Febbraio 2015  Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792
Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni
Stefano Viviani, L’intelligenza inattesa. Interiorità e meditazione a scuola di Paolo Torresan

AUTORE: Stefano Viviani

TITOLO: L’intelligenza inattesa. Interiorità e meditazione a scuola  

CITTÀ: Firenze    

EDITORE: ETS             

ANNO: 2014

 

Il prof. John Keating dell’Attimo fuggente, interpretato dallo straordinario Robin Williams, rappresenta un insegnante sui generis, poiché capace di seguire un percorso differente dei colleghi: non dalla disciplina agli studenti, ma dagli studenti alla disciplina.

In altre parole, il professore fa leva sul vissuto della classe –esperienza, sogni, desideri – per “mappare”, si direbbe oggi, su quello i contenuti che avrebbe dovuto impartire: letteratura, nel suo caso.

L’operazione è simile a quella che Viviani descrive in questo brillante e agevole saggio. Il gioco di parole del titolo è una mossa da maestro: il saggio è sull’intelligenza che sta in attesa (avverbio), vale a dire in ascolto (delle aspirazioni più profonde); ma al tempo stesso ha per oggetto una forma inattesa (aggettivo) dell’intelligenza, dell’intus legere (del vedere in profondità), quella che altrimenti Gardner chiamerebbe intelligenza personale (sdoppiabile in intra-, quindi emotiva, e in inter-, quindi sociale).

Percorsi di sviluppo delle competenze personali sono però tutt’altro che scontati: occorre un raffinatissimo scaffolding, una robusta dose di autenticità (la capacità di/disponibilità a mettersi in gioco da parte del docente), una illimitata capacità di ascolto, una atteggiamento di fiducia, l’abilità a contenere.

Viviani tratta temi ‘filosofici’ solo apparentemente alti e lontani dall’esperienza dei suoi allievi di scuola media: amicizia, giustizia, verità, silenzio, identità, felicità. Non lo fa per bocca di filosofi e letterati, ma invita gli studenti a riflettere, recuperare esperienze, intuizioni, osservazioni, da condividere eventualmente con altri.

Scrive l’A. (p. 14):

 

“La prima volta in cui ho applicato questo metodo, sono rimasto subito colpito da alcune cose. Anzitutto, dalla reazione dei ragazzi: si percepiva immediatamente che cambiava qualcosa in profondità, come si aprisse uno spazio di verità, che spingeva ciascuno a far emergere quanto più di prezioso celava in sé e ad aprirsi agli altri. Uno dei aspetti più stupefacenti era la reazione di alcuni ragazzi cosiddetti «difficili»: il loro rapporto con l’insegnante cambiava completamente, alla fine delle attività spesso si avvicinavano alla cattedra per parlare, sentivano e cercavano la relazione. L’impressione era che si sentissero finalmente percepiti, «visti». Al tempo stesso intuivano che si era finalmente aperto per loro un canale di espressione e lo coglievano al volo. I loro testi rivelavano insospettate profondità. Anche l’atteggiamento nei confronti dello studio cambiava ed era possibile assistere a dei progressi inattesi.

Per tutti il clima della relazioni in classe e il rapporto con lo studio cambiavano in meglio. Soprattutto la qualità di ciò che veniva scritto e detto, come se davvero tutti noi, in età assai precoce, conoscessimo molte più verità di quanto sospettiamo”.

Curioso notare come la nota finale richiami osservazioni analoghe che Gattegno riferiva alle intuizioni degli studenti sul funzionamento di una lingua straniera: “Lo studente sa molto di più di quello che tu pensi lui sappia”.

Ed è appunto allo zoccolo duro, per così dire, della didattica umanistica che il libro di Viviani può essere ricondotto –per quanto l’autore si occupi di didattica della lingua materna, e non di didattica di una lingua straniera.

È cioè ai lavori di autori di talento come Moskowitz, Rinvolucri e Dufeu che il testo di Viviani può essere accostato. Sono, secondo noi, queste tre personalità che più di ogni altra (più dello stesso Gattegno, e molto di più di Curran o Lozanov, e infinitamente di più di Krashen, che di umanistico –nel senso stretto del termine: coltivare e potenziare le abilità personali e sociali– a nostro dire non ha niente; lo stesso si possa dire di Asher, nonostante l’importantissima riconsiderazione del corpo) rappresentano la didattica umanistica. Anzi, a nostro dire sono le sole personalità a cui ricondurre la didattica umanistica. Essi considerano, ante litteram, il peso che la dimensione intrapersonale incide sulla motivazione ad apprendere una lingua.

Il saggio di Viviani è un buon viatico per coltivare il bisogno psicologico del riconoscimento (cfr. Torresan 2014).

Scrive sempre l’A. (p. 15):

 

“Poche cose hanno il potere di attivarli [i.e.: gli studenti] e di renderli creativi come la nostra attenzione. Sentirsi visti e riconosciuti scioglie blocchi e insicurezze ed è molto spesso sufficiente, da solo, a produrre cambiamenti che hanno davvero del miracoloso”.

 

Lieve la prosa, toccanti le testimonianze, efficace l’impostazione narrativa generale (p. 13): “Questo libro racconta una storia, la storia della mia esperienza di insegnante di scuola media e delle scoperte che questo difficile ma bellissimo lavoro mi ha permesso di fare”.

Le sue idee sono uno stimolo interessante per quanti intendono declinare in didattica costrutti quali intelligenza emotiva, abilità sociali, empatia, ascolto attivo, o ancora il saper essere, declamato nel Quadro, ma che, nella sua indeterminatezza, rischia di essere lettera morta.

 

 

 

 

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