Giugno 2010  Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792
Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni
V. Iori (a cura di), Quaderno della vita emotiva. Strumenti per il lavoro di cura di Paolo Torresan

 CURATRICE: V. Iori
TITOLO: Quaderno della vita emotiva. Strumenti per il lavoro di cura
CITTÀ: Milano
EDITORE: FrancoAngeli
ANNO: 2009

 

Cura è la parola chiave di questo libro. Come se ci fosse un’essenza etica iscritta nella natura dell’uomo, animale sociale.

Non tutti coloro che si occupano di psicologia e neuroscienze ne sono convinti (Gardner, per esempio, autore della teoria delle intelligenze, dichiara la sua perplessità di fronte alla relazione tra intelligenza e valori; i valori, lui ritiene, sono parte della cultura; l’intelligenza è altra cosa: uno può essere intelligente e scriteriato), ma la costante dei contributi raccolti nel saggio oggetto di recensione è proprio l’ontologia della cura, il fatto che la cura sia un tratto del nostro essere, a prescindere dal colore della pelle e dalla lingua parlata.

Scrive Vanna Iori (p. 103; il corsivo è nostro): “La cura, in quanto costitutiva dell’esistenza umana, abita le relazioni e conferisce senso all’essere del mondo. La cura non può essere interrogata con i moduli raziocinanti; può essere ascoltata e vissuta nella relazione con se stessi e con gli altri”.

Come dire, noi siamo nella cura. O forse, meglio ancora, noi siamo perché qualcuno ha avuto cura di noi.

In quanto a mammiferi, ci vien da chiarire, e non rettili, siamo cura; vige per noi, e per i membri della classe a cui apparteniamo, un legame essenziale (e non accidentale) con l’altro che (ci) cura.

Pirandello diceva che esistiamo fintanto che uno ci pensa; e rimpiangiamo il defunto non per la sua dipartita in sé, ma perché, venendo meno la sua esistenza, viene meno in noi una parte di riconoscimento.

Mezzo secolo più tardi, la psicologia dirà, con Berne, che uno dei bisogni fondamentali (accanto alla sicurezza e alla stimolazione) è proprio il riconoscimento.

La parola, in questo senso, è un veicolo potente della cura. È il piegarsi all’altro, il farsi messaggio, il presentarsi come storia, interrogazione, aiuto, consiglio, azione. Siamo del resto convinti che imparare una lingua straniera abbia un valore terapeutico; imparare a dire le cose con nomi nuovi, a formulare i pensieri mediante una sintassi sconosciuta, porta a vedere il mondo e noi stessi con occhi diversi, aiuta a ridefinirci e a ridefinire i problemi.

La cura ha un potere contagioso, al pari di un virus; così scriveva Rogers (Un modo di essere, Martinelli, Firenze 1983, 102):

 

“Quando le persone sono accettate e valorizzate, esse tendono a sviluppare un atteggiamento di maggior cura verso se stesse. Quando le persone sono ascoltate empaticamente, diventa loro possibile prestare un ascolto più accurato al flusso delle esperienze interiori. Ma via via che una persona comprende se stessa, il Sé diventa più congruente con l’esperire. La persona diventa in tal senso più autentica, più genuina. Queste tendenze […] consentono all’individuo di essere un promotore più efficace della propria crescita”.

 

Il contagio, dunque, procede non solo in senso orizzontale (chi è curato da qualcuno, curerà altri), ma anche in senso verticale: chi è curato, si cura; e secondo un moto circolare, per così dire: chi cura, si cura; si pensi alla pet therapy).

Così, chi è guardato, si guarda. Chi è compreso, si comprende. Ripetiamo: chi è (com)preso, si (com)prende. Se quand’era piccolo, nessuno lo ha mai ‘preso con’ sé, sarà ben difficile che, da adulto, un soggetto abbia lucidità nell’esprimere chi è e cosa vuole.

L’educazione emozionale/emotiva (oggi come oggi i due termini si sovrappongono) ha due dimensioni, una intrapersonale (un individuo che ha cura di sé), l’altra interpersonale (un individuo che ha cura di altri). Si alimentano a vicenda.

Torniamo per un attimo all’affermazione di partenza: la cura non esce dal regno dell’intelligenza, ma vi germina. Scrive in uno dei saggi, Daniele Buzzone (p. 118; il corsivo è nostro): “Non vi sarebbe cura se non sentissimo che nel destino e nell’esistenza dell’altro non ne andasse anche del nostro destino e della nostra esistenza”. Più che un sentire, a dire il vero, si tratta di un capire, o meglio di un capire-sentire. Una sensibilità intelligente, una intelligenza sensibile, o meglio una intelligenza buona.

Vi è una intima, segreta connessione (negata da Gardner, ripetiamo) tra intelligenza e cura. È un legame che, a nostro giudizio, nemmeno i divulgatori dell’ ‘intelligenza emotiva’ (e sottolineiamo divulgatori, alla stregua di Goleman, per capirci, che di fatto è un giornalista scientifico non un ricercatore) hanno potuto vedere. Una prospettiva, la loro, che divide le emozioni in positive e negative ed è perciò mal impostata: separa, discrimina. Sfogliando Goleman si legge, per esempio, che la rabbia è distruttiva. Ma è emotivamente intelligente un’affermazione del genere? Che pensare allora del ribelle che in nome della verità rivendica un’ingiustizia? È emotivamente ottuso? E sul piano intrapersonale, come intendere la vergogna e il senso di colpa: tacciarli come negativi non è già un modo di renderli tali, attraverso il linguaggio inopportuno? Mediante le parole, cioè, si ha potere ci conferire un valore a un’emozione, e così capita di aver vergogna di sentir vergogna, di provar la colpa per sentirsi in colpa.

È l’atteggiamento che fa la differenza, a prescindere dall’emozione in sé: questo è il punto.

Scrive Simone Weil, nel Quaderno II (edizioni Adelphi):

 

“Pietra sul cammino.

Gettarsi sulla pietra come se, con un certo sforzo, essa non dovesse più esistere.

Oppure andarsene, come se fossimo noi stessi a non esistere.

Pensare insieme l’esistenza sia della pietra come cosa limitata, sia di sé come essere limitato e il rapporto tra i due; leva”.

 

Immaginiamo di attraversare un’esperienza difficile (per esempio, un insuccesso) e provare tristezza. Abbiamo tre modi per ‘vivere’ l’emozione:

 

  1. congelarla (chiudiamo il tappo. Già bollare un’emozione come negativa, significa metterci un tappo); un atteggiamento ‘maschio’ (ironicamente parlando);

  2. cedere al potere ipnotico dell’emotivo (ci perdiamo nella tristezza, tutto intorno si colora di grigio); un atteggiamento ‘femmina’; è un romanticismo psicologico tutt’altro che benefico;

  3. attingere a una risorsa (una relazione, un luogo sicuro, ecc.) prima (e sottolineiamo prima), e poi (e sottolineiamo poi) essere presenti a quella tristezza, reggerla come una presenza (è una presenza dentro di noi) che richiama altra presenza: la nostra presenza consapevole.

 

Nella prima azione, l’emozione repressa trova immancabilmente una valvola di sfogo in comportamenti lesivi (per esempio: aggressione di soggetti che non c’entrano), nel secondo caso l’intensità risucchia come in un vortice: è il dolore fa sentire vivi (grosso guaio, per chi cresce in una cultura, la nostra, che si nutre di sensazionalismo, alla Italia Uno, per capirci, o alla Libero) e la persona vi si perde (il romanticismo celebrava questa fusione: “E dolce m’è naufragar in questo mare”); la terza via è la sola che permetta di trasformare, alla lunga, l’ostacolo in risorsa.

La cura intrapersonale si manifesta allora in presenza. Non in negazione né in assorbimento, ma in presenza. Simone Weil parlava di attenzione, e voleva dire questo, appunto.

Lo stesso si dica quando la cura ha per destinatari gli altri. È una cura alla doppia potenza, una cura della cura.

 

La cura dello spazio, per esempio.

Quante volte (annota un’altra autrice che ha contribuito alla raccolta, Elisabetta Musi), si creano contraddizioni tra contenitore e contenuto: i Centri di accoglienza sono spazi “fatiscenti e squallidi, dunque assai poco accoglienti e caldi”. E quante scuole, aggiungiamo noi, paiono progettate come se si trattasse di prigioni o manicomi: griglie di aule, fredde all’interno, peggio all’esterno.

 

Aver cura della mente come processo.

Ci vengono in mente i corsi di formazione che non formano. La cura di chi li allestisce è rivolta al portafoglio di chi vi partecipa.

Già abbiamo espresso il nostro giudizio su corsi alla Brain Up, che non esitiamo a definire americanate –esercitando il diritto di critica regolato dal Codice Penale, e quindi attribuendo le parole ad una nostra visione: intendono far sentire intelligente chi teme di non esserlo, salvo confermargli il contrario al momento di presentagli il conto. Danno a credere che la memoria e le abilità cognitive si possano acquisire in tempi rapidi, come avviene per un qualsiasi bene di consumo. Basterebbero, stando alle loro promesse, un migliaio di euro di iscrizione e un fine settimana di corso per capire come usare al meglio la memoria. Un ottimismo di questo genere è ingiusto e ingannevole; viene in mente Woody Allen: “Ho fatto un corso di lettura veloce. Mi hanno insegnato a leggere con un solo colpo d’occhio fino a metà della pagina, e così sono riuscito a leggere ‘Guerra e Pace’ in venti minuti. È un libro che parla della Russia” (cit. in Wright A., 1987, How to Improve Your Mind, CUP, Cambridge). I corsi di formazione che non formano, umiliano l’intelligenza. I McDonald del sapere, tenuti da esperti di programmazione neurolinguistica –ma non delle lingue, visto che ricorrono a formule, tipo Brain Up, che in inglese non significano nulla– ignorano che intelligenza significa intus legere, leggere in profondità, il che richiede tempo, richiede pazienza. E molta, moltissima cura. La fretta può piacere a chi opera con prodotti. Ma formare e commerciare appartengono a campi lessicali distinti.

 

Aver cura del tempo.

Si chiede sempre Elisabetta Musi: prendiamo una qualsiasi una organizzazione, si ritagliano dei momenti per elaborare i vissuti,? Nella scuola in cui operiamo, per esempio, c’è spazio per dire come stiamo, dove siamo?

 

Cura del valore irriducibile di ognuno

Se è vero che la totalità vale più delle parti (e siamo grati infinitamente alla Gestalt per averci mostrato come l’individuo agisce spesso, in forma intuitiva, in risposta al “campo” che si crea nella relazione con gli altri), è altrettanto vero che uno sguardo attento coglie il valore unico e irripetibile della parte. La parte si prende la rivincita e da sola vale più della totalità: colui che salva una vita, recita il Talmud, salva il mondo intero (Sanhedrin 37a).

Nel volto umano, sostiene Levinas, c’è l’epifania dell’altro: assolutamente irriducibile, diversità trascendente, nocciolo unico, l’uomo inedito.

Montagne diceva: noi siamo doppi. Siamo psiche e corpo. Siamo uguali e diversi. Normali e straordinari. Siamo passato e presente. Siamo cognome e nome (io sono Torresan e sono Paolo). Cognome: ovvero, l’uomo edito, frutto di protocolli millenari, scritti coi caratteri infinitesimali nel DNA, che agisce anche per conto di relazioni (come insegna Ellinger, padre delle costellazioni familiari) rimaste sospese in un passato prossimo.

Nome: l’uomo inedito, fatto di slancio, di possibilità, di risorse, di promesse. Esistono in noi possibilità che superano i limiti della cultura di cui siamo parte: sono sogno, urgono alle soglie delle coscienza, si esprimono per intuizioni, commuovono (non sempre l’educatore coglie l’inedito. Un educatore pessimista di certo no: si muove tra i banchi come un funzionario della Stasi).

 

Cura del linguaggio

Basti pensare alla sostanza incerta del linguaggio dell’Italia di Berlusconi & Co.: tutte le fonti autorevoli –persino l’opposizione che sorge dal basso (il no-B day)– si esprimono al negativo. La particella ‘non’ campeggia nei giornali, a tradire un meccanismo psicologico a lungo considerato da Freud: a dire che una persona non è scema, se ne conclama la stupidità come meglio non si potrebbe.

Si leggano in questo modo dichiarazioni quali: la crisi non è acuta (lo è eccome!), le forze antagoniste non stanno in silenzio (quali?), ecc. è un’epoca scellerata in tal senso, dove il linguaggio confonde e aggredisce, anziché chiarire e curare.

 

Cura della cura

Aver cura della cura, significa anche evitare che essa sia eccessiva e si confonda con i tratti della manipolazione. Heidegger, a cui Iori dà voce nel testo, chiarisce così (cit. a p. 103)

 

“I modi positivi dell’aver cura hanno due possibilità estreme. L’aver cura può in un certo modo sollevare gli altri dalla “cura” sostituendosi loro nel prender cura, intromettendosi al loro posto. Questo aver cura assume, per conto dell’altro, il prendersi cura che gli appartiene in proprio […]. Opposta a uqersta è quella possibilità di aver cura che, anziché porsi al posto degli altri, li presuppone nel loro poter essere esistentivo, non già per sottrarre loro la Cura, ma per inserirli autenticamente in essa. Questa forma di aver cura, che riguarda essenzialmente la cura autentica, cioè l’esistenza degli altri, e non di qualcosa di cui essi si prendono cura, aiuta gli altri a divenire consapevoli e liberi per la propria cura”.

 

La cura è uno stare sulla soglia. Viene in mente Madre Teresa che si sentiva un intermediario tra Dio e gli uomini (stesse parole in Simone Weil).

 

Veniamo alla scuola: in chi non riconosce la priorità della relazione didattica sul contenuto, non vi è cura, è lapalissiano. Ma non vi è cura nemmeno in chi scambia per ‘buona’ l’assunzione di un ruolo vicario, di sostituzione, e così agendo nega a chi riceve la possibilità di manifestare i suoi bisogni per quello che sono. Stringi stringi, riduce l’inedito all’edito.

 

Quaderno della vita emotiva è un gran bel libro che, anziché dare risposte, sollecita domande, alimenta associazioni, induce a interrogare e a interrogarsi. Un pregio, di questi tempi. 

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