Febbraio 2007  Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792
Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni
L’intelligenza emozionale nella classe di lingua di Ana Robles

INTRODUZIONE

 

Howard Gardner (1993:7) definisce l’intelligenza come “l’insieme di capacità che permette di risolvere problemi o fabbricare prodotti che vengono valorizzati all’interno di una o più culture”. Tra i nove tipi di intelligenza che Gardner descrive, due, l’intelligenza intrapersonale e l’intelligenza interpersonale, si riferiscono all’abilità di comprendere le emozioni e di risolvere i problemi che esse suscitano. Per questo si utilizza con una certa frequenza il termine di “intelligenza emozionale” per riferirsi in maniera congiunta alle intelligenza intra- e interpersonale.

 

Possiamo dire a grandi linee che l’intelligenza interpersonale è quella che ci permette di capire gli altri, mentre l’intelligenza intrapersonale è quella che utilizziamo per comprendere noi stessi. Entrambe sono imprescindibili per portare a termine qualsiasi attività che intraprendiamo, incluso l’apprendimento di una lingua straniera. Quando sosteniamo un esame, oltre a essere ben preparati e conoscere la materia, dobbiamo anche riuscire a tener l’ansia sotto controllo. In effetti, molti studenti ottengono dei risultati insoddisfacenti non tanto per una conoscenza lacunosa, quanto perché non hanno imparato a mantener la calma. Allo stesso modo, il motivo popolare “cada maestrillo tiene su librillo” [ogni maestro ha il suo proprio libretto, nel senso di metodo di insegnamento] manifesta un dato di fatto: conoscere il professore e il suo modo di pensare permette agli alunni di orientare il loro lavoro in un senso o in un altro.

 

La teoria di Gardner mette in rilievo qualcosa che già sapevamo in maniera intuitiva e che cioè lo sviluppo emotivo determina il modo in cui ciascuno di noi reagisce di fronte alla frustrazione, all’insicurezza e alla confusione, che sono parte inevitabile di qualsiasi processo di apprendimento, oppure, detto altrimenti: la nostra capacità di apprendere è strettamente collegata al grado di sviluppo della nostra intelligenza emotiva.

 

Eppure Gardner introduce una modifica sostanziale alla nostra idea di intelligenza. Nella Teoria delle Intelligenze Multiple qualsiasi intelligenza è intesa non già come qualcosa di innato e immodificabile, bensì come una capacità educabile. Ciò apre, per chi insegna, nuove possibilità ed è motivo di sfida. Innanzitutto va da sé che non ci è possibile ignorare l’influenza delle emozioni nell’apprendimento dei nostri studenti e continuare a concentrarci solo sugli aspetti cognitivi. In secondo luogo, dato che l’intelligenza emozionale esercita una certa influenza sull’apprendimento ed è educabile, torna utile lavorare in classe con metodi che aiutino a far leva sullo sviluppo emotivo degli alunni, favorendone il processo di apprendimento.

 

Abbiamo bisogno, pertanto, di definire il nostro campo di azione e i nostri obiettivi.

Il nostro campo di azione è ovviamente relativo alle intelligenze intra- e interpersonale.

Sappiamo che queste intelligenze, come ogni altra intelligenza individuata da Gardner, presuppongono strategie o capacità elementari, le quali si sviluppano una volta che l’individuo assume un’attitudine adeguata. Se il nostro obiettivo è quello di facilitare lo sviluppo di queste intelligenze, dovremmo considerare allora il complesso delle capacità che sottostanno alle stesse intelligenze, nonché il sistema di attitudini che facilita tale processo.

In questo contributo intendiamo, di conseguenza, determinare che cos’è l’intelligenza emozionale, e definire, dunque, il complesso di capacità o attitudini che ne permettono lo sviluppo […].

 

 

2. CHE COS’È L’INTELLIGENZA INTRAPERSONALE?

 

L’intelligenza intrapersonale consiste, secondo Gardner, nell’insieme di capacità che ci permettono di formare un modello attendibile di noi stessi, e quindi di utilizzare questo modello per poterci realizzare nella vita. L’intelligenza personale è, in altre parole, quella che ci consente di distinguere un sentimento da un altro, e quindi di conoscere noi stessi. Nonostante non ci siano attività concrete associate a questa intelligenza, possiamo sapere se qualcuno la possiede o meno, considerando come utilizza le restanti otto, dal momento in cui è l’intelligenza intrapersonale che ci fa consapevoli di quali sono le nostre qualità e i nostri punti deboli. In sostanza, senza questa intelligenza è impossibile sapere quali sono le qualità che possediamo, relative alle altre intelligenze. Anche la capacità di imparare dagli errori commessi è propria dell’intelligenza intrapersonale, il che la converte in un elemento essenziale di ogni processo di apprendimento.

Secondo la formulazione di Salovey e Mayer, raccolta da Goleman (1995), l’intelligenza emozionale si articola in cinque grandi capacità, tre delle quali sono relative all’intelligenza intrapersonale e due all’intelligenza interpersonale.

 

Le tre capacità relative all’intelligenza intrapersonale sono:

 

  • la capacità di percepire le proprie emozioni;

 

  • la capacità di controllare le proprie emozioni;

 

  • la capacità di automotivarsi

 

 

2.1. LA CAPACITÀ DI PERCEPIRE LE PROPRIE EMOZIONI

 

Conoscere e controllare le emozioni è fondamentale per poter vivere una vita soddisfacente. Se non si avvertono le emozioni, è impossibile prendere decisioni, come dimostrano gli studi realizzati da Damasio. L’intelligenza emozionale si basa su questa capacità di riconoscere i sentimenti; senza la quale è impossibile alcun controllo. Si tratta di un processo che si articola in due passi:

 

  • 1. accorgerci di quello che stiamo sentendo;

 

  • 2. identificare questa sensazione e dargli un nome.

 

 

2.1.1. RENDERCI CONTO DI QUELLO CHE STIAMO SENTENDO

 

Sapere quello che stiamo sentendo in ogni momento implica prestare attenzione al nostro stato interno, identificare le nostre sensazioni e classificarle secondo la categoria corrispondente.

Una reazione molto comune quando succede qualcosa che ci dà fastidio (per esempio un alunno che disturba la lezione) è quella di ignorare la sensazione spiacevole. In genere, tendiamo a evitare le sensazioni che ci risultano spiacevoli, scomode, e quelle che non corrispondono all’idea che ci facciamo dei sentimenti che dovremmo sentire. La maniera più facile per evitare queste sensazioni è appunto quella di non prestargli attenzione.

 

Ignorare le nostre emozioni ci causa due tipi di problemi. In primo luogo, il fatto di non prestar loro attenzione non ci aiuta a poterle controllare, non sviluppiamo cioè la nostra intelligenza emozionale; inoltre, è molto probabile che prima o poi divampino e ci colgano di sorpresa quando meno ce lo aspettiamo.

 

Le emozioni sono il risultato del nostro modo di interpretare le cose che ci succedono. Il fatto che piova può essere causa di tristezza o di serenità, a seconda del fatto che a uno la pioggia piaccia o meno. In sostanza le emozioni sono il prodotto di un’attività mentale, che andiamo a sperimentare a livello fisico. Sono il punto di intersezione tra la mente e il corpo: riconoscerle passa attraverso la consapevolezza delle sensazioni fisiche che esse provocano.

Tutti proviamo tensione, felicità o tristezza; l’esperienza fisica però di queste emozioni varia da persona a persona. La tensione, per esempio, può essere avvertita come una contrazione dei muscoli del collo o come un peso allo stomaco.

Il nostro corpo ci manda segnali continuamente, non c’è che da prestargli attenzione. Come segnala il tuo corpo il fatto che una certa attività non ti piace? In quale parte o in quali parti del corpo si concentrano le sensazioni? Di che tipo sono? Che intensità hanno? Nell’arco di alcune giornate, presta attenzione alle sensazioni che provi in momenti distinti del giorno e in distinte situazioni, fino a che puoi identificare i diversi tipi di segnali che il tuo corpo ti invia in questa o quella tal circostanza.

 

Prendere coscienza di quello che sentiamo significa, tra l’altro, imparare a valutare l’intensità delle emozioni. Se notiamo le emozioni solamente quando sono molto intense, siamo alla loro mercé; piuttosto si tratta di apprendere a prestare attenzione ai primi indizi di un’emozione, senza aspettare che trabocchi.

 

 

2.1.2. IDENTIFICARE QUELLO CHE STIAMO SENTENDO

 

Il secondo passo consiste nell’imparare a distinguere le emozioni. Quando avvertiamo di provare qualcosa e lo identifichiamo, lo possiamo esprimere.

Le emozioni tendono ad avere dei confini imprecisi e ad essere cangianti. Il fatto di dargli un nome, significa porgli dei limiti. Identificare le nostre emozioni con precisione è dunque il primo passo per poterle controllare.

Inoltre, una volta conferitogli un nome, ci è permesso di parlarne, ed è già questa una forma di azione. “Non so quello che provo” è un modo di lamentarsi comune, soprattutto nella fase dell’adolescenza. Quando non sappiamo quello che proviamo, è arduo poterlo cambiare: non sappiamo appunto cosa cambiare e come esprimerlo.

Renderci conto di quello che stiamo sentendo implica, del resto, prendere coscienza di come lo interpretiamo. Ciascuno di noi mantiene un dialogo interno costante. Questo dialogo interno, che ci è utile a fornire a noi stessi una spiegazione delle esperienze che andiamo vivendo, esercita un’influenza decisiva sulla capacità di controllare le emozioni.

 

 

2.2. LA CAPACITÀ DI CONTROLLARE LE PROPRIE EMOZIONI

 

Sapere ciò che proviamo è la conditio sine qua non per controllare i nostri stati d’animo; tuttavia, consapevolezza e controllo sono due capacità che non sempre si presentano congiunte. Ci sono persone che imparano a percepire le proprie emozioni con una notevole finezza e che però non riescono a gestirle.

 

La parola chiave è “apprendimento”. Non si nasce emozionalmente intelligenti, nonostante in tutti ci sia un propensione genetica. Di fatto, l’intelligenza emozionale, la si apprende. Non ci aspettiamo, in effetti, che un bambino sappia controllare le sue emozioni, però ci sorprende che non lo sappia fare un adulto. Certamente ciascuno di noi si è lasciato prima o poi sorprendere dall’ira, dalla tristezza o dall’euforia; però non tutti si lasciano trascinare delle emozioni con la stessa frequenza.

 

Apprendere a controllare i nostri stati d’animo implica che ci distacchiamo da essi e riflettiamo su cosa stiamo provando e sul modo in cui proviamo un certo sentimento. La presa di coscienza del nostro dialogo interno, delle cose che diciamo a noi stessi in ogni momento, presuppone già un certo distanziamento e una forma di consapevolezza.

 

Quando prestiamo attenzione al nostro dialogo interno, prestiamo attenzione al nostro modo di interpretare quello che accade, incluse le sensazioni fisiche che sono in relazione con le nostre emozioni. Ciò che spesso scopriamo è che il nostro modo di parlare di noi a noi stessi può intensificare o placare le nostre emozioni […]. Il nostro dialogo interno, il più delle volte, è costituito da giudizi su ciò che sentiamo: non dovrei provare questo, sono uno stupido, ecc. La presa di coscienza del nostro modo di rivolgerci a noi stessi ci permette di decidere se esso sia il modo più adeguato e ci permette di giungere ad un processo di riflessione ancora più profondo, nel quale, in luogo dei giudizi di valore su ciò che proviamo, definendolo desiderabile o meno, ci impegniamo, in primis, a identificare l’origine reale delle nostre emozioni, quindi a valutare quindi se ci sono alternative e, infine, ad agire.

È importante risalire all’origine reale delle nostre emozioni, dato che spesso ciò che sentiamo in un dato momento non è altro che la conseguenza di un’emozione più profonda. Per esempio, molte volte, la rabbia è il risultato della paura. Cause diverse possono portare a risposte diverse, e il semplice fatto di riflettere sull’origine della reazione, ne facilita il controllo.

 

Poco tempo fa un collega mi raccontava del fatto che per molto tempo la sua maniera di reagire alla richiesta in massa di spiegazioni da parte degli studenti, lo preoccupava. Cominciava a diventare nervoso, sino a quando perdeva il controllo e si arrabbiava con il gruppo. Benché non gli piacesse il suo modo di reagire, non era capace di controllarsi. Ciò si verificò fino al momento in cui si rese conto che non era tanto la valanga di domande a irritarlo, quanto la convinzione che essa fosse dovuta ad una sua mancata competenza. Rendersi conto di questa insicurezza profonda gli permise, alla fine, di imparare a dominare il proprio stato d’animo.

Determinare le alternative significa rendersi conto che il fatto di provare una certa emozione non ci obbliga ad agire solo in un certo modo. Quando qualcuno mi aggredisce non devo necessariamente rispondere con un’aggressione. Se alla domanda: “Perché lo hai picchiato?”, il bambino risponde “Perché è stato lui a cominciare per primo” è evidente che, a suo modo di vedere, si dà un’unica risposta possibile. “Non c’è nulla più pericoloso per un’idea, del fatto di essere l’unica” disse qualcuno; ciò è quanto mai vero in riferimento a come reagiamo ai nostri stati d’animo; se siamo capaci di reagire solo in una certa maniera, siamo prigionieri di noi stessi.

Quando abbiamo diverse alternative possibili, possiamo scegliere, invece, la più adeguata e agire di conseguenza. In riferimento alle emozioni, possiamo, ovviamente, decidere di rimanere come stiamo o tentare di cambiare l’emozione che stiamo provando. Ogni situazione è diversa e non ci sono regole che dettino cosa si deve fare.

 

In ogni caso, se decido di cambiare le mie emozioni, posso agire in due modi: indirettamente, con attività che mi aiutino a distrarre l’attenzione, come andare al cinema o ascoltare musica, oppure direttamente, agendo sul processo del pensiero –cambiando, per esempio, il dialogo interno.

 

Imparare a reinterpretare la situazione e le nostre emozioni è un modo, dunque, di intervenire direttamente sul nostro stato emotivo al fine di modificarlo. Reinterpretare la situazione significa cambiarne il significato. La bottiglia è mezza vuota o mezza piena? Il fatto che un alunno si arrabbi in classe è un attacco a me o è un effetto del fatto che cerca la mia attenzione? L’errore è un fallimento o semplicemente uno sprone a migliorare? La stessa identica situazione si può interpretare in molti modi; a seconda dell’interpretazione dipende il fatto che si provino determinati sentimenti o altri. Ovviamente la scelta consapevole dell’interpretazione più adeguata, passa per quanto dicevamo prima, cioè la consapevolezza di quello che stiamo provando, l’identificazione dell’origine del sentimento e la ricerca di alternative.

 

Tornando al caso dell’insegnante che perdeva le staffe quando gli facevano tante domande alla volta, nel momento in cui egli arrivò al nocciolo del problema, poté reinterpretare le domande degli allievi in modo che ciò non lo irritasse più. Rendersi conto del fatto che si può agire sul proprio processo di pensiero è un cambiamento spesso rivoluzionario, generatore di trasformazioni, dato che presuppone la presa di coscienza del ruolo che ciascuno di noi assume nella creazione dei sentimenti che prova.

 

Tutto ciò fa a pugni con la visione tanto diffusa che uno non può cambiare la sua personalità, intendendo per personalità la maniera abituale di reagire. “Io son fatto così è sinonimo di “non c’è niente da fare”. Lo studente che non riesce a contenersi (“io sono molto nervoso”), quello che non impara (“questa lingua non mi va giù”) e quello che non si impegna (“sono pigro”), sono vittime della convinzione che non è possibile far nulla per cambiare. E questa convinzione rende impossibile qualsiasi genere di cambiamento. Perciò, come prima cosa, è bene che abbiamo ben chiaro il fatto che ciascuno di noi ha la capacità di imparare a intervenire sulle proprie emozioni.

 

 

2.3. LA CAPACITÀ DI AUTOMOTIVARSI

 

La terza grande abilità su cui si basa l’intelligenza intrapersonale è la capacità di automotivarsi, ovvero la capacità di generare una forza che ci stimola a realizzare determinate attività. Siamo motivati quando abbiamo la volontà di fare qualcosa e siamo capaci di perseverare nello sforzo che questa azione richiede durante tutto il tempo necessario per realizzare l’obiettivo che ci siamo prefissati. […]

Parlando della capacità di controllare le emozioni, abbiamo chiarito il fatto che uno che non crede che le emozioni possano essere cambiate non le cambierà mai; allo stesso modo, se non maturiamo un atteggiamento che ci permette di credere che sia possibile darci coraggio e motivarci, non potremmo sviluppare tali abilità.

L’atteggiamento gioca un ruolo fondamentale per la motivazione anche per un altro motivo. Affinché qualcosa mi interessi e affinché si generi in me la forza che mi spinge ad agire, è necessario che io lo ritenga interessante e attraente . Affinché ottenere un buon voto mi motivi a studiare, occorre in primo luogo che io abbia già deciso che raggiungere un certo voto mi interessa veramente; se, altrimenti, mi accontento (sia io cosciente o meno di questo atteggiamento, poco importa) della sufficienza (o di un’insufficienza), è naturale che non compirò alcuno sforzo per cercare di avere un voto migliore.

 

Robert Dilts (1990), una tra le figure più importanti della PNL [Programmazione Neurolinguistica], sostiene che gli atteggiamenti sono filtri attraverso i quali percepiamo la realtà. Il ruolo di questi filtri è quello di aiutarci a formarci delle opinioni. Opinioni e atteggiamenti non sono né veri né falsi, possono essere invece più o meno utili. Quando un alunno dice che un esercizio è difficile, non sta descrivendo «la» realtà, piuttosto la «sua» realtà. L’importante non è sapere se l’alunno abbia o non abbia ragione, e quindi determinare se l’esercizio sia difficile o facile, quanto invece sapere se la sua opinione lo aiuta a completare il lavoro o meno. Sviluppare un atteggiamento adeguato diventa pertanto un pezzo fondamentale dell’intelligenza emozionale.

 

La motivazione è la risultante tra le mie attitudini e ciò che mi offre il mondo esterno; dipende inoltre dal possesso di strategie e metodi che mi consentono di conservare questo sforzo durante il tempo necessario. Una delle strategie di base è collegata alla definizione degli obiettivi che si vogliono raggiungere. Quando uno non sa ciò che vuole, non può nemmeno impegnarsi per poterlo conseguire. Non basta che sappia ciò che «non vuole», se appunto non sa quello che «vuole». Quando abbiamo un’idea chiara di quello che vogliamo, possiamo [invece] passare a pianificare i modi che permettono di raggiungere questo obiettivo. Al contrario, se tutta la nostra attenzione è concentrata solo su quello che «non vogliamo», ciò di cui avremo bisogno sono diversi modi per poter evitare questo «male».

 

Fissarsi degli obiettivi non è la stessa cosa che pensare a ciò che desideriamo. I desideri non implicano alcuna attività da parte nostra, mentre gli obiettivi richiedono un piano di azione che dipende dal soggetto. Mi piacerebbe vincere la lotteria, è un desiderio; mi impegno affinché avrò un aumento di stipendio, è un obiettivo. Quanto più definiti sono gli obiettivi, quanto più facile sarà conseguirli. Essere promossi è un obiettivo troppo generico; Studiare ogni giorno e fare delle domande di chiarimento per ogni dubbio, sono invece obiettivi più precisi e più facili da conseguire.

 

La regole fondamentale relative agli obiettivi è pertanto: formularli positivamente, con chiarezza e precisione, e in modo che risultino dipendere dai noi stessi. Spero che il professore mi promuova, non è un obiettivo che dipende da chi lo ha formulato, piuttosto è un desiderio. Memorizzare una lista di parole, è invece un obiettivo. Imparare a formulare obiettivi con precisione implica allo stesso tempo stabilire un piano di azione che tenga conto dei mezzi di cui si dispone, considerando quali sono i nostri punti di forza e i nostri punti deboli, e quindi formandoci un’immagine veritiera di noi stessi.

 

 

3. CHE COS’È L’INTELLIGENZA INTERPERSONALE?

 

Se l’intelligenza intrapersonale è quella che ci permette di capire noi stessi, quella interpersonale è quella che ci consente di capire i sentimenti e le motivazioni degli altri e di entrare in contatto con loro. Qualsiasi professionista il cui lavoro gli impone di mettersi in relazione con altri, ha bisogno di questo tipo di intelligenza per svolgere la sua attività. Gli insegnanti, i commercianti e i politici sono esempi di mestieri che dipendono molto da questo tipo di intelligenza, anche se, molto probabilmente, non c’è professione che possa fare a meno, prima o poi, della capacità di capire gli altri. Nella vita quotidiana, l’intelligenza interpersonale è quella che ci guida nella scelta degli amici, ci fa render conto se qualcuno ci sta mentendo, ci permette di creare nuove relazioni quando arriviamo in un posto dove non conosciamo nessuno.

 

L’intelligenza interpersonale si basa sullo sviluppo di due abilità:

 

  • l’empatia
     

  • la capacità di gestire le relazioni.

 

 

3.1. L’EMPATIA

 

L’empatia è l’insieme delle capacità che ci consentono di riconoscere e di capire le emozioni degli altri, le loro motivazioni e le ragioni che spiegano il loro comportamento. L’empatia suppone ci si sappia mettere nei panni dell’altro, si entri nel suo mondo e si vedano le cose dal suo punto di vista, si provi quello che l’altro prova, si ascolti quello che l’altro ascolta. Questo però non significa che debba piacere il modo di pensare dell’altro né che si debba accettare il suo punto di vista, approvando il suo modo di intendere la realtà. La simpatia implica un giudizio di valore (mi piace quello che l’altro pensa), mentre l’empatia non emette alcun giudizio.

 

Non si deve nemmeno confondere l’empatia con la bontà. Abili truffatori hanno un’elevata intelligenza interpersonale, che permette loro di capire le persone che vogliono abbindolare. Come per qualsiasi altra capacità, il fatto che l’empatia si usi per il bene o per il male, dipende dal sistema di valori della persona che possiede tale capacità. In ogni caso, capire l’altro, entrare nel suo mondo e far proprio il suo modo di pensare, presuppone una sospensione temporale del proprio mondo, della propria maniera di vedere le cose. Questa capacità di vedere le cose dal punto di vista dell’altro si basa, ancora una volta, sull’insieme di alcune strategie di base da un lato, e sull’insieme di alcune attitudini dall’altro.

 

Un’attitudine senza la quale non si dà alcuna empatia consiste nell’ammettere che la stessa realtà può essere interpretata in molti modi e che questi diversi modi possono essere parimenti validi. […]

 

Tra le strategie di base utili allo sviluppo dell’empatia, vi è la capacità di ascoltare. Siamo capaci di ascoltare nel momento in cui poniamo tutta la nostra attenzione nell’altro, con l’obiettivo di capire quello che realmente ci vuole dire, sospendendo ogni giudizio di valore durante l’ascolto.

 

Molti di noi, nel momento in cui sono coinvolti in una conversazione, si trovano impegnati a pensare a quello che diranno oppure a giudicare le parole dell’altro in funzione del proprio schema di valori. Al contrario, quando riusciamo ad ascoltare veramente, riusciamo a capire l’altro. […]

 

L’attenzione all’altro, la esprimiamo con il corpo. Tendiamo a sincronizzare la voce, la postura, i gesti, e persino il ritmo respiratorio a quelli dell’interlocutore. […] Il messaggio non verbale che trasmettiamo ha molto più impatto, in termini di comunicazione, rispetto a quello che diciamo.

 

Le persone che hanno una grande capacità di empatia si caratterizzano, da un lato, per l’abilità di sincronizzare il linguaggio non verbale con quello degli interlocutori, e dall’altro lato, per la capacità di cogliere i segnali non verbali emessi dall’altro. Cambiamenti nel tono di voce, i gesti, i movimenti diventano una fonte di informazione sull’altro, sul suo stato d’animo, sulle cose che gli interessano.

 

Il peso degli elementi non verbali nella comunicazione non si deve alla casualità. Allo stesso modo che noi non possiamo separare le emozioni dalle sensazioni fisiche, la nostra maniera di pensare la esprimiamo attraverso il corpo. E quando prestiamo attenzione al linguaggio corporeo dei nostri interlocutori, stiamo prestando attenzione alla loro maniera di vedere il mondo.

 

 

3.2. LA CAPACITÀ DI RELAZIONI INTERPERSONALI

 

Abbiamo capacità di relazioni quando sappiamo gestire le nostre relazioni per perseguire quello che vogliamo. Dire capacità di relazione significa dire capacità di comunicazione. Sappiamo comunicare quando siamo capaci di esprimerci in maniera che gli altri ci intendano. L’empatia costituisce le fondamenta sulle quali si eleva la nostra capacità di relazioni interpersonali. Solo quando capiamo l’altro, la sua maniera di pensare e le sue motivazioni, possiamo scegliere il modo più adeguato per trasmettergli il nostro messaggio. Di fatto una stessa cosa può essere detta in modi diversi, e non tutti raggiungono lo stesso effetto. Tutti abbiamo sperimentato qualche volta le conseguenze dell’aver detto una cosa in un momento inopportuno o in un modo inadeguato.

 

Ciò che distingue le persone che possiedono una capacità di comunicazione non è tanto cosa dicono, ma come la dicono. Una delle loro caratteristiche è il fatto che sanno scegliere la maniera e il momento adeguati. Come diceva Aristotele [Etica Nicomachea, ndt]: “Tutti sono capaci di arrabbiarsi, è facile. Però arrabbiarsi con la persona giusta e con la giusta intensità e nel modo giusto e per un motivo giusto, non è nella facoltà di tutti, e non è un compito facile”.

 

Una tra le scuole di pensiero che hanno studiato più approfonditamente le caratteristiche dei grandi comunicatori è la Programmazione Neurolinguistica. Secondo il modello di Bandler e Grinder (1982) i «maghi» della comunicazione si caratterizzano per tre grandi norme di comportamento.

 

Per primo, stabiliscono l’obiettivo che vogliono conseguire. Secondo, sono capaci di generare molte risposte alternative fino a che incontrano la più adeguata. Terzo, e ultimo, prestano grande attenzione alle reazioni verbali e, specialmente, a quelle non verbali degli interlocutori.

 

Se in una classe non otteniamo l’attenzione dei nostri alunni, disponiamo di varie opzioni: la prima possibilità è quella di abbandonare il nostro obiettivo iniziale e desistere dal cercare di avere la loro attenzione. Se però manteniamo l’obiettivo prefissato, potremmo continuare nel nostro agire, sperando che siano gli alunni a mutare la loro condotta, oppure possiamo cambiare noi quello che stiamo facendo e vedere cosa succede. Come dicono Bandler e Grinder: “Se quello che fai non funziona, cambialo. Fa’ qualsiasi altra cosa” (1979:73).

Se scegliamo di provare con qualcosa di diverso, dovremmo prestare attenzione alle reazioni dei nostri studenti. Non a quello che ci dicono, ma a quello che manifestano. Il livello del rumore di fondo, per esempio, è spesso un indicatore del grado di attenzione di una classe, molto più affidabile di qualsiasi commento che facciano a voce alta.

 

Già abbiamo visto che la capacità di porsi degli obiettivi è una delle componenti dell’intelligenza intrapersonale, e il prestare attenzione agli aspetti non verbali della comunicazione è uno dei requisiti dell’empatia. La flessibilità o la capacità di generare molte risposte poggia, ancora una volta, su due fattori. Da una parte richiede il possesso di strategie di lavoro e di strumenti che potremmo definire di tipo «tecnico». Se una classe non mi presta attenzione, devo sapere che cosa fare. Quanti più modi di presentare un esercizio di lettura conosco, più facile mi sarà trovare quello che più interessa a quel gruppo di studenti in quel dato momento.

 

Il secondo fattore è costituito dagli atteggiamenti e dalle credenze su ciò che è adeguato o non adeguato. In “Frog into Princes”, Bandler e Grinder, rivolgendosi ad un gruppo di psicoterapeuti, dicono (1979:164):

 

Se, ancora prima di cominciare a comunicare, decidi ciò che costituisce una risposta «valida», le tue probabilità di raggiungere questa risposta si riducono.

Se, al contrario, effettui una certa azione, utilizzi i tuoi sensi, e noti le risposte che hai ottenuto, ti renderai conto che tutte le risposte sono utilizzabili. Non esistono risposte assolutamente buone o assolutamente cattive. Qualsiasi risposta è buona se, impiegata, diventa il passo che porta a un processo di cambiamento. Puoi fallire solo quando ti arrendi e decidi che non sei disposto a spendere altro tempo su questa cosa. Naturalmente puoi limitarti a continuare a fare lo stesso, il che significa che continuerai a fallire per più tempo”.

 

È ovviamente molto diverso andare ad un incontro, ad una riunione di lavoro o entrare in classe, pensando che se non si ottiene la reazione prevista da parte dell’interlocutore si sbaglia, rispetto al pensare che, se non si ottiene la risposta che ci si aspetta, si deve trovare una maniera alternativa di presentare le proprie idee e che qualsiasi risposta che si ottiene è [comunque] una fonte di informazione che può aiutare ad avanzare verso il proprio obiettivo.

 

 

4. L’INTELLIGENZA EMOZIONALE IN AULA

 

L’intelligenza emozionale è qualcosa di cui hanno bisogno tanto gli studenti quanto gli insegnanti. Nonostante le due intelligenze più strettamente collegate con il successo scolastico, nel nostro sistema educativo, siano quella linguistica e quella logico-matematica, l’importanza dell’intelligenza emozionale per gli studenti è evidente, dato che è quella che permette loro, tra le altre cose, di prevedere le conseguenze delle proprie azioni, di anticipare e capire il significato delle azioni degli altri, inclusa quella degli insegnanti, di organizzare un piano di lavoro che consente di colmare le lacune e di far leva sui punti di forza, e di controllare le emozioni in un dato momento.

 

L’intelligenza emozionale, inoltre, è quella che fa stringere amicizie, fa lavorare in gruppo, dispone alla ricerca di aiuto nel momento in cui se ne ha bisogno. Qualsiasi apprendimento è un’attività sociale, tanto più se si tratta dell’apprendimento di una lingua, dove il fatto di entrare in contatto con gli altri è una parte irrinunciabile del processo di apprendimento. Gli alunni che hanno facilità di comunicazione e quelli a cui piace lavorare con altre persone, sono molto avvantaggiati nell’aula di lingue.

 

L’intelligenza emozionale è importante anche dal punto di vista dell’insegnante. Consiste nella ricerca di soluzioni affinché gli alunni lavorino in maniera efficace, all’interno di un ambiente di lavoro adeguato, consente la gestione dei conflitti, e, ancora più importante, il controllo dei propri stati d’animo e la riflessione sui propri errori.

 

La capacità di empatia, fattore fondamentale dell’intelligenza emozionale, permette di capire gli alunni e le loro motivazioni. […] L’empatia aiuta ad osservare l’impressione che si produce negli alunni –abilità di estremo rilievo per un docente, giacché grazie ad essa si può modificare il proprio stile di insegnamento, affinché risulti adeguato a quel tal alunno o gruppo di alunni.

 

Quando siamo in classe non trasmettiamo solo conoscenze relative alla lingua. Che siamo coscienti o meno, la forma che abbiamo di parlare, di rivolgerci ai nostri alunni, le attività che facciamo, il tipo di relazioni che si instaurano nell’aula, insomma, tutto il nostro modo di comportarci provoca lo sviluppo negli studenti di alcuni atteggiamenti e strategie emotive e non di altre. In altre parole, qualsiasi cosa che facciamo, incide sullo sviluppo emotivo dei nostri alunni.

 

In questa prospettiva, la sfida non sta nel porci ad educare la nostra intelligenza emozionale o quella degli alunni, quanto nel cercare di svilupparla nel modo che ci interessa. Più che aggiungere nuove attività al nostro repertorio di tecniche, per quanto questo possa essere interessante, si tratta di prendere coscienza di quello che già stiamo facendo, prestando attenzione, oltre ai contenuti disciplinari, agli atteggiamenti e alle strategie emozionali che favoriamo e cominciando a sistematizzare molte cose che già compiamo in maniera intuitiva. […]

 

BIBLIOGRAFIA

 

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1 Si tratta di un estratto del saggio “La inteligencia emocional en el aula de inglés”, raccolto nel volume Fonseca Mora M. C. (cur.), “Inteligencias moltiplés, múltiples formas de enseñar inglés”, Mergablum, Sevilla, 2002 (69-93).

La traduzione in italiano è a cura di Paolo Torresan. Le parole in grassetto sono del traduttore. 

 

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