Novembre 2015  Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792
Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni
G. Cook, Translation in Language Teaching di Paolo Torresan

AUTORE: G. Cook

TITOLO: Translation in Language Teaching

CITTÀ: Oxford    

EDITORE: Oxford University Press   

ANNO: 2010

 

Translation in Language Teaching, a firma di Guy Cook, rappresenta uno tra i libri più belli che ci sia capitato di leggere negli ultimi anni. L’autore ripercorre la storia di approcci e metodi mettendo in luce – con puntualità e una prosa chiarissima – come e in che misura la traduzione sia stata considerata in glottodidattica. 
Possiamo definire la traduzione come la ‘bella addormentata nel bosco’: dopo un ostracismo durato quasi un secolo (dal metodo diretto alle varie forme dell’approccio comunicativo), punteggiato di rare ‘concessioni (com’è avvenuto nell’ambito suggestopedico e in quello del Community Language Learning), la traduzione ha riacquistato negli ultimi vent’anni una nuova dignità.
Forse è con il saggio di Vivian Cook (non Guy) (2011, “Using the First Language in the Classroom”, Canadian Modern Language Review, 57, 3, 399-423), in piena temperie comunicativa, che l’uso della L1 (e quindi della traduzione) riceve una giustificazione: non si tratta più di bandire o acconsentire alla L1 tout court, quanto di pensare a un suo uso strategico, in grado di rendere più agevoli alcuni momenti della lezione (come la spiegazione di regole o di norme disciplinari, l’allestire parentesi metacognitive, ecc.).
L’ottica di Cook non è tanto quella dello sviluppo di un’expertise ‘doppia’, intesa come somma di competenze (separate) in due o più lingue, quanto quella della formazione di un’unica abilità, intesa come capacità di mediare tra lingue e culture. Il nativo non è più il modello (dinanzi al quale l’apprendente adulto di una lingua può sempre sentirsi in difetto); piuttosto si trae ispirazione dal modello offerto dal traduttore e dall’interprete, professionalità iin grado di traghettare verso paesaggi linguistici nuovi. A dire di Guy Cook, l’imporsi del divieto di ricorrere alla L1 nell’aula di lingua può essere letto come una forma di imperialismo linguistico; si nega ciò che è proprio dell’apprendente (la propria lingua e cultura) nella convinzione che la L1 possa costituire un ostacolo, quando invece, in alcuni casi, può velocizzare la comprensione di un termine o di un concetto, rendere meno ansiogeno l’impatto con la lingua altra, e infine prevenire transfer negativi. Sulla scorta di una riflessione che già Widdowson fece propria (2003, Definining Issues in Language Teaching, OUP, Oxford, pp. 149-165), Guy Cook sottolinea (p. 49):
 

“To proceed as though the learners’ languages do not exist, attempting to induct learners into a local monolingual native-speaker perspective, is deeply to misunderstand what is happening. Learners will always relate the new language to their own, even if only in their own minds, and if forbidden, will continue to do so as a means of resistance”.

In merito all’imperialismo serpeggiante associabile al metodo diretto, l’analisi di Cook è spietata (p. 18-19):

“There was also commercial and political self-interest behind the advocacy of Direct Method. It allowed publishing houses and private language schools to produce courses which could be taught to all corners by any teacher and therefore marketed worldwide. For those nations whose languages were to be taught by Direct Method, there was political and commercial advantage in the export of native-speakers as teachers and experts, in the trend for students to learn in the country where the language was spoken, and in the general spread of influence which the new dispensation entailed. It is perhaps no coincidence that the Direct Method originated just as the English language publishing industry entered a new period of mass production, and drew upon ideas developed in Europe’s two most powerful industrial nations, Britain and Germany, in the heyday of European Nationalism. Direct Method was in tune with the mass production, nation building, and imperialism. The chilling slogan:

‘One Nation, One People, One Language’

Can easily be rewritten for English Language Teaching:

‘One Class, One Learner, One Language’

Più in generale, riconosciamo come la ‘riscoperta’ della traduzione, all’interno di una cornice comunicativa – com’è avvenuto per il dettato e  per il drill – può essere letto come un riconoscimento delle strategie di attenzione alla forma (noticing) che si sono fatte strada nella stagione comunicativa, in contrasto con lo spontaneismo che caratterizzò la prospettiva di Krashen e Terrell (a loro modo di vedere, l’output è l’epifenomeno dell’esposizione a un input controllato) 
La riflessione metodologica, nel volume oggetto di recensione, è piuttosto povera, a dire il vero (rimandiamo, per questo, ad altri testi sull’argomento già segnalati  nel Bollettino, come quello scritto da Sheelagh Deller e da Mario Rinvolucri o il volume prezioso di Maria Gonzales Davies, recensito nell’ultimo numero); la bellezza del libro sta piuttosto nell’agilità argomentativa e nell’amplissima e acuta ricostruzione ‘filologica’.
 

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