Novembre 2011  Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792
Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni
Sintesi della discussione del mese di maggio sul tema “Comunicazione ed interazione fra partecipanti” di Nicoletta Peluffo

(contributi di: Caterina Bertelli, Dorella Giardini, Francesca Bertuccelli, Grazia Musumeci, Laura Cusimano, Matilde Sciarrino, Raffaella Mencherini, Rosa Caciotti, Sara Biscioni, Sarah Corelli, Silvia Maneschi, Silvia Scolaro)

 

ABSTRACT

Quello che segue non è un vero e proprio saggio, ma la sintesi della discussione svoltasi nel sito della Comunità dei Diplomati del Master di 2° livello durante il mese di maggio 2011. La riportiamo per intero in quanto la riteniamo utile per sottolineare quello stretto legame fra teoria e pratica che l’interazione nella comunità di pratica porta con sé e di cui abbiamo parlato a più riprese nei saggi precedenti.

Abbiamo volutamente lasciato la grafia e l’organizzazione delle frasi degli interventi originali visto che spesso questi accorgimenti trasmettono l’enfasi e il “colore” che l’estensore ha voluto dare loro.

 

Le interazioni che avvengono quotidianamente all’interno delle nostre classi non sono semplici scambi comunicativi intenzionali fra un emittente ed un destinatario, ma un reticolo di flussi che rispettano regole e funzioni linguistiche ed extralinguistiche. Il nostro confronto ha preso vita da alcune riflessioni sul setting inteso come scena culturale (con una piccola differenza fra L2 ed LS) e come ruolo ricoperto dai partecipanti, ma anche luogo fisico, ovvero la classe e la disposizione dei partecipanti. Anche il numero di partecipanti si è rivelato un elemento critico tanto da rendere davvero arduo, nel caso di classi troppo numerose, il compito di chi deve controllare e stimolare l’interazione.

In genere trovo utile cambiare la disposizione a seconda delle attività (ad isole per i lavori di gruppo, a semicerchio durante le conversazioni in plenum, in file schierate di fronte per role play/talk show di tipo "pro/contro", ecc.) e questo ha un'influenza sostanziale e da non trascurare. (Grazia)

Riguardo all'interazione devo dire che assume un'importanza maggiore quando si insegna LS, almeno io essendo passata da anni di L2 alla LS ora mi pongo continuamente il problema di quanta lingua stiano in effetti "usando" i miei studenti che hanno due ore di lezione a settimana. Quindi mi invento di tutto, ma la cosa che mi sembra funzioni veramente è farli alzare, girare per la stanza e parlare. Ho visto che così interagiscono molto di più che se rimangono seduti, pur disponendo la classe con modalità di "facilitazione alla socializzazione". Inoltre parlare stando in piedi ho visto che facilita anche la gestualità, è più facile calarsi nell'altra persona che diventiamo quando parliamo un'altra lingua. (Caterina)

Concordo con Caterina quando dice che l'ambiente L2 è molto diverso da quello LS. Con il gruppo del laboratorio di quest'anno mi sto trovando di fronte a situazioni di specializzazione linguistica. I ragazzi hanno imparato negli anni di scuola a muoversi all'interno della lingua della scuola, ma sono completamente spiazzati davanti alla lingua per la comunicazione, perché al di fuori del mondo scuola, continuano a parlare la loro lingua o se hanno rapporti con coetanei italiani, la loro comunicazione avviene in dialetto. Il problema pertanto è quello di riportarli alla lingua della comunicazione, in modo che riescano ad interagire al di fuori del contesto scolastico e del piccolo cerchio di amicizie. Ho provato a costruire attività tenendo presente questo aspetto dell'apprendimento della lingua. Risultato? Un fallimento su tutta la linea. Scambi comunicativi pari a zero, interesse per l'attività nullo. Quando ho proposto qualcosa relativo al mondo scolastico, un piccolo brano da leggere con esercizi che richiamano le comprensioni del testo fatte in classe, hanno sempre lavorato attivamente… Secondo me non si rendono conto che per avere successo a scuola, non basta studiare, ma bisogna elaborare e per far questo devono lavorare su tutti gli aspetti della comunicazione (Sarah Corelli)

Io mi sono sempre imbattuta in casi contrari, alunni lanciatissimi nella lingua della comunicazione, che imparavano a grande velocità grazie ai compagni di classe (e quindi a volte indipendentemente dalle mie lezioni, che servivano per risolvere i loro dubbi sul funzionamento di una lingua imparata prima di studiarla, non so se ho reso l'idea) e invece in grande difficoltà con la lingua dello studio! Ma io sto pensando ad alunni A2 in un contesto romano, tu forse ti riferisci a livelli più alti, mi sembra di capire! E il dialetto complica le cose, perché si inserisce praticamente una terza lingua! (Rosa Caciotti)

Qui a Luanda gli allievi sono (per forza di cose, visto lo spazio disponibile) allineati in 5 file e (purtroppo) la classe è numerosa (circa 25 studenti per classe). Precedentemente, una delle mie strategie era formare gruppi e coppie il più possibile diversificati, e cambiare il più possibile la formazione delle coppie, in modo che gli allievi si trovassero sempre ad interagire con un compagno diverso e non il “solito” vicino di banco. Con una classe così grande però mi risulta difficile e sento di perdere tempo. (Laura)

La metafora della sedia mentale è stata il leit-motiv della parte di discussione incentrata sul setting fisico e l’atteggiamento degli studenti, più o meno direttivo, più o meno passivo, a seconda della cultura di appartenenza.

Far muovere gli studenti dalla famosa sedia è utilissimo, come lo è il layout dell'aula, ma credo che tutto questo debba passare prima da un processo di attenzione delle dinamiche del gruppo-classe, a partire da osservazioni sul mio stile discorsivo e su quello dei singoli studenti. C'è il rischio anche per me di voler occupare una "sedia mentale", ossia un schema dialogico scontato che mi viene comodo, e altrettanto gli studenti corrono gli stessi rischi poiché optano d'istinto per la via più nota o più conveniente, ossia non producendo, o producendo atti comunicativi ripetitivi o ancora cercando di sparire dietro a quelli di altri. (Dorella)

Immagino che in alcuni casi sia anche una questione legata all'età degli apprendenti e alle loro aspettative sul modo di imparare una lingua (lezioni frontali, spiegazioni grammaticali, esercizi ecc.). (Raffaella)

Concordo con il pericolo di "sedia mentale" di cui parla Dorella. Per me il rischio è quello di controllare troppo la classe, a volte ho paura che, pianificando nei minimi dettagli, si perda quella spontaneità dell'atto comunicativo, già di per sé difficile in una classe. Allora il fatto che gli studenti si muovano per la classe, anche se con un tema, una griglia, ecc... assegnati, mi permette di non essere troppo control-freak, devo per forza mollare e lasciare che siano loro a gestire liberamente la loro comunicazione. Per quello che riguarda gli iniziali imbarazzi ho visto che per me la cosa che funziona di più è essere esplicita. Già dalla prima lezione dico agli studenti che lavoreremo spesso con questa modalità e gli spiego esattamente perché. Generalmente inizio dicendo: a volte ci capita di sentire studenti che dopo anni di francese, di inglese, di italiano a scuola dicono, ho studiato questa lingua x per cinque anni e non saprei nemmeno ordinare un pranzo al ristorante. Perché? come è possibile? seguono commenti degli studenti, discussioni ecc. e concludo dicendo che cercheremo di evitare di concludere il corso senza usare, sperimentare, giocare ecc. con la lingua. Per me funziona, anzi devo dire che poi spesso è anche una modalità per arrivare poi a focalizzarsi di volta in volta su specifiche strategie linguistiche (Caterina)

L’interazione in classe ci porta anche a valutare, di volta in volta, il significato del silenzio e le sue funzioni.

Come ho cercato di vincere il silenzio carico di tensione e di imbarazzo? Nei casi di paura di essere derisi, mi metto in gioco in prima persona, motivando con l'esempio, l'azione e creando situazioni 'leggere' in cui solo chi non partecipa può sentirsi isolato. Mentre, all'estero, ho reagito cercando di imparare la lingua del posto e, con i miei primi rudimenti, ho 'provocato' reazioni. In ogni caso, credo che la risposta consista nel creare un clima stimolante di 'gioco' e di sfida. (Matilde)

Nelle mie classi alle superiori, noto che gli studenti hanno paura di parlare e temono di essere presi in giro dai compagni, cosa che effettivamente succede perché spesso i ragazzi sono meno tolleranti di noi docenti verso l'errore. All'estero, invece, forse perché ho insegnato in paesi musulmani dalla cultura rigida e molto formale, ho notato che non c'era neanche molta interazione nella lingua madre. In entrambe le situazioni, la comunicazione orale viene delegata a 2-3 studenti leader, di solito i più bravi, mentre gli altri si accontentano del ruolo di ascoltatori più o meno attenti; infatti, spesso molti si limitano a fingere di aver capito. (Matilde)

Dal mio punto di vista, penso che la maniera di affrontare tali problematiche dipenda molto dal profilo dello studente. Con gli adolescenti credo sia importantissimo guidarli verso la metacognizione perché spesso sono ancora incapaci di conoscersi e di sapere qual strategie usano per apprendere. Credo altresì che di fondamentale importanza sia fargli capire che il non comunicare non è un problema ma che può essere una normale fase di silent way in cui sono più attive le abilità ricettive di quelle produttive. Infine, penso che l'adolescente debba arrivare a vedere nel professore non un antagonista ma una persona che lo comprende e non lo giudica. (Silvia Maneschi)

Talvolta non è il silenzio a dover essere superato ma il problema è “frenare” un eccesso di partecipazione, soprattutto in studenti delle elementari e medie. Oppure, come nel caso di Silvia-cina, ci troviamo ad affrontare problemi ben più importanti.

Venerdì scorso, nella mia classe si è presentata una nuova studentessa e si è seduta in fondo, dietro agli altri dicendomi di essere una studentessa uditrice (cioè che ascolta solamente e non partecipa attivamente alla classe). Poi ho chiesto in ufficio e mi è stato detto, che questa studentessa in realtà avrebbe dovuto partecipare al corso regolarmente, allora le ho chiesto di sedersi con gli altri (aula a disposizione a U) e lei mi ha detto cercando nel vocabolario "autismo". Quando mi ha detto cosi, mi sono sentita un po' in imbarazzo per averla forzata a sedere con gli altri... ma .. ormai, cosa ci potevo fare? più tardi nel corso della lezione, abbiamo fatto un'attività orale per cui tutti hanno avuto del tempo per prepararsi. Ho fatto parlare prima i miei "vecchi" studenti e alla fine lei, e... non ha avuto nessun problema! (Silvia – cina)

Soprattutto con i bambini delle elementari mi capita di dover "frenare" piuttosto che spingerli a parlare….bisognerebbe sempre valutare volta per volta anche quale "fisionomia" dare al nostro intervento educativo. (Sara Biscioni)

La discussione ci ha portati ad affiancare all’idea di patto formativo quella di “patto comunicativo”, inteso come quell’insieme di azioni, chiavi psicologiche e norme interazionali che agevolano ed anzi favoriscono lo scambio. Abbiamo constatato insieme come lo scambio fra pari si riveli sempre efficace ma talvolta difficile da mettere in pratica, soprattutto in classi eterogenee.

Credo molto nella comunicazione dunque, per quanto sia d'accordo con Matilde che l'azione possa essere un valido alleato, credo anche che conversare da pari a pari con i nostri studenti possa aiutare non tanto a risolvere il problema della mancata comunicazione quanto piuttosto creare le premesse perché il nostro studente vada sempre più acquistando sicurezza. (Silvia Maneschi)

Quello che comunque mi lascia ancora un po' perplessa è come sviluppare l'interazione fra pari in presenza di livelli molto distanti fra loro. Per la mia RA ce l'ho fatta, ma c'era un solo studente di livello A0/A1 (che si è tramutato velocemente in A1/A2), gli altri erano A2 o B1. Adesso ho un gruppo di donne adulte (3 delle quali analfabete) di livelli e competenze diversissime; mi ingegno a trovare modi per farle interagire ma non è facile. (Sara Biscioni)

Abbiamo condiviso la necessità di ricorrere alla comunicazione in ambienti virtuali in modo da diversificare le attività e stimolare l’esposizione alla lingua in studenti abituati a navigare in Internet e chattare nei vari social forum con un unico punto critico: come valutare il tempo dell’insegnante?

La comunicazione in ambienti virtuali ha tanti vantaggi (rispetto dei tempi, del filtro affettivo, di quelle implicazioni della comunicazione faccia a faccia che "infastidiscono" stili più riservati, ecc.), anche se chiaramente si coinvolgono abilità e competenze diverse...per questo mi piace accostare strumenti quali moodle e i forum alle attività di classe, dando task paralleli non sempre collegati a ciò che facciamo in presenza. Attraverso la chat o le discussioni su determinati argomenti, l'esposizione alla lingua, così come la produzione individuale, vengono favorite ed incoraggiate. (Grazia)

I miei allievi ed ex-allievi usano tanto facebook. Tutti mi cercano e mi aggiungono alle loro amicizie. Molti mi scrivono in chat oppure leggono e commentano ciò che io a volte scrivo. Avevo pensato di creare una pagina per i miei allievi, proprio per pubblicare video e link da leggere, ma il tempo me lo impedisce...e il fattore "tempo dell'insegnante" è l'ultimo di cui si preoccupano le istituzioni. Ma indubbiamente dovrebbero essere - oltre che retribuite - incentivate le ore in cui gli insegnanti creano un blog o piattaforma o pagina web, messi a servizio per gli allievi. (Laura)

Infine, Francesca ha condiviso con noi un’importante esperienza personale vissuta con alcuni studenti (e famiglie) dovuta ad un uso errato del web che vi invito a rileggere.

 

Nicoletta

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