Febbraio 2007  Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792
Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni
Metacognizione e apprendimento linguistico. A colloquio con Luciano Mariani di Paolo Torresan

ABSTRACT

Luciano Mariani è uno tra gli studiosi italiani più fecondi nel campo della metacognizione. Il testo scritto a quattro mani con Gabriella Pozzo, “Stili Strategie e strumenti nell’apprendimento linguistico” (La Nuova Italia 2002), rimane un passo obbligato per lo studioso di didattica delle lingue che voglia approfondire la questione, così come il suo sito, recensito in uno dei primi numeri della nostra rivista, è una fonte continuamente aggiornata di riflessioni e pratiche.
Formatore di insegnanti e autore di manuali didattici sull’insegnamento della lingua inglese e di testi metodologici sull’apprendimento delle lingue e sull’apprendimento in generale (tra gli altri: (cur.) “Autonomia nell’apprendimento linguistico”, La Nuova Italia, 2004; “Strategie per imparare”, Zanichelli 1996; “Portfolio. Strumenti per documentare e valutare cosa si impara e come si impara”, Zanichelli 2000; (con A. Tomai) “Il portfolio delle lingue”, Carocci 2004; “La motivazione a scuola”, Carocci 2006), Mariani sa unire il rigore terminologico con la ricchezza di esempi che gli proviene da un confronto aperto e illuminato con il mondo della scuola.
In questa intervista, concessaci lo scorso dicembre, ci aiuta a far luce sui sottili aspetti di questioni ampiamente discusse nella letteratura glottodidattica contemporanea: metacognizione, strategie, autonomia.

 

 

L’INTERVISTA

 

Gentile Prof. Mariani, una descrizione della metacognizione potrebbe essere quella di “controllo operato dall’allievo al fine di regolare il proprio modo di imparare”. Sappiamo che tale controllo coinvolge diversi aspetti della cognizione: strategie, stili, intelligenze, credenze, atteggiamenti, motivazione.

Ci viene da chiedere se questo controllo è parte integrante del processo di apprendimento o è piuttosto frutto di un’educazione. In altre parole, solo la mente scolarizzata è metacognitiva? Inoltre, la metacognizione è un processo che si svolge alla luce della coscienza o si attiva anche al di sotto della coscienza, sottoforma di intuizioni?

 

Io credo che il fatto di controllare, di pianificare, di valutare e di ragionare sui propri comportamenti sia già di per sé un’azione necessaria per sopravvivere. E cioè, se vivere significa continuamente imparare, in un certo senso, una qualche forma di consapevolezza è necessaria per sopravvivere anche nel quotidiano.

Quando nella vita di tutti i giorni facciamo di piani, a breve o a lungo termine, stiamo facendo, magari informalmente, un’attività che è metacognitiva; lo stesso vale quando ci controlliamo in una discussione, o, al contrario, quando ci diciamo di aver perso il controllo, o più in generale nell’attivazione di procedure di valutazione e di autovalutazione, che sono, almeno in parte, connaturate. Agisce metacognitivamente anche un tennista che rivede le proprie partite videoregistrate per capire come migliorarsi o le partite dell’avversario per studiarne le tattiche. Insomma, io credo che nel comportamento quotidiano ci sia la necessità di autoregolarsi.

Tuttavia, penso che su contenuti e procedure che siano più complessi e in ambienti di apprendimento formalizzati, come la scuola, l’educazione giochi un ruolo decisivo e l’apprendimento in generale richieda forme di metacognizione che siano più raffinate. Mi vengono in mente attività di recupero, documentate in molte esperienze, fatte attraverso percorsi metacognitivi: le conoscenze e le attività non apprese sono recuperate puntando sulla capacità degli alunni di prendere coscienza del proprio modo di ragionare.

Sul fatto che la metacognizione sia un’attività del tutto consapevole o meno, la questione è controversa. Il prefisso “meta”, è vero, rimanda ad un “andare al di là”, un “andare oltre”; quindi “metacognizione”, ovvero il “ragionare sul ragionare”, pare riguardi un’attività consapevole; in realtà, ci possono essere vari livelli di coscienza, di consapevolezza. Per esempio, io ho conosciuto persone che sembrano essere strategiche -nel senso che sanno cogliere, nel corso di un problema, la soluzione più efficace o sanno scegliere comportamenti diversi- senza, almeno apparentemente, farne un’attività cosciente; sembrano cioè fare intuitivamente delle scelte che parrebbero richiedere un’analisi accurata, consapevole. La questione delle differenze individuali in questo senso ci induce a ritenere che i livelli di consapevolezza siano diversi da persona a persona, e io credo, perciò, che la scelta delle strategie per far fronte a un problema passi per modalità diverse da individuo a individuo.

Tornando alla domanda: solo la mente scolarizzata è metacognitiva? Secondo me, no. Tuttavia, per una questione di chiarezza terminologica, quando si parla di apprendimenti formalizzati scolastici, io proporrei di riservare il termine metacognitivo per delle attività consapevoli. Però è una scelta che bisogna condividere.

 

Si può dire che ci sia un’età precisa a partire dalla quale si possa parlare di metacognizione, nei termini, appunto, di attività riflessive consapevoli in contesti di apprendimento istituzionalizzati?

 

A mio modo di vedere, a ogni età è possibile fare attività metacognitive; ovviamente, a seconda dell’età, cambiano i tipi di attivazione della metacognizione. Per esempio, lavorando sul portfolio, anche con alunni di scuola elementare, o addirittura di scuola dell’infanzia, io credo sia possibile sollecitare la consapevolezza di quello che hanno fatto o che stanno facendo. Io ricordo schede molto semplici che non usavano nemmeno il linguaggio verbale, ma disegni, in cui chiedevo ai bambini piccoli di ricordarsi le attività che avevano fatto con l’insegnante e di dire se gli erano piaciute o meno. Secondo me, quello è stato un momento metacognitivo, nel senso che era un passo in più rispetto al fare, ovviamente adeguato all’età.

Quindi, quando si parla di metacognizione, occorre anche distinguere i livelli diversi di esplicitazione, di formalizzazione. Con l’evolversi dell’età degli studenti, l’atteggiamento metacognitivo si può costruire mediante strutture mentali più complesse e più astratte.

 

Si è portati a pensare che la didattica metacognitiva risulti ben accetta dagli studenti riflessivi. Si può dire altrettanto per gli studenti che hanno uno stile impulsivo? Agli studenti che hanno uno stile impulsivo, non può risultare noioso tornare a riflettere su quello che si è fatto?

 

Tocchi un punto cruciale e un grosso paradosso in termini didattici. In effetti, da un lato la metacognizione implica un’analisi, un riflettere, un andare a ripercorrere le tappe di quello che si è fatto, un pensare sul proprio pensare e sul proprio fare, e dall’altro le persone impulsive, che più avrebbero bisogno di questo, sono quelle che fanno più fatica. È un po’ come un cane che si morde la coda: le persone che avrebbero più bisogno di strategie sono quelle meno portate ad essere strategiche.

 

Forse bisognerebbe trovare un modo motivante per far tornare lo studente sul compito…

 

Certo, la questione si risolve nel non associare necessariamente attività metacognitive con attività che sono troppo formalmente analitiche o troppo astratte. Gli strumenti con cui si possono fare attività metacognitive sono vari, per cui va trovato il modo di agganciare gli studenti più impulsivi, più intuitivi, considerando il fatto che, come dicevamo prima, non necessariamente l’intuitivo è una persona che non sa fare scelte. Purtroppo molte attività metacognitive sono impostate in modo da venire incontro agli stili più analitici e questo non va bene, perché questi già di per sé hanno pane per i loro denti, quindi questa è una sfida didattica.

 

Una domanda specifica per l’aula di lingue: l’insegnante è tenuto a fare metacognizione in LS solo ai livelli alti? Oppure può farla anche ai livelli bassi, in lingua madre?

 

Io sono sempre stato dell’idea che nelle classi monolingue, il lavoro metacognitivo è così importante che va fatto il prima possibile, in lingua madre. La questione, in ogni caso, è molto sentita dagli insegnanti, che spesso dicono: quando faccio attività metacognitive mi sembra di perdere tempo, perché non faccio attività in lingua. Secondo me, ripeto, le attività metacognitive sono così importanti che, al limite, io sacrificherei qualche momento in lingua straniera, pur di farle in lingua madre. Ci sono strumenti che comportano soprattutto l’esercizio della comprensione scritta e prevedono una produzione minima (per esempio, domande a scelta multipla), che si possono somministrare in LS appena è possibile. Ovviamente, man mano che la competenza in LS aumenta, più è facile realizzare attività metacognitive in LS.

Nelle classi plurilingue, dove gli studenti non condividono una lingua comune, ovviamente la faccenda è più complessa; può tornare utile il ricorso al non verbale.

 

Ci può chiarire il significato di termini spesso intesi come interscambiabili: “metacognizione” vuol dire la stessa cosa di “autoregolazione” e, quindi, di “autonomia”? Qual è, poi, la differenza tra i termini “processo”, “strategia”, “tattica” e “tecnica”?

 

Secondo me la metacognizione, l’attività di ragionare sui propri modi di pianificare, controllare e valutare, è uno strumento. L’autoregolazione è invece uno scopo. Il che significa: io divento più metacognitivo allo scopo di potermi regolare al meglio. L’autonomia è una parola ancora più grossa, quasi una condizione esistenziale, connotata culturalmente tra l’altro; è fatta di valori, di convinzioni, di atteggiamenti, di abilità. L’autoregolazione potrebbe essere intesa come un aspetto dell’autonomia.

Passando agli altri termini, mi viene in mente un politico, il quale recentemente si è espresso in questi termini: “Non è che noi abbiamo cambiato strategia. Noi, all’interno di questa coalizione, abbiamo diverse tattiche ma la strategia è una sola”. Il che voleva far passare il messaggio che la strategia è una cosa più generale, di sovraordinato, mentre le tecniche o le tattiche sarebbero più concrete, più particolari. Verrebbe implicata, in quel messaggio, una gerarchia: dal più generale e astratto al più specifico e concreto, probabilmente lungo un continuum.

Il problema, in realtà, è caratterizzato dalla grande confusione di termini che c’è: molte volte si usano indiscriminatamente.

A mio parere, è in primo luogo fondamentale, sia da un punto di vista teorico che metodologico, mantenere la distinzione tra processo e strategia.

Il processo, per me, è un meccanismo di funzionamento inconscio, che ha basi fisiologiche: il processo di inferenza, il processo di associazione sono meccanismi mentali che hanno una loro autonomia di funzionamento, data dalle nostre caratteristiche fisiologiche, biologiche.

Il concetto di strategia, invece, si riferisce a qualcosa di potenzialmente consapevole. La strategia è un passo che serve a facilitare, velocizzare, ottimizzare i processi. Inoltre, una strategia è tanto più strategia quanto più è operativa.

Prendiamo un processo che utilizziamo continuamente: il processo di inferenza. L’attivazione delle conoscenze pregresse in una fase di prelettura è un passo che l’individuo coscientemente può fare per facilitare tale processo, per potenziarne il funzionamento spontaneo. È possibile, però, rendere ancora più operativa questa strategia, usando una mappa mentale. Si ha, dunque, un continuum: quanto più un’azione è operativa, concreta ed entra nel merito di quello che si deve fare, tanto più si traduce in un comportamento strategico.

Un altro tratto distintivo che io assegnerei alla strategia è il fatto di essere verbalizzata, richiamata alla mente. In caso contrario, quando siamo di fronte ad un modo di pensare e di agire talmente automatico che non può essere verbalizzato, non abbiamo più a che fare con una strategia ma con un comportamento proceduralizzato.

 

E quindi il concetto di strategia si sovrappone a quello di tecnica? Per esempio quando si parla di tecniche didattiche si parla al tempo stesso di strategie di insegnamento?

 

Non è che ci sia un accordo terminologico. Io tendo a considerare come strategie anche le azioni che l’insegnante compie per facilitare l’apprendimento degli studenti. La parola tecnica, per me, ha una connotazione meccanica, una sorta di “ricetta” (“fai così e basta, senza sapere perché”), mentre il concetto di strategia rimanda all’idea di un comportamento consapevole, finalizzato ad uno scopo. Grossomodo la gerarchia va dal processo alla tattica, tanto più si va sul concreto: processo, strategia, tecnica, tattica.

 

Abbiamo l’impressione che la metacognizione non trovi ampio favore tra il corpo docente; è come se fosse un oggetto con cui si deliziano ricercatori ed esperti ma che non diventa strumento operativo nelle mani dell’insegnante. Se questa percezione è corretta, quali sono le cause? Si tratta di un pregiudizio rispetto al nuovo da parte dei docenti, oppure sono i docenti a non essere adeguatamente informati/formati, oppure ancora è proprio il tema a presentarsi come ostico?

 

Riflettendo in generale, manca nella formazione degli insegnanti la conoscenza di teorie innovative, e manca, nello specifico della metacognizione, una riflessione dell’insegnante su di sé, come persona e come professionista. L’educazione metacognitiva comincia proprio dalla riflessività dell’insegnante: uno studente che maturi un atteggiamento riflessivo presuppone, infatti, un insegnante metacognitivo.

A volte gli atteggiamenti di rifiuto sono, tra l’altro, dovuti anche ai modi in cui è presentata la metacognizione: un lavoro pesante, noioso, possibile solo con persone motivate, con studenti adulti, in condizioni ideali, non con classi numerose o programmi pesanti da svolgere. La sfida che si presenta è appunto quella di presentare il lavoro metacognitivo come una cosa accessibile e motivante anche per l’ìnsegnante.

 

A proposito della questione della motivazione, ci può dire, anche alla luce del suo ultimo libro [La motivazione a scuola, Carocci 2006], quale relazione passa tra metacognizione e motivazione?

 

Se riduciamo, in maniera un po’ semplicistica, la questione della motivazione alla formuletta motivazione = aspettativa x valore, e isoliamo il fattore aspettativa, esso rimanda alla percezione di competenza e al senso di autoefficacia, che molto hanno a che fare con l’idea di addestrarsi ad essere strategici. E cioè il competente non è tanto e soltanto chi sa tutto o sa fare tutto, quanto quello che, in caso di problemi, sa come attivarsi. Infatti, una bella definizione di strategia è: saper cosa fare, quando non si fa cosa fare.

Il legame tra metacognizione e motivazione è, dunque, sottile e intrigante, perché, nella misura in cui si aiuta una persona a capire le regole del gioco, si aumenta il suo senso di autoefficacia e, quindi, la possibilità che affronti il compito, almeno dalla parte dell’aspettativa e del successo, in maniera positiva. Rimane poi da vedere se per lui il compito abbia valore.

 

Chiaramente quando parliamo di questi fattori, motivazione e metacognizione, nasce il dubbio sul fatto che un insegnante debba avere una preparazione psicologica, che non è prevista nella formazione universitaria attuale…

 

Sicuramente all’insegnante è richiesta una competenza relazionale e il fatto che non abbia una formazione di questo tipo, è grave. La professione dell’insegnante tocca varie discipline di riferimento, tra cui discipline psicologiche e spesso gli insegnanti avvertono la mancanza di formazione in questo senso.

In ogni caso, va ricordato il fattore di facilitazione dei compiti che l’insegnante esercita a favore dell’apprendimento dello studente. È come se ci fosse un triangolo: insegnante, compito, studente. L’insegnante deve gestire non soltanto la relazione personale, diretta, con gli studenti, ma anche la relazione degli studenti con il compito, sviluppando man mano autoregolazione. Non si tratta dunque di una relazione psicologica clinica o terapeutica, ma di una relazione che passa attraverso i compiti che mettono in moto i contenuti specifici della disciplina, e si attua col monitorare e il calibrare le richieste, i prerequisiti, le strategie che portano all’esecuzione del compito.

 

Come può agire l’insegnante per far apprezzare le strategie metacognitive: la valutazione, il controllo e la pianificazione delle strategie di apprendimento?

 

Va detto innanzitutto che l’insegnante è un modello, sempre, anche se non lo vuole; coi suoi stessi modi di fare propone dei modi di riflettere, di agire, di risolvere problemi. Il fatto che si ponga come esempio di persona strategica, passa pertanto dei messaggi, magari inconsci, che sono di atteggiamento prima ancora che di abilità.

Tuttavia, il fatto che spesso le strategie usate dall’insegnante sono implicite può non indurre lo studente a pensare che anche lui potrebbe farle sue, piuttosto può alimentare la convinzione che si tratti di strategie di dominio dell’insegnante, dell’esperto.

Non è quindi sufficiente porsi come modello, c’è anche la necessità di esplicitare le strategie. Facciamo un esempio. L’insegnante può formulare a voce alta i passi che il suo cervello compie nell’indovinare il significato di una parola sconosciuta; facendo così, si pone come modello alla classe. Tuttavia è solo quando lo studente capisce che anche lui può agire così, che scatta il momento metacognitivo.

Una seconda raccomandazione è la sistematicità. E cioè non basta, tanto per dire, somministrare un questionario all’inizio dell’anno scolastico per poi non tornare più sull’argomento, o usare una strategia di lettura in maniera consapevole due volte l’anno. Occorre, piuttosto, che le attività metacognitive siano intessute all’interno del curricolo e siano vissute a più livelli; non solo a livello cognitivo, ma anche a livello emotivo -che siano perciò socializzate e prevedano magari anche una cornice ludica.

Infine, va detto che occorre collegare l’uso delle strategie al miglioramento delle prestazioni. Gli studenti sono in genere molto economici, specialmente i ragazzini: fanno tesoro di un comportamento solo se porta a dei risultati. Da un punto di vista motivazionale, quanto più si riesce a collegare l’uso di una strategia a un successo conseguito, al fatto di aver realizzato un buon lavoro, tanto più si stimola, dunque, l’idea di poterla riutilizzare.

 

Possiamo dire che la metacognizione viene attivata a diversi livelli a seconda della abilità coinvolte? Prendiamo la scrittura ad esempio, pare difficile pensare a una valutazione che non dipenda dalla correzione dell’insegnante.

 

Certamente, è vero che le varie abilità mettono in gioco strategie metacognitive in ordini diversi.

Per quanto riguarda la scrittura sono convinto che sia un’attività squisitamente metacognitiva. La produzione di un testo che implica un minimo di organizzazione testuale comporta enormi possibilità di pianificare, monitorare, valutare.

In fase di valutazione, ritengo che, oltre al giudizio dell’insegnante, abbiano un grande significato l’autovalutazione dello studente e la valutazione tra pari. Il che mi spinge a sottolineare di nuovo il fatto che la metacognizione non sia qualcosa che una persona fa nel chiuso del suo io, per conto proprio, ma un’attività che può coinvolgere il confronto con i compagni.

 

A volte capita di sentire gli insegnanti di lingua lamentarsi della mancanza di conoscenze di base da parte dei loro studenti. La conclusione cui giungono alcuni è pressappoco questa: “Perché io, insegnante di lingua straniera, con i tempi ristretti che mi ritrovo, devo occuparmi anche dell’apprendimento di strategie che si suppone lo studente abbia già fatto proprie negli anni della scuola dell’obbligo, durante lo studio della lingua madre?

Qual è la sua opinione?

 

Mi viene in mente il concetto di educazione linguistica come di un’educazione integrata e trasversale tre le lingue, di cui nel nostro paese si parlava già negli anni Settanta. Poi, le cose si sono perse per strada. Oggigiorno, con il plurilinguismo, cioè con il fatto che più lingue siano comprese nel curricolo, incluse le lingue degli studenti immigrati, c’è forse una possibilità in più di rilanciare l’idea che l’educazione linguistica sia trasversale, e che quindi ci siano dei nuclei forti che possono essere appresi già in lingua materna o nelle lingue materne, e poi trasferiti.

Quest’idea ci pone in una prospettiva importante. L’insegnante di inglese, per dire, non insegna inglese esclusivamente per preparare gli studenti alla certificazione o a un diploma, ma perché, come membro di un’equipe di insegnanti che ha la responsabilità di una classe, la sua azione rientra in un progetto di educazione linguistica che comprende tutti i tipi di linguaggi, innanzitutto quelli verbali.

 

Un’ultima domanda riguardo allo strumento principe della didattica metacognitiva: il portfolio. La questione è: il portfolio può risultare, in certi usi, una zavorra cognitiva? Sappiamo che la memoria ha bisogno di essere selettiva per essere efficace; non può darsi, dunque, il caso che un sovraccarico di informazioni, di documentazioni, di introspezione risulti controproducente ai fini di un apprendimento rapido? È noto che numerosi artisti, a dispetto dei critici e dei filologi che vorrebbero serbata ogni traccia del loro lavoro, decidono a volte di distruggere le “brutte copie”… Non è che, insomma, certe volte, è necessario dosare con sapienza, anche nell’apprendimento, memoria e oblio, regola e improvvisazione, pensiero e intuito, sguardo retrospettivo e creatività?

 

Il portfolio è certamente uno strumento squisitamente metacognitivo.

In Italia, ahimé, la storia del portfolio è particolare, si sono susseguite numerose polemiche che non giovano; il portfolio delle competenze è stato ufficialmente abolito, per cui non so che futuro avrà la questione. Un discorso a parte merita il portfolio linguistico, supportato dal Consiglio d’Europa.

Può essere una zavorra? Diciamo che è uno strumento che raccoglie, rileva, sistematizza, dà significato alle esperienze di apprendimento, ma questo non significa che esso debba costituire il centro dell’apprendimento, quello che conta sono le esperienze, appunto. Questo va detto perché capita che i libri di testo e gli insegnanti suggeriscano attività da fare PER il portfolio: scrivi questa cosa per il portfolio. Ma come? L’insegnante dovrebbe piuttosto continuare a far le cose che ha sempre fatto, per la loro utilità; il portfolio serve a spremere il significato di queste cose.

Bisogna aggiungere che nel portfolio non va conservato tutto. Anzi, uno può dire: mi libero di tutto e tengo solo la cosa che al momento mi sembra importante. Il portfolio, in breve, invita a selezionare, non è una raccolta priva di criterio.

 

 

CONCLUSIONI

Gli spunti offerti nell’intervista sono molti. Ci pare utile sottolineare che l’azione del docente è chiamata a rielaborare continuamente quanto è stato scritto e detto in termini di metacognizione, per avventurarsi in terreni che paiono vergini: pensare compiti metacognitivi motivanti, ideare percorsi di didattica metacognitiva tra pari, saldare il legame tra metacognizione e autoriflessione del docente. È attraverso azioni di questo tipo che la metacognizione può tradursi da costrutto ipotetico a prassi, da formula a strumento che potenzia e “distribuisce” l’autonomia, raggiungendo anche gli studenti ignari delle loro capacità di controllare l’apprendimento e di essere artefici dei propri progressi, e in senso lato della propria intelligenza. 

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