà forti, poiché si è dalla parte dei forti, come se il Fantozzi che ciascuno ha dentro fosse al riparo dal rischio di essere preso a bersaglio. 
Prova di questa diffusione della violenza ne siano, tra l’altro, i video postati su Corriere.it e Repubblica.it l’indomani dei programmi televisivi di opinione: o spunta la boutade del comico o si mette in bella mostra il linciaggio reciproco dei politici nei talk show, nuove arene a portata di telecomando (nelle quali ci si parla sopra, ci si parla contro, ci si parla addosso, ma raramente ci si parla e basta).

Era da tempo, dicevamo, che eravamo in attesa di questo libro. Tuttavia, guardavamo nella direzione sbagliata. Ci saremmo aspettati che un linguista avrebbe rappresentato la rudezza che abita i nostri tempi –dal salotto televisivo all’ufficio pubblico, dall’accademia alla scuola. E invece no. Sarebbe stata una sociologa, con la sua finissima sensibilità per il linguaggio e una virtù narrativa non comune, ad illuminare le zone d’ombra (p. 8):

Una società in cui si possa insultare o denigrare un essere umano senza essere giudicati male è a rischio di barbarie e testimonia un fallimento delle agenzie regolative.

Lasciamo al lettore la curiosità di sfogliare il libro, senza anticipare la rassegna impietosa, documentatissima, dell’atteggiamento sessista, omofobo, razzista, violento, che si manifesta nell’italiano di oggi, ed è forse il segno più evidente di una crisi di cui il dissesto economico è solo un epifenomeno. Una crisi, in merito alla quale gli intellettuali capaci di analisi sono, malauguratamente, troppo pochi.

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