Novembre 2014 | Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792 Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni |
AUTORE: M. Dotti
TITOLO: Sbagliando non s’impara
CITTÀ: Bologna
EDITORE: EMI
ANNO: 2014
Con un curioso gioco di parole, la casa editrice EMI ha da tempo lanciato la collana “gli infralibri”, tascabili caratterizzati da una scrittura immediata e leggera, dedicati a vari temi, tra i quali l’educazione.
Così è per il bel volumetto “Sbagliando non s’impara” di Michele Dotti. Il titolo chiarisce l’impostazione del libro, concentrato sulla sfida di rovesciare i luoghi comuni, per scovare forme di verità nel lato-ombra del proverbio.
In effetti, riprendendo il detto di cui Dotti pare prendersi gioco, l’errore è una forma di intelligenza, ma ancora più intelligente è il successo. Ce lo dice il cervello (11-12):
“Alcuni studi statunitensi, guidati dal neurologo Earl Miller del Massachusetts Institute of Technology (MIT) sono riusciti a «fotografare» per la prima volta il processo dell’apprendimento e nel 2009 hanno pubblicato la loro scoperta sulla rivista Neuron.
Le cellule cerebrali reagiscono in tempo reale agli stimoli esterni, modificando il loro modo di comportarsi a seconda che l’azione compiuta del soggetto sia corretta o sbagliata: esse sono capaci di registrare i comportamenti recenti e distinguere quelli corretti da quelli sbagliati, reagendo in maniera differente ad essi.
Un errore fa reagire il cervello molto di meno rispetto al compimento di un’azione corretta. […]
Per Miller non c’è dubbio: si apprende più dai successi che dai fallimenti”.
Il successo imprime una spinta: ancora prima dell’obiettivo raggiunto esso è la conferma che le strategie adottate sono quelle adeguate; il cervello rilascia dopamina, una sostanza che da cui dipende l’energia a rivivere un’esperienza di successo.
E l’errore?
L’errore è positivo, purché sia inteso come apertura, come volontà di esplorazione, senza la quale in definitiva non c’è scoperta, non c’è appropriazione, non c’è – in una sola parola – l’esperienza stessa (54). Più che sostantivo è verbo, errare, aggettivo: errante, errabondo. Quasi a definire la direzione e i contorni del pellegrinaggio verso la (parziale) verità.
“Fare errori vuol dire uscire, volontariamente o per caso, dalla via già battuta da altri e inoltrarsi in terreni inesplorati, per intraprendere avventure. Errare […] significa mettere alla prova la nostra creatività che dall’errore può far sgorgare l’idea vincente”.
L’educatore è chiamato, da un lato, a promuovere il successo dell’allievo, dall’altro ad astenersi da ogni forma di giudizio, che, se introiettata da parte dell’allievo può esercitare in questi una funzione autosabotante (52):
“Niente […] frena la partecipazione quanto il timore di sentirsi giudicati. Per me la sospensione del giudizio –epoché– è uno dei principi fondamentali in educazione”.
L’A., riferendosi al Festival dell’errore inaugurato a Perugia, precisa (53):
“L’idea di fondo è quella che i ragazzi debbano «imparare a sbagliare»; cosa ben diversa dall’«imparare degli sbagli».
Dei 180 articoli scientifici pubblicati da Einstein, tanto per fare qualche esempio, un quarantina contengono sbagli significativi. Se abbiamo la penicillina e molti vaccini […] lo dobbiamo dagli errori commessi dai loro scopritori, che in quel momento andavano in cerca di altro.
Dunque, se perfino il più grande scienziato della storia sbagliava spesso e volentieri, perché mai uno scolaro oggi dovrebbe trattenersi dall’alzare la mano e azzardare la risposta che ha in testa quel momento?”.
Educare, continua l’A., vuol dire ex-ducere, tirare fuori; quanto spesso invece l’insegnante è colui che deve riempire l’allievo di qualcosa (di nozioni, di grammatica, ecc.); portare qualcosa di esterno dentro la mente dell’allievo!
Riagganciandoci all’idea del libro, ex-ducere sta allora per creare le condizioni affinché l’allievo dia il meglio di sé; cogliendo anche nelle deviazioni rispetto al cammino prestabilito (tale è il senso di errare/errore) una straordinaria occasione di senso.
Viceversa, l’educatore immaturo proietta nella correzione una propria insicurezza: nell’atto di correggere avverte un potere, una forma di compensazione della sua ansia di (non) sapere (di cui è inconsapevole), di essere meno di, di essere all’oscuro di. Sovviene il pensiero di Paulo Freire; lo riproponiamo nell’originale portoghese, bello com’è, trasparente anche a un italofono: “Ninguém ignora tudo, ninguém sabe tudo, todos nós sabemos alguma coisa. Todos nós ignoramos alguma coisa. Por isso aprendemos sempre”.
È lo stare in relazione (imparare con e dagli altri; anche per via irriflessa). È lo stare con il proprio limite (il sapere di non sapere, che è la molla della voglia di sapere). È lo stare con. La pazienza di stare con. Questo è l’apprendimento: la pazienza di stare con.