Giugno 2011 | Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792 Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni |
AUTORE: Paul Davis, Barbara Garside, Mario Rinvolucri
TITOLO: Ways of Doing
CITTÀ: Cambridge
EDITORE: CUP
ANNO: 1998
Tre methodologist di tutto rispetto uniscono le forze e creano uno tra i testi più interessanti circa l’uso dell’introspezione nell’aula di lingua.
Per capire la loro prospettiva è necessario fare un salto indietro e porci una domanda fondamentale: “dove si situa l’apprendimento linguistico?”.
Uno strutturalista direbbe che è la lingua il luogo cui rivolge l’attenzione chi impara: lo studente va, di conseguenza, allenato a smontare e rimontare la lingua, allo stesso modo in cui un apprendista meccanico è aiutato dall’istruttore a distinguere tra puleggia e cilindro. Ripetiamo, la lingua è il luogo per il fatto che la stessa domanda “dove si situa l’apprendimento linguistico?” è lingua.
Con l’avvento della stagione comunicativa, negli anni ’70 del secolo scorso, la lingua viene vista sempre meno come “luogo”, per essere apprezzata come “percorso”.
“La lingua serve per”: è l’ottica che proviene filosofia del linguaggio, con il secondo Wittgenstein (pubblicato postumo) e tutti gli autori le cui riflessioni sono fondamentali alla pragmalinguistica (Pierce; Searle; ecc.); è l’ottica che, peraltro, giunge dal Task Based Language Teaching (TBLT), una metodologia che recupera la dimensione esperienziale dell’apprendere che proviene dalle avanguardie europee e stutunitensi d’inizio secolo XX (Kilpatrick; Decroly; Montessori; Freinet; ecc.); ed è l’ottica infine che giunge da quanti, più tardivamente, compensano la sopravvalutazione dell’input operata da Krashen (in cui l’approccio comunicativo può dirsi ancora acerbo), sottolineando l’impatto decisivo che l’output riveste sullo sviluppo dell’interlingua (Long; Swain; Bygate).
Dove si trova allora l’apprendimento linguistico? Gli autori che fanno capo alle correnti appena citate direbbero senza esitare: nella comunicazione.
Anziché essere oggetto di contemplazione di per sé (atteggiamento che è ben più appropriato per un linguista che non per uno studente che intenda comunicare in LS), il codice verbale è visto come un mezzo che consente di esplorare il mondo, gli altri, se stessi.
L’ultimo punto di questa triplice azione (se stessi) è in realtà rimasto nella più totale oscurità per un lunghissimo tempo, anche in piena stagione comunicativa.
Tra le varie funzioni che può avere la lingua, quella intrapersonale, è la più trascurata in ambito educativo (anche nell’insegnamento della LM).
Forse si ritiene che pochi siano i testi mediante i quali una persona scrive a sé medesima (il diario); e senso comune vuole che chi parla tra sé e sé rappresenti l’eccezione (la follia) e non la norma. Non solo parlare a se stessi, ma anche parlare di se stessi, nell’aula, non appare un’operazione su cui si sia riflettuto a dovere.
Certo si direbbe, lo studente è spesso tenuto a parlare di sé in un’aula di lingua; non c’è manuale che non preveda almeno un’occasione in cui l’apprendente condivida con i compagni i suoi gusti, i suoi hobby, com’è costituita la sua famiglia, cosa mangia a colazione, quali programmi segue alla televisione.
La questione è che molto spesso queste indagini rischiano di essere terribilmente oziose e comportano un grado di introspezione uguale a zero. Che senso ha che io riferisca al mio compagno, che condivide la mia stessa lingua e cultura, cosa ho mangiato questa mattina in un’altra lingua?
Parlare a se stessi e parlare di se stessi, in un modo che sia comunicativamente significativo, e quindi motivante (tanto per chi parla, quanto per chi ascolta): è questo l’obiettivo del libro oggetto di recensione. Molti esercizi riguardano la vita di tutti i giorni; altri sono più centrati sull’apprendimento linguistico, e quindi hanno una valenza metacognitiva.
È un testo, insomma, che può valere da buon apripista anche per la didattica dell’italiano a stranieri.