Giugno 2015  Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792
Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni
F. Antinucci, Cosa pensano gli americani (e perché sono così diversi da noi) di Roberta Barazza

AUTORE: Francesco Antinucci

TITOLO: Cosa pensano gli americani (e perché sono così diversi da noi)

CITTÀ: Bari

EDITORE: Editori Laterza

ANNO: 2012

 

Nonostante gli USA siano un paese occidentale, democratico e apparentemente molto simile all'Europa, dietro una superficiale somiglianza, secondo l'autore di questo libro, si nascondono profonde differenze che trovano spiegazione nella storia dei diversi popoli e nel rapporto tra cittadini e Stato (p. V):

 

"Qui in Italia pensiamo all'America come a un paese occidentale, al pari di quelli europei. Anzi, tendiamo a considerarla il paese leader di un gruppo molto unitario per valori, costumi, mentalità, ordinamenti, e così via. Un'Europa soltanto un po' più grande, insomma, più ricca e qualche anno più avanti - con alcune, ovvie, differenze culturali, non superiori a quelle che si possono riscontrare tra i vari paesi europei. 

Non è così. La somiglianza è tanto superficiale quanto ingannevole, perché l'America è un paese profondamente diverso da qualunque paese europeo - persino dalla Gran Bretagna che, al di là della comunanza di lingua, è in realtà più simile ai Paesi del Vecchio Continente che non agli Stati Uniti." 

 

L'autore, che snoda le sue riflessioni nella forma di un dialogo con un ipotetico interlocutore, inizia la sua argomentazione chiedendosi quali sono le caratteristiche tipiche di un italiano. Il suo interlocutore gli suggerisce tratti caratteriali negativi, come la furbizia e l'indolenza, ma non gli è facile individuare virtù positive. Per un americano la risposta sembra più facile: l'appartenenza alle proprie istituzioni politico-ideologiche. Anche noi europei, ovviamente, abbiamo istituzioni democratiche e liberali, spiega l'autore, ma se, per esempio, i francesi, non appartenessero allo Stato repubblicano francese, bensì al regno del Re Sole, si sentirebbero ugualmente francesi. Gli italiani si sentono italiani ora, in un regime democratico, ma si sentivano italiani anche durante il fascismo o in epoca giolittiana. Per gli americani, invece, essere americani significa appartenere agli Stati Uniti d'America. I principi della costituzione americana, quel documento di quattro pagine scritto più di duecento anni fa, sono ciò che fa del popolo americano un'unica nazione. 

L'America si è formata con l'arrivo di emigranti di varia origine e provenienza. Chi arrivava nel Nuovo Mondo aveva spesso buoni motivi per abbandonare la patria d'origine: povertà, sofferenze, persecuzioni. In America cercava una vita migliore, insieme a tanti altri cittadini, diversi per origine e nazionalità, ma accomunati dal sogno di appartenere a questa 'land of opportunities'. Recita la Costituzione americana: 

 

'Noi, il Popolo degli Stati Uniti' [crediamo che, n.d.r.] 'Tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà e il perseguimento della Felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati'. 

 

È nell'adesione a questi valori che si costituisce l'identità dei cittadini americani. È questo il loro credo fondante. La fede nella democrazia rappresenta una sorta di religione laica che spiega certe situazioni che a noi europei possono apparire sorprendenti, come, ad esempio, la volontà di 'esportare la democrazia': un chiodo fisso per gli americani.

Anche noi europei crediamo nella democrazia, ma la maggior parte di noi non ritiene che sia giusto imporre questa forma di governo a un altro paese. Questo perché, per noi, le istituzioni democratiche sono un aspetto importante, ma non totalizzante, della cultura di un popolo. Per gli americani tali istituzioni definiscono la loro nazione e dunque, per estensione, la Nazione in sé, la nazione di qualsiasi popolo. Un popolo diventa Stato solo quando si dota di un governo democratico. Solo una tale politica ha legittimità. Solo in una democrazia un popolo diventa 'We the People' dell’incipit della Costituzione Americana. Sono differenze culturali importanti che possono far sorgere incomprensioni reciproche. Per questa loro mentalità, gli americani ci appaiono ingenui, un poco ottusi o anche invadenti e irrispettosi delle differenze culturali tra le nazioni. Per loro, invece, noi siamo cinici e insensibili, poco generosi e poco disponibili ad aiutare gli altri popoli. Quello che per noi è rispetto delle culture altrui, agli americani può apparire come calcolato interesse a mantenere le nazioni in uno stato di arretratezza coloniale. D'altro canto, anche noi tendiamo a pensare che il loro interventismo sia basato su interessi economici e volontà di dominio più che su altruismo e generosità.

Significativo è il fatto che l'espressione 'esportare la democrazia' o 'export democracy' la si usa più al di fuori dell'America che negli USA, dove si dice piuttosto 'promote democracy', promuovere, sostenere la democrazia. 

Un'altra profonda differenza tra lo Stato americano e l'Europa è la concezione della lingua. Per quanto strano possa sembrare, l'inglese (o l'americano) non è l'idioma ufficiale degli Stati Uniti. Negli USA non vi è una lingua ufficiale. Ciò è sentito come una violazione dei diritti delle minoranze che avrebbero difficoltà a comunicare con le istituzioni se lo dovessero fare solo in inglese. L'America è tale in quanto popolo di persone di diversa origine, al contrario dei paesi europei in cui l'elemento etnico costituisce un aspetto fondamentale. Cosa fa di un francese un francese? La lingua, innanzitutto. E così per lo spagnolo, l'italiano, e così via. La lingua è un elemento costitutivo di un paese europeo. Tant'è vero che l'Unione Europea ammette incontri, discussioni, eventi politici comuni in tutte le lingue ufficiali degli stati europei: l'identità di uno stato europeo è riconosciuta innanzitutto attraverso la considerazione della sua lingua. Pretendere che il linguaggio ufficiale degli Stati europei sia solo uno o solo alcuni di essi, significa non rispettare tutte le singole identità nazionali. Gli americani ragionano al contrario. Poiché la loro nazione non è basata su un'identità etnica preponderante, imporre una lingua ufficiale significa non riconoscere chi non la parla. Meglio quindi, non avere un idioma ufficiale. 

Una ventina di anni fa un movimento americano pretendeva il riconoscimento dell'inglese come lingua ufficiale. Non ha avuto successo e, anzi, questa proposta è stata considerata dalla maggior parte dei cittadini, dal mondo accademico, dall'intellighenzia e persino dalla potente e prestigiosa ACLU, l'American Civil Liberties Union, una sorta di tradimento dello spirito della nazione e un progetto illegale: violerebbe, infatti, il diritto del cittadino di comunicare con il governo, diritto esplicitamente sancito nel primo emendamento. Se l'adozione di una sola lingua ufficiale ostacolasse la piena realizzazione dei diritti civili, allora si scontrerebbe con il criterio fondamentale di cittadinanza. La lingua, lungi dall’essere l’elemento identitario comune, si trasformerebbe in uno strumento di divisione e discriminazione. 

Nel terzo capitolo del libro l'autore descrive quella che, per gli americani, è una vera e propria mania: il ranking, l'abitudine, cioè, a classificare ogni cosa stilando un ordine che va dal migliore al peggiore, dal massimo al minimo. Ciò che per noi europei è una sorta di gioco che non prendiamo troppo sul serio, per gli americani è faccenda molto seria e importante. Tutto viene classificato: una scuola, un'università, una città, un aeroporto, un prodotto, le persone. Non è un caso che sia americana la rivista che ogni anno stila la classifica delle persone più influenti del mondo. Per quanto possa sembrare paradossale, lo scopo del ranking non è, secondo Antinucci, sancire priorità e differenze, quanto piuttosto permettere uguaglianza ed eque opportunità per tutti. 

Un esempio può meglio spiegare la sua riflessione. Per iscriversi in un'università, uno studente deve superare un test d'ingresso, il SAT (Scholastic Aptitude Test), che è, dal 1926, l'esame di ammissione in quasi tutte le università americane. Esso non misura, però, le conoscenze dello studente, bensì la sua intelligenza, la sua capacità di capire, di connettere e confrontare dati in modo logico, e trarre conclusioni. Può sorprendere che, per accedere a Yale o a Harvard, non sia necessario che uno studente dimostri una profonda conoscenza di una certa materia. Ma è proprio così. Il motivo di questa scelta consiste nel fatto che, solo in questo modo, qualsiasi studente molto dotato potrà accedere alla migliore istruzione. Le conoscenze pregresse potrebbero non dipendere dalle doti dello studente bensì dal suo ambiente di vita e di studio, più o meno fortunato. Se egli viene da un ambiente disagiato, difficilmente avrà potuto dedicarsi con tranquillità e profitto allo studio delle varie discipline scolastiche. Se il SAT chiedesse nozioni, gli studenti meno fortunati, anche se molto dotati, sarebbero esclusi da un brillante percorso accademico. Al contrario, persone intellettualmente modeste ma provenienti da famiglie agiate, avranno probabilmente potuto dedicarsi con profitto allo studio delle materie scolastiche, e così passerebbero facilmente un test nozionistico. Un SAT che misura l'intelligenza, e non le conoscenze acquisite, è dunque la migliore garanzia di giustizia sociale. Ciò che viene premiato sono le doti individuali. Ecco allora che il ranking, quest'abitudine a stilare classifiche su tutto, ha lo scopo di favorire la creazione di un ambiente in cui le differenze non costituiscano un ostacolo alla più equa distribuzione delle ricchezze materiali e intellettuali tra tutti i cittadini. Con questo sistema ogni persona può coprire la posizione sociale a lei più adatta, in base al suo talento, senza essere ostacolata da quei fattori, casuali o involontari, che dipendono invece dall'ambiente esterno. Se test e classificazioni a noi italiani piacciono poco perché fanno pensare a spiacevoli paragoni o a ingiuste gerarchie, per gli americani rappresentano invece uno strumento utile per mettere ogni cittadino al posto giusto nella società. Noi in Italia temiamo la competizione e le distinzioni in base al merito. Le temiamo come causa di ingiustizie. In America, al contrario, le differenze sono riconosciute: è normale che vi siano persone più o meno dotate. Giustizia, per gli americani, è che ognuno occupi un posto nella società che corrisponde ai suoi meriti. Noi tenderemmo a pensare che ognuno dovrebbe avere ciò che hanno gli altri, indipendentemente dal merito. Per gli americani, non costituiscono un'ingiustizia le differenze di posizione, ricchezze, ruoli, quanto piuttosto il fatto che queste non corrispondano al talento personale.  

Nel terzo capitolo del libro l'autore prende in considerazione il tema della filantropia. 

Donare (in americano 'give'), spiega Antinucci, è sempre legato, per gli americani, a un'altra simile espressione, 'give back', 'restituire'. Chi diventa ricco in USA sente di aver ricevuto delle opportunità che, molto probabilmente, non avrebbe avuto altrove. E sente il bisogno di restituire alla collettività ciò che lui ha avuto la fortuna di ricevere. Ciò spiega l'alto numero di donazioni provenienti da cittadini americani, a differenza dell'Italia dove solo pochi offrono in beneficenza parte dei loro introiti. Questo avviene nonostante le regole fiscali di entrambi i paesi offrano notevoli vantaggi a chi devolve beni per motivi umanitari, sociali o filantropici. Per certi aspetti, scrive Antinucci, il regime fiscale italiano offre ai filantropi vantaggi ancora maggiori rispetto al fisco statunitense. Nonostante ciò, in Italia, l’ammontare complessivo delle donazioni annue si aggira sui 3,5 miliardi di euro, mentre negli Usa la cifra è 303 miliardi di dollari, che corrispondono a circa 233 miliardi di euro. Certo, la popolazione americana è circa cinque volte quella italiana; ma la differenza resta abissale. Un settore in cui la filantropia a stelle e strisce brilla è quello accademico: molte università, soprattutto le più prestigiose, ricevono ogni anno milioni di dollari dai privati, e buona parte di queste donazioni provengono dagli ex-alunni. Sono situazioni che in Italia accadono molto raramente. Una moda sempre più diffusa in USA è il Giving Pledge, l'impegno dei genitori ricchi a lasciare la maggior parte del proprio patrimonio non ai figli bensì alla società, a fondazioni umanitarie o enti pubblici. L'idea di base è che lasciare un ingente patrimonio ai figli significhi non stimolarli a costruirsi la propria fortuna; molti ricchi sentono, inoltre, il bisogno di restituire alla società parte della fortuna che quell'ambiente ha offerto loro. Ecco alcuni motivi per i quali gli americani donano così tanto e noi italiani così poco. E non è solo una questione di budget personale o familiare. Certo, milionari e miliardari ce ne sono di più oltre oceano, ma la beneficienza non è solo faccenda da ricchi. La questione è, secondo Antinucci, anche e soprattutto, culturale, etica e storica. L'Italia unita nasce come monarchia in cui i cittadini sono sudditi. La nascita degli Stati Uniti d'America ha un significato ben diverso: è un paese dove trovano rifugio coloro che sfuggono a povertà, persecuzioni, disgrazie, e in questa  nuova terra trovano possibilità di riscatto e l'inizio di una nuova vita. Lo stato americano stesso si fa garante di difendere il diritto dei suoi cittadini a una vita ricca e promettente. L'America è sentita come 'land of opportunities' e chi fa fortuna sente il bisogno di restituire alla società, e allo Stato stesso, parte di ciò che ha ricevuto. In Italia invece, le istituzioni sono sentite spesso, ancor oggi, come antagoniste ai cittadini, rappresentano uno Stato-padrone che sottrae gran parte del frutto del nostro lavoro. Gli italiani spesso diffidano delle istituzioni e, per molti italiani, la classe politica approfitta del proprio ruolo per interessi personali. Noi ci sentiamo spesso beffati da leggi e regolamenti che sembrano caderci in testa senza che riusciamo a controllarne il funzionamento. In America, per i più, lo Stato rappresenta invece quella garanzia di una vita prospera e felice che è sancita dalla sua stessa costituzione. Ecco perché così tanti americani donano generosamente a enti pubblici e organizzazioni umanitarie. Il rapporto tra cittadino e Stato, nei due paesi, è radicalmente diverso.

Nel capitolo 4 Antinucci parla della menzogna e di quanto essa sia condannata in America, non solo dalle leggi, ma anche dall'opinione comune. 

Mentire, per chi ha responsabilità pubbliche, può portare a gravi accuse e condanne. Ben due presidenti sono stati accusati di ciò durante la loro presenza alla Casa Bianca: Nixon, che poi subisce l'impeachment, e Bill Clinton. Ciò che porta alle dimissioni Nixon non è tanto la sua responsabilità nello scandalo Watergate, quanto piuttosto il fatto di aver mentito su ciò che sapeva al riguardo. La menzogna, dimostrata da certe registrazioni dei suoi discorsi, gli costa la presidenza. 

Analogamente, le accuse a Bill Clinton, travolto dallo scandalo Lewinsky, non riguardano tanto il fatto di aver avuto rapporti sessuali con la stagista, quanto piuttosto di aver mentito asserendo di non averne avuti. Asserire il falso è più grave nella sfera pubblica che in quella privata perché chi ricopre un incarico politico romperebbe, mentendo, il patto di fiducia con chi lo ha eletto. A noi italiani, abituati agli scandali dei politici e alla corruzione, può sembrare eccessiva la severità con cui vengono punite le menzogne dei rappresentanti pubblici americani.

Secondo l'autore, questo comportamento è comprensibile riandando alle origini della storia degli Stati Uniti. Le prime comunità di esuli dall'Europa costruirono villaggi in cui ognuno era tenuto a contribuire al bene comune e in cui la fiducia reciproca era fondamentale per iniziare una nuova vita e avere successo. Erano comunità piccole, in cui tutti si conoscevano bene. Non vi era grande separazione tra la sfera della vita pubblica e il privato. Ognuno era impegnato nella costruzione di questo Nuovo Mondo e, per il proprio e l'altrui successo, la solidarietà e la fiducia erano indispensabili. Per chi copriva incarichi politici, poi, queste regole erano ancora più vincolanti. Ancor oggi i politici americani eletti nelle varie circoscrizioni elettorali, rigorosamente uninominali, mantengono uno stretto rapporto con i propri elettori i quali, cosa poco frequente in Italia, si sentono liberi di contattarli suggerendo proposte e cambiamenti che possano contribuire a risolvere i problemi sociali. Ecco quindi come, ancora una volta, è il forte senso di appartenenza alla propria comunità e alla propria nazione che fa della menzogna un grave reato, soprattutto per chi rappresenta interessi collettivi. E questo spiega anche la gravità con cui le leggi americane e anche la pubblica opinione condannano l'evasione fiscale. Non si tratta solo del fatto che è violazione di legge; essa è innanzitutto una colpa morale che suscita la disapprovazione dei concittadini. In Italia questo crimine non è percepito come altrettanto grave. Evadere il fisco imposto dallo Stato è considerato, da molti italiani, un imbroglio fatto a un imbroglione, lo Stato, appunto. E per questo facilmente perdonato.       

Un altro aspetto che ci differenzia dagli americani è il rapporto con il futuro e il progresso. Antinucci porta molti esempi che indicano l'attrazione e la propensione degli americani per il futuro e il cambiamento, e l'altrettanta diffidenza e rifiuto che ciò suscita nella maggior parte degli italiani. 

La fantascienza, termine che in Italia compare solo nel 1952, negli Stati Uniti è uno dei generi letterari più diffusi e amati. Da noi piace solo a pochi appassionati. Gli OGM, che in Italia destano tanto scandalo e resistenza, sono visti in America come prodotti vantaggiosi, e un'autentica opportunità per sconfiggere la fame nel mondo. Se a un americano che sta lavorando al computer compare uno di quei frequenti messaggi con cui si invita a scaricare aggiornamenti, la reazione immediata, dice Antinucci, è di avviare subito l'aggiornamento. Ben diverso il comportamento degli italiani che, istintivamente, rifiuteranno o rinvieranno l'aggiornamento. I progetti dell'alta velocità in Italia sono rifiutati, se non da tutti, almeno da un gruppo agguerrito di persone che compiono atti di boicottaggio e distruzioni paragonabili, secondo Antinucci, al luddismo inglese dell'inizio della rivoluzione industriale quando molti temevano le macchine e le consideravano un pericolo da distruggere. C'è molta resistenza in Italia, secondo Antinucci, alle innovazioni della modernità o a qualsiasi iniziativa che susciti cambiamenti. Siamo un popolo di conservatori.  

Nella storia americana, invece, Antinucci legge una costante propensione al cambiamento e al progresso. Quando i primi europei giunsero in America, il loro problema era quello di conquistare le nuove terre e sfruttarle. Lo spazio era molto vasto e il lavoro enorme: non vi erano abbastanza uomini per coltivare campi e costruire città. Per questo qualsiasi innovazione tecnologica che potesse aiutarli a velocizzare il lavoro era ben vista. In Europa, al contrario, la tecnologia era, ed è ancora, percepita spesso come un'incognita e un pericolo perché, sostituendo la manodopera, crea disoccupazione. Tanto interesse ed entusiasmo suscitano le innovazioni in America, quanto indifferenza e scetticismo da noi. 

Un altro esempio è il libro elettronico, poco amato in Italia, e ancor meno diffuso e commercializzato. Molti italiani, pur non avendo mai letto un e-book, elencheranno una lunga serie di motivi per cui restano preferibili i libri cartacei. Negli USA, invece, in certe città, anche, universitarie, addirittura non esistono più librerie poiché i libri sono stati sostituiti dagli e-book (p. 90).

 

"E in Italia? Possiamo star tranquilli: né librerie, né libri cartacei spariranno in un futuro prossimo venturo. Non credo sia nell'orizzonte di questa generazione assistere a un cambiamento del genere. Anzi, nello specifico settore di cui stiamo parlando - libri e librerie - si è consumato, circa un anno fa, un evento eclatante. In nome della conservazione dello statu quo è stata approvata una legge impensabile in un paese occidentale a economia capitalistica avanzata. È una legge che pone un limite agli sconti effettuabili sui libri: non più del 15% del prezzo di copertina. Qui non si tratta né di protezionismo (non c'è alcuna concorrenza straniera da tenere a bada), né di controllo dei prezzi per impedire rialzi ingiustificati a danno dei consumatori ("eccezioni" frequenti nelle economie capitalistiche) e nemmeno di spezzare un cartello palese o nascosto di produttori. No, qui si trasgredisce il principio cardine che regola l'economia di mercato: la libera concorrenza nel prezzo. Viene meno lo stesso meccanismo principale che giustifica tale economia: l'abbassamento del prezzo per effetto della concorrenza. Altro che tutela del consumatore! Siamo decisamente più vicini all'economia delle corporazioni medioevali, dove le diverse categorie fissavano rigidamente i prezzi dei generi che producevano e a nessun singolo era permesso di modificarli, soprattutto di abbassarli. Nessuno ha protestato: ancora un volta, "guardare indietro" e resistere al futuro si rivelano essere atteggiamenti profondamente interiorizzati del nostro paese (e causa di non pochi dei suoi problemi), diametralmente opposti a quelli degli Stati Uniti."

 

Secondo l'autore, dunque, il nostro è un paese conservatore, con un istintivo rifiuto delle novità. Questa è solo una delle numerose differenze tra il nostro Paese e gli USA: due nazioni avanzate, occidentali e democratiche, ma divise, per molti aspetti, da una storia, una cultura e un senso dello Stato profondamente diversi.  

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