Settembre 2015  Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792
Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni
F. Grosjean, Bilinguismo. Miti e realtà di Clelia Capua

AUTORE: François Grosjean

TITOLO: Bilinguismo. Miti e realtà.

CITTÀ: Milano-Udine

EDITORE: Mimesis

ANNO: 2015

 

Ogni disciplina possiede personalità di rilievo che contribuiscono in maniera determinante al suo sviluppo e alla sua divulgazione, personalità che dedicano la propria vita ad indagare aspetti di quella disciplina e che tracciano il solco di un nuovo percorso. François Grosjean appartiene a questa categoria di studiosi, a quelli cioè che hanno segnato con il loro lavoro un nuovo percorso nello studio del bilinguismo. Professore Emerito all’Université de Neuchâtel in Svizzera, a suo tempo ricercatore allo Speech Communication Laboratory del MIT, fondatore del Laboratoire de traitement du langage et de la parole all’Université de Neuchâtel e cofondatore della rivista Bilingualism: Language and Cognition della Cambridge University Press, Grosjean si è impegnato con uguale forza nel campo accademico, nella ricerca come nella divulgazione. Non è secondario infatti il suo impegno nella diffusione della conoscenza sul bilinguismo attraverso l’uso anche di strumenti come il blog Life as a Bilingual. The reality of living with two (or more) languages, gestito con Aneta Pavlenko (Professor di Applied Linguistic alla Temple University di Philadelphia ) e realizzato con l’intento di diffondere i risultati della ricerca fra chi non è un addetto ai lavori ma affronta, nella vita di ogni giorno, tematiche attinenti al bilinguismo. Come menzionato, Grosjean appartiene alla categoria di studiosi che hanno segnato un nuovo percorso di studi e ciò è dovuto dal fatto che, anche se di gran lunga più diffuso, il bilinguismo era sempre stato un soggetto di studio collaterale e persino marginale rispetto al ben più stabile e conclamato studio del monolinguismo, meglio dire dell’astrazione monolinguista. Come spiega Grosjean stesso, quando era appena uno studente universitario e dunque non ancora un linguista, cercò un libro che potesse dargli risposte concrete a domande concrete, ma trovò solo lavori accademici che non riuscirono a soddisfare quelle questioni “terra terra” che la sua vita da bilingue gli poneva. Da quel momento spenderà la sua lunga carriera accademica alla ricerca di quelle risposte per infine descriverle, con una narrativa semplice e il più possibile lineare, nel libro Bilingual. Life and reality (2010). L’evento quindi dell’edizione italiana di questo specifico volume di Grosjean, fra i molti che si sarebbero potuti scegliere, edizione curata da Andrea Gilardoni e tradotta da Gilardoni stesso e da Roberta Scafi, è un evento che non deve passare inosservato. Tradurre questo Grosjean rendendolo accessibile al di là della lingua veicolare accademica è stata una scelta doverosa e pienamente coerente con lo scopo del libro che sceglie di riferirsi non a quel mondo accademico al quale l’autore ha dedicato migliaia di pagine, ma a studenti di ogni ordine e grado, a lettori non specializzati, a genitori di figli bilingui e ai figli bilingui di famiglie bilingue “come pure colleghi, amici, professionisti che si occupano di bambini bilingui come gli insegnanti, gli psicologi e i logopedisti” (p. 19). Come lui stesso racconta anche nelle interviste raccolte nella sua pagina web - www.françoisgrosjean.ch - l’autore ha iniziato il suo percorso accademico mosso dall’esigenza di comprendere se stesso e il suo vivere da bilingue, motivazione rafforzata in seguito dalla nascita dei due figli e dalla volontà di capire e analizzare le modalità di comunicazione, interazione e sviluppo linguistico nei bilingui. Il lavoro di Grosjean guarda alla vita delle persone bilingui quindi e in questo libro è alle persone che si rivolge; dopo più di 40 anni di lavori accademici finalmente scrive quel testo che avrebbe voluto trovare nella biblioteca dell’Université de Paris negli anni ’70. François Grosjean è un mastro per chi 2 studia il bilinguismo e lo è perché ha iniziato a guardare dentro una materia quando ancora la materia non esisteva e, grazie anche a lui, sarebbe in seguito esistita. Il libro è diviso in due parti che rimandano a due grandi ambiti di ricerca: il bilinguismo negli adulti (Parte Prima) e il bilinguismo nei bambini (Parte Seconda) che, anche nella sequenza, svela l’approccio dello studioso accostatosi al tema partendo da se stesso e poi osservando lo sviluppo della lingua nei suoi figli. La lista di credenze, di miti diremo, che riguardano il bilinguismo forma la trama della narrazione del volume e l’impegno a dimostrare l’inconsistenza di ognuno di essi è l’obiettivo dell’autore. Il punto da cui si partire, il bandolo della matassa afferrare è la definizione di bilinguismo e della persona bilingue che Grosjean intende come “coloro che usano due o più lingue (o dialetti) nella loro vita quotidiana” (p. 27). Con ciò ottiene di sgombrare il campo dal livello di padronanza nelle singole lingue di bloomfieldiana memoria, ottiene di include i dialetti fra le lingue e include in quel “bi-“ più di due lingue. Bilingue è dunque un termine ombrello con il quale si indica, non in modo numerico, il parlante di più di una lingua. Qui si è deciso, per una organica presentazione del volume, di seguire l’elencazione dei miti e delle ragioni della loro inconsistenza con i quali il volume è scandito. Il primo mito che si incontra è: “il bilinguismo è un fenomeno raro” (p. 34). In questo caso i semplici numeri aiutano a dimostrare l’esatto contrario, nei 25 paesi europei il 56% della popolazione è bilingue e il 28% trilingue; negli Stati Uniti la presenza dello spagnolo come L1 o L2 (28 milioni di persone al censimento del 2000) oltre alle altre lingue dell’immigrazione, ne fanno un paese con oltre 55 milioni di bilingui; Asia e Africa sono i continenti con la maggiore densità linguistica e i rilevamenti sono ancora lontani dall’essere consistenti. In sintesi, il bilinguismo, sempre nell’accezione grosjeana, è lo status linguistico più diffuso. Il secondo mito nasce invece dalla perniciosa prospettiva monolingue: “i bilingui hanno una conoscenza bilanciata e perfetta delle loro lingue” (p. 39) spesso specificando l’assenza di accento o l’apprendimento in età precoce. Qui ciò che è implicito è l’interpretazione dello status del bilingue valutato e misurato sul parametro monolingue. Non si tiene cioè conto delle realtà bilingui e di quel principio di complementarità con il quale Grosjean mette in evidenza la correlazione fra gli ambiti d’uso delle lingue e le lingue stesse e dell’impatto che questo ha sul grado di padronanza di una lingua. Il principio di complementarietà enuncia che “solitamente, i bilingui acquisiscono e usano le loro lingue per finalità diverse, in diversi ambiti della vita, con persone diverse. Diversi aspetti della vita spesso richiedono diverse lingue” (p. 45). In sintesi il grado di abilità linguistica in una lingua è relativo alle necessità e all’ambito d’uso. Molti bilingui non solo posseggono gradi diversi di abilità linguistica nelle lingue che usano, ma spesso differiscono in grado anche nelle singole abilità, senza che per questo siano “meno bilingui” o “finti bilingui”. Il terzo mito che incontriamo è: “i bilingui sono traduttori nati” (p. 51) e anche per questo caso è il principio di complementarietà che vige. La padronanza delle lingue non è necessariamente uguale e lo spostamento traduttivo fra i due codici non è mai meccanico. A ciò va aggiunto che le ricerche hanno dimostrato che la memoria tende a mantenere attiva l’attinenza al contesto e che quindi il passaggio tra codici non solo non è meccanico, ma spesso è controllato da una memoria di contesto. Un altro mito è: “i bilingui cambiano codice per mera pigrizia” (p. 64) e su questo c’è da soffermarsi e comprenderne gli effetti che questo comporta, il primo dei quali è la formulazione dispregiativa di nomi come franglais, chinglish, tex-mex e altro ancora. Il cambiamento di codice che nei bilingui avviene per vari motivi, è inteso così negativamente da spingere genitori e insegnanti a scoraggiarlo in ogni modo, è interpretato come una sorta di minaccia alla correttezza linguistica. Ciò che la ricerca dimostra è invece che spesso il cambio di codice è determinato dall’abilità di saper scegliere parole ed espressioni più adeguate per rappresentare un concetto. La capacità di selezionare fra tutto il lessico a disposizione ciò che esprime meglio il concetto al quale si sta facendo riferimento è un’abilità linguistica che caratterizza lo status dei bilingui sulla quale, ancora una volta, gioca un ruolo essenziale il concetto di complementarietà e dunque di contesto. Il mito successivo è: “i veri bilingui non hanno alcun accento nelle loro diverse lingue”, mito quest’ultimo che racconta la realtà solo di una piccola minoranza. La maggioranza dei bilingui porta con sé un accento “straniero” e ciò è dovuto all’età in cui la lingua è stata appresa. Il punto è che ancora una volta la prospettiva monolingue stigmatizza la cosa come inaccettabile o pregiudizievole della “qualità” o del 3 bilinguismo. Grosjean menziona casi di uomini importanti che hanno sempre conservato il loro accento di origine come Henry Kissinger, statista e premio Nobel che conservò per sempre il suo accento tedesco o Joseph Conrad che invece conservò un forte accento polacco nel parare inglese. La lista potrebbe diventare lunga davvero se si inseguisse l’intento di dimostrare che l’accento non influisce in nessun modo sulla conoscenza della lingua. Qui il punto potrebbe essere spostato persino verso una volontaria scelta identitaria, della conservazione e di un’origine che non si vuole omettere dall’immagine di se stessi, l’appartenenza cioè a un gruppo, una affiliazione. Che sia una scelta o meno, l’accento non determina in alcun modo la qualità o la veridicità del bilinguismo. Il successivo mito contro cui lottare è l’idea che “i veri bilingui acquisiscano le loro due o più lingue da bambini” (p. 93). Anche qui è l’oggettività dei dati che si impone e sembra evidente che si possano imparare lingue a tutte le età e che diventare bilingui molto spesso - forse più spesso - avviene in età adulta, magari a causa di migrazioni che siano volontarie o no. A meno che non si reiteri la pregiudiziale monolinguista, gli adulti diventano bilingui tanto quanto lo sono coloro i quali imparano le lingue in età infantile “anche se probabilmente non avranno mai (almeno alcuni di loro) l’accento proprio dei nativi” (p. 93). Il mito successivo di cui parla Grosjean introduce il concetto di biculturalità: “i soggetti bilingui appartengono sempre a due culture” (p. 107) e così non è. Lo status di bilingue non implica una meccanica adesione alle culture delle lingue parlate, almeno non automaticamente e l’esempio riportato dallo studioso fa riferimento proprio ai neerlandesi che possono giornalmente usare la loro lingua, l’inglese e il tedesco senza per questo muoversi di un centimetro dalla loro appartenenza culturale neerlandese. La regola della cautela è forse la più appropriata, la conoscenza e l’uso di una lingua straniera non importa l’adesione alla cultura della lingua alla quale quella appartiene. Ciò che si è osservato è che le persone biculturali da un lato sanno adattarsi a situazioni e contesti diversi, mentre dall’altro lato tendono a sintetizzare in un unicum le espressioni delle due culture e questa seconda modalità è considerata la più facile e spontanea da seguire. Ancora una volta il tema è l’identità, le persone che sono biculturali per i motivi più svariati spesso ambiscono ad essere accettati per ciò che sono prescindendo da stigmatizzazioni aprioristiche. Lo status biculturale garantisce loro la capacità di convivere serenamente all’interno di una e più culture senza per questo dover scegliere l’una o l’altra: “siamo in grado di capire entrambe le parti perché facciamo parte di entrambe” (p. 116). Chiedere, o chiedersi, a quale cultura appartengono è ancora una volta riproporre quell’omogeneità culturale di cui è stato intriso il ‘900. Il mito successivo rimanda sempre ad un problema identitario “i soggetti bilingui hanno una doppia personalità” (p. 117) e il tema diventa più articolato. Grosjean qui si inoltra in indagini fatte sulle modalità linguistiche dei sogni, del pensiero e dell’affettività perché è il mondo del Sé ad essere argomento. Ma, dovendo sintetizzare diremmo che i bilingui che sono anche biculturali adattano il loro comportamento al contesto in cui si trovano e dunque è il mutare delle situazioni e degli ambienti che induce a comportamenti diversi, non è la lingua a farlo. Il passo successivo è il mito che circonda la lingua degli affetti: “i bilingui esprimono le loro emozioni nella prima lingua, che di solito è quella dei genitori” (p. 123). Per ciò che riguarda questo mito bisogna far pace con più di un pregiudizio, il primo dei quali è che non è affatto detto che si abbia una sola lingua madre, il secondo è che il rapporto tra emozioni e lingua è ben più complesso di una semplice connessione. Grosjean condivide i risultati della ricerca su questo argomento di Aneta Pavlenko la quale arriva alla conclusione che le relazioni fra affettività e lingua sono complesse, non lineari e spesso determinate da fattori emozionali tali da non poter essere in alcun modo standardizzati. Esempi come la ricercatrice Gerda Lerner che, dopo aver preso parte alla resistenza anti nazista in Austria, arriva negli stati Uniti e smette scientemente di parlare la sua lingua madre per il senso di repulsione che questa le provocava. Così come il caso della scrittrice Nancy Huston che, trasferitasi e sposatasi in Francia, non riuscì mai a usare l’inglese con la sua bambina perché i ricordi di un trauma infantile le impedirono di farlo. Sebbene questi siano casi unici, è la somma di molte unicità che testimonia la complessa relazione fra lingua e affettività. Con questo Grosjean chiude la prima parte del libro, quella cioè dedicata agli adulti per volgere l’attenzione al mondo dell’infanzia. Questa seconda parte ha la caratteristica di accentuare la sua parvenza di manuale di “istruzioni” per genitori e famiglie che vivono realtà bilingui, ma anche per gli insegnanti che 4 lavorano con bambini bilingui e che spesso mancano di supporto. Il primo mito riguardante l’apprendimento delle lingue nei bambini è certamente fra quelli più radicati: “la lingua parlata a casa avrà un effetto negativo nell’acquisizione della lingua di istruzione a scuola, se quest’ultima è diversa dalla prima” (p. 158). Al contrario, sappiamo che la lingua parlata è di grande aiuto ai bambini di perché consente loro di avere una lingua di scambio con le persone che possono aiutarli affettivamente e concretamente nell’apprendimento scolastico. A questa credenza fa eco il mito successivo: “il bilinguismo è causa di ritardi nell’acquisizione del linguaggio”. Qui i risultati della ricerca sono chiari: nella comparazione fra gruppi di bambini monolingui e bilingui non c’è alcuna differenza in termini di tempo nell’acquisizione del linguaggio, fermo restando le variabili dovute ai singoli casi. Il mito successivo afferma che “quanto prima un bambino acquisisce una lingua, tanto più fluentemente la parlerà” (p. 166). Alla base di questo assunto c’è l’idea che i bambini si curino di meno degli errori, cosa non del tutto veritiera in quanto hanno vergogna e disagio nei confronti dei loro pari. L’altra idea è che il cervello sia più malleabile, ma in realtà si è notato che ai bambini mancando alcune abilità cognitive utili all'apprendimento della seconda lingua. La terza idea è legata al “periodo critico” sostituito dal ben più esteso e articolato “periodo sensibile” che arriva a superare i 10 anni differisce per abilità. Grosjean tirando le somme elenca tre elementi cruciali per l’apprendimento delle lingue nei bambini di tutte le età: “il bisogno di usare la nuova lingua; la quantità e il tipo di input; il ruolo della famiglia e della scuola e gli atteggiamenti prevalenti verso la lingua e la cultura, così come verso il bilinguismo tout court” (p. 167). Continuando nella riflessione sull'apprendimento nei bambini Grosjean individua il mito successivo: “i bambini cresciuti bilingui confonderanno sempre le loro lingue”. I bambini, siano questi bilingui simultanei o successivi, vivono periodi in cui una lingua si impone sull’altra per motivi funzionali alla comunicazione. L’idea che le lingue litighino fra loro, che creino conflitti linguistici di qualche tipo è obsoleta e per ciò che concerne i bambini è chiaro che, in virtù del loro forte pragmatismo, sceglieranno sempre la via più corta ed efficace per comunicare con gli adulti e quindi, se sono consapevoli delle lingue diverse parlate, si adegueranno ad esse. In sintesi, i bambini che crescono in ambienti bilingue cambieranno codice in base alle esigenze, al contesto e alle finalità e questa è un’abilità. Il mito successivo è coerente con quello appena affrontato: “se vogliono che i loro figli diventino bilingui, i genitori devono adottare l’approccio una persona-una lingua” (p. 183). Questo mito è l’enunciato di una strategia, una fra le tante possibili e la ricerca la indica come efficace se applicata sin dai primi mesi di vita. Altre strategie applicabili per avviare il bambino al bilinguismo, sono “casa-fuori casa”, “prima una lingua”, “l’ora della lingua” o “il libero avvicendamento” e per ognuna di esse esistono pro e contro. Ciò di cui bisogna assicurarsi, avverte Grosjean, è che una volta instaurato un regime familiare bilingue, si deve avere cura di mantenere viva nel bambino la reale necessità di usare entrambe le lingue e non lasciare che il suo pragmatismo lo conduca a scorciatoie linguistiche. L’ultimo mito elencato è: “il bilinguismo produce effetti negativi sullo sviluppo dei bambini” (p. 191). Quest’ultimo mito discende da una lunga storia di scritti che si fanno risalire ad alcuni secoli addietro e che, nel corso del tempo, sono stati di volta in volta smentiti. Ma la radicalizzazione storica del tema è tale che è difficile abbatterla, anche a fronte di dati certi. La ricerca odierna, e Grosjean si rifà alla massima autorità nel campo, la psicolinguista canadese Ellen Bialystok (York University) sta affrontando con scientifica meticolosità, ormai da molti anni, ogni singolo aspetto potenzialmente coinvolto nell’influenza che il bilinguismo ha nello sviluppo linguistico di un bambino. Il punto centrale qui è l’affidabilità delle ricerche contemporanee contro le approssimazioni del passato e l’assoluta comprovata certezza che “la tesi degli effetti negativi del bilinguismo non si fonda su riscontri significativi, nemmeno quando si considerano i bambini affetti da disturbi del linguaggio” (p. 191). Il volume si conclude con un capitolo dedicato a “Istruzione e bilinguismo” dove si affrontano tematiche, ancora una volta, pratiche e operative riguardanti il rapporto esistente tra bilinguismo e istruzione, non sempre semplice e non sempre di facile gestione. Ora, per chi conosce il lavoro di François Grosjean attraverso le sue innumerevoli pubblicazioni accademiche, troverà questo volume una sorta di dettagliato riassunto delle tematiche da lui affrontate nel corso degli anni. Ma è un riassunto narrato, che si tiene lontano quanto più possibile dalla struttura dell’esposizione accademica e che si 5 conclude con una bibliografia essenziale, divisa in due parti “In lingua inglese” e “In lingua italiana”, in cui sono elencati qui documenti necessari ad affrontare il tema del bilinguismo. A nostro avviso la scelta di Grosjean di divulgare la scientificità delle conoscenze sul bilinguismo oggi in nostro possesso è da intendersi come uno dei tanti obiettivi accademici raggiunti dallo studioso. La marginalità del tema, dettata da ideologismi e credenze, è stata superata dalla realtà e dai risultati di mezzo secolo di ricerca, ma non sempre questo ha comportato il diffondersi di questa conoscenza. Le istituzioni nazionali e internazionali oggi sollecitano lo sviluppo e la gestione del multilinguismo in ogni paese, confidando in questa come una parte non secondaria nel percorso di costruzione di pace. I ricercatori, i linguisti, i linguisti applicati che posseggono questa conoscenza hanno dunque il compito etico scientifico della divulgazione senza la quale i miti individuati da Grosjean continueranno ad impedire lo sviluppo e il progredire del bilinguismo e del multilinguismo. Le ultime righe del volume sono dunque più che un semplice auspicio condivisibile: “Sogno il momento in cui questi giovani e, in seguito, adulti, saranno tutti orgogliosi delle loro lingue e culture, e accettati per quello che sono: semplicemente, persone bilingui e biculturali.” (p. 210)

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