Questo è il testo di una conferenza tenuta presso l’IRRSAE del Veneto nel novembre del 1999. La si riproduce per autorizzazione dell’autore. |
Problemi di comunicazione interculturale con allievi stranieri adulti |
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Prof. Paolo E. Balboni
Il fatto che gli studenti adulti con cui si lavora abbiano una padronanza base dell’italiano, per cui la comunicazione elementare è garantita, può far dimenticare che ogni persona
· sul piano concettuale, continua a pensare secondo le proprie regole e categorie culturali
· sul piano comunicativo, assume la grammatica e il lessico della lingua italiana ma conserva i propri codici extra-linguistici: gestualità, distanza interpersonale, simboli di status e di gerarchia, ecc., che vengono percepito come universali, mentre cambiano in ogni cultura
In altre parole, si controlla l’aspetto formale della lingua, ma perde di vista il fatto che la lingua non è solo pronuncia, lessico e grammatica, ma è una realtà ben più complessa e legata a fattori culturali, per cui un gesto o un vestito possono contraddire quanto detto dalla lingua, possono deviare l’attenzione dell’interlocutore da quello che viene detto al modo in cui lo si dice, possono creare momenti di tensione e anche errori irreparabili.
Vedremo dunque qui di seguito alcuni aspetti della comunicazione interculturale che vanno tenuti in considerazione nell’interazione con studenti stranieri adulti. Verranno elencati molti aspetti curiosi, talvolta sorprendenti: lo scopo non è quello di dare una sventagliata di informazioni sminuzzate, bensì di
· “aprire gli occhi”, facendo notare alle persone che operano in ambiente multiculturale alcuni aspetti da osservare
· fornire una griglia logica degli strumenti comunicativi e delle principali mosse comunicative, dei valori e dei parametri da tenere in conto, in modo che l’osservazione non sia casuale ed episodica, ma possa trasformarsi in appunti all’interno di una griglia che incrocia le nazionalità e gli aspetti gli aspetti della comunicazione.
Prima di muovere all’analisi è anche utile ricordare che gli esseri umani comunicano con il loro corpo, con oggetti, oltre che con la lingua. Spesso si crede che la comunicazione linguistica sia tutta la comunicazione, tuttavia,
· 83% delle informazioni che raggiungono la nostra corteccia cerebrale passa attraverso gli occhi
· solo 11% giunge dall’orecchio...
Siamo dunque più, molto più “visti” che “ascoltati”, e molto spesso è solo dopo aver deciso, sulla base di quel che si vede (aspetto, vestiario, ecc.) di una persona che si decide se ascoltarla o non.
Inoltre il funzionamento del nostro cervello nel momento in cui procede alla comprensione prevede che i due emisferi cerebrali procedano con un ordine ben preciso, indipendente dalla qualità dello stimolo verbale o visivo che ricevono: prima si attiva l’emisfero destro del cervello (quello analogico, globale, visivo, emotivo) e poi i dati così pre-elaborati vengono passati all’emisfero sinistro (logico, razionale, linguistico, analitico): siamo dunque prima “visti” e poi “ascoltati”.
La priorità temporale e la prevalenza quantitativa non intaccano certo il primato della lingua come strumento di comunicazione - ma si deve prestare attenzione a non sottovalutare gli aspetti non verbali, che risultano particolarmente connotati nelle diverse culture.
1. I parametri per valutare i problemi interculturali
Esistono molti parametri elaborati dalle scienze della comunicazione e da quelle del linguaggio per valutare di volta in volta la qualità di una mossa o di uno strumento di comunicazione. Tra questi i più produttivi nella nostra prospettiva sono:
a) formale vs. informale: si tratta di un’opposizione essenziale, se non altro perché nella comunicazione “l’abito fa il monaco”, siamo prima visti e poi ascoltati, e un errore sul piano della formalità che è richiesta in molte situazioni può compromettere lo scambio. Ogni cultura ha il suo modo particolare di identificare formalità ed informalità, non solo nel linguaggio, ma anche nel modo di comportarsi, di scegliere un regalo, di abbigliarsi;
b) polite vs. unpolite: usiamo i termini inglesi perché essi includono non solo il “ben educato” italiano, ma anche un concetto di adeguatezza alla situazione, nonché un concetto di gentilezza e di rispetto sociale che va oltre la cosiddetta “buona educazione”: ad esempio, la sequenza “io e te” viene vissuta come unpolite in Germania, Inghilterra, America, dove “du und ich” o “you and I” sono invece richiesti;
c) forza mascherata vs. esplicita: in una “lotta” quale è la comunicazione la forza non va sempre evidenziata, perché l’interlocutore potrebbe offendersi e interrompere lo scambio;
d) politicamente corretto vs. scorretto: ancorché tradotta in italiana l’espressione politically correct è culturalmente di matrice nordamericana; si tratta di un parametro che sta lentamente penetrando in Europa: non tanto in Gran Bretagna, dove la consonanza con gli Stati Uniti è spesso più linguistica che culturale, quanto nel BeNeLux e nell’area scandinava. In base a questo parametro puramente culturale, quindi estremamente rilevante nella nostra prospettiva, la scelta lessicale ha valore “politico”: rientrano in questa sfera il rispetto etnico (ad esempio “persona di colore”, che abbiamo preso in prestito dall’americano per indicare un non-bianco; in italiano è politicamente marcata la scelta tra “negro” e “nero”), le pari opportunità al mondo femminile, facilmente realizzabile in inglese, dove il femminile è poco marcato (he/she, his/her, man/woman) diviene spesso ridicola in italiano, dove il genere maschile o femminile distingue tutti i nomi, gli articoli, gli aggettivi e spesso i pronomi...
e) uso libero vs. taboo: solo la consuetudine e l’attenzione precisa consente a persone che frequentano ambiti internazionali di cogliere il continuo variare degli argomenti di uso libero e di quelli tabooizzati. Spesso, ad esempio, gli stessi italiani non si rendono conto di quanto sia taboo nella nostra cultura l’accenno alle cure psicologiche: il consiglio di andare da uno psicologo o da uno psicoanalista viene sentito come offesa, significa “sei matto!”; l’italiano del nord cui uno straniero chiede qualcosa sulla mafia esorcizza il problema (“Primo, la mafia è in Sicilia, in parte del Sud; secondo: Riina è in galera, ce la faremo”) e poi cambia discorso. Allo stesso modo, un inglese mesta in ogni turbidume della royal family ma reagisce se lo fa un non-inglese (soprattutto se lo fa un Americano, cui si ribatte elencando le segretarie e stagiste del Presidente Clinton).
Ogni cultura ha dei taboo noti e ne ha altri che mutano rapidamente, e solo due taboo sono da ritenersi universali (anche se vi sono eccezioni) sono eros e thanatos, cioè i discorsi riguardanti il sesso e la morte. Anche i discorsi sulla digestione e sui sentimenti personali vanno considera taboo nelle culture di origine inglese;
f) atteggiamento cooperativo vs. arroccato: l’atteggiamento delle persone che stanno comunicando può essere arroccato, del tipo “in questo momento ho la parola io, quindi questo è il mio momento e nessuno intervenga mentre emetto il mio messaggio”, oppure può essere cooperativo: “sebbene tu abbia la parola, mi permetto di intervenire per integrare, correggere, sostenere quanto tu dici”. Tendenzialmente gli italiani appartengono a questo secondo gruppo, ma la loro disponibilità a collaborare si scontra con l’irritazione fortissima dei nordici se vengono interrotti: essi possono sentirsi talmente offesi da rinunciare a proseguire nel loro discorso.
2. Alcuni valori problematici sul piano comunicativo
Vedremo in questo paragrafo alcuni valori, alcuni software of the mind, come dice Hofstede, di cui è di solito inconsapevoli e che possono creare problemi.
2.1 Il tempo
Nulla pare più naturale ad una persona che la nozione di tempo (la cui esistenza in fisica è messa in dubbio da molte filosofie di questo secolo...). E’ ovvio a un italiano che la giornata inizia con l’alba, mentre è ovvio a molti asiatici e africani pensare che la giornata finisca con il tramonto e che quindi l’inizio della giornata successiva coincida con l’inizio della notte. E’ ovvio che Natale sia d’inverno, Pasqua a primavera e così via, perché usiamo il calendario solare - ma l’altra sponda del mediterraneo usa il calendario lunare, quindi le festività progrediscono di undici giorni all’anno...
Se l’esempio fatto sopra ha grande valore per far intuire la complessità del problema, esso non pone problemi sul piano comunicativo. Ma il concetto di tempo crea, per altri versi, molti problemi su quello relazionale:
· il concetto di puntualità, ad esempio, è molto cangiante: per le culture industrializzate la puntualità è essenziale, per un orientale o un arabo spesso è un’indicazione di massima;
· tempo come corda o come elastico: secondo gli orientali e, per certi versi, anche per molti centroamericani e brasiliani, noi europei e i nordamericani viviamo il tempo come una corda tesa: può anche rilassarsi, ma rimane pur sempre della stessa dimensione, della stessa natura; per gli orientali, invece il tempo è un elastico, che di norma è in posizione di riposo, si tende nel momento in cui c’è una ragione per farlo, poi torna a rilassarsi
· “il tempo è danaro”: questa frase è naturale in una cultura industriale, ma certe sue applicazioni creano forti problemi comunicativi: una telefonata americana va straight to the point, mentre una telefonata italiana inizia comunque con convenevoli, e in molte culture tagliare i convenevoli (al telefono, in incontri privati, in una trattativa, anche tra sconosciuti: si pensi all’acquisto di un tappeto in un negozio arabo...) è disdicevole: un interlocutore sente di star perdendo tempo (e danaro) e l’altro sente di essere di fronte ad una persona rude, incivile - e il problema comunicativo si innesca
· orrore del tempo “vuoto”: il rifiuto del silenzio è tipico di molte culture, per cui in molte lingue ci sono riempitivi da usare in macchina, a tavola, durante le pause di riflessione: è quel small talk in cui eccellono gli anglosassoni e che invece non interessa agli scandinavi (quanti minuti di silenzio, di “tempo vuoto” ci sono in un film di Bergman? Per contrapposto, pensiamo al sovrapporti si scene e di dialoghi in un montaggio americano), gli arabi, gli orientali in genere. Un cinese ben educato, anche se sa bene la risposta, lascia passare qualche secondo dopo una domanda intelligente, per dimostrare quanto sia degna di pensarci bene prima di rispondere
· il tempo futuro: sono ben note interiezioni quali l’arabo inshallah o il suo omologo spagnolo si Dios quiere, se Dio vuole. Non si tratta di mero fatalismo, come può pensare un europeo, ma di una radicata necessità religiosa, esplicita nel Corano, di riconoscere sempre che il futuro è nelle mani di Dio e che quindi anche l’uso del tempo futuro dei verbi può risultare blasfemo: una sfida a Dio
1.2 il tempo strutturato: la scaletta, l’ordine del giorno, l’agenda dei lavori sono, per i latini, “utili suggerimenti” , ma per uno svedese si tratta di una riedizione delle tavole della legge: frasi come “possiamo saltare questo punto e tornarci dopo” oppure “questo punto lo completiamo in seguito: tanto una soluzione si trova” sono degli affronti personali per il nordico, per la sua strutturazione del tempo che si deve trasformare in progetto e in azione. |
2.2 La gerarchia e lo status
La gerarchia è la concretizzazione di un’idea del potere; a seconda delle culture le comunicazioni interne alla gerarchie vengono regolate sulla base di quell’idea di potere: una gerarchia italiana non ammette che una persona che svolge una funzione di quarto livello faccia avere proposte o obiezioni al livello 2 senza passare per il suo superiore di terzo livello; se crede che quest’ultimo gli sia ostile, può con qualche rischio rivolgersi ad un pari grado del suo superiore; in un’azienda americana invece il lift boy può fare avere un progetto a un funzionario di altissimo livello: se la proposta è buona, può saltare vari livelli - e se è cattiva si licenzia senza dare il tempo ai suoi superiori di licenziarlo. In altre parole, in alcuni casi si comunica tra funzioni, in altri tra persone; siccome ogni persona ricopre una funzione in una gerarchia, i problemi comunicativi vengono risolti da diversi mix delle due componenti a seconda di ogni cultura.
In molte culture asiatiche e africane il concetto di gerarchia è fortissimo e viene esibita, non solo con status symbol ma anche con domande che si pongono al primo incontro e che a noi possono sembrare quasi impertinenti: la prima domanda è “come ti chiami?” e la secondo può facilmente essere “che professione fai?”. In Turchia, in un’università di carattere internazionale, un professore universitario è stato redarguito per aver tagliato il panettone e servito da bere durante una festina natalizia; sempre per restare in Turchia, alcuni commensali socialdemocratici (quindi ideologicamente restii all’accentuazione delle gerarchie), si sono stupiti in un ristorante gestito da un italiano quando, a fine serata, il gestore italiano ha invitato il capocuoco italiano a sedersi alla sua tavola: aveva infranto la gerarchia.
Alla base della gerarchia c’è il concetto di “status” che può essere attribuito dalla società o guadagnato sul campo. In molte culture, ad esempio quella cinese, l’età è un fattore di status: l’anziano, in quanto anziano, merita rispetto. Si tratta di un caso di status “attribuito”: oltre al caso dell’età, sono esempi di status attribuito sia l’appartenenza a un’aristocrazia (si pensi al ruolo dei “principi” arabi, che guidano le delegazioni e conducono trattative indipendentemente dalla loro abilità) sia il sesso, per cui in molte culture orientali e in quella araba la donna non ha status alto quindi è esclusa dalla comunicazione con stranieri. In questi casi di status “attribuito” l’insegnante italiano commette infrazioni gravissime se cerca di rompere le convenzioni, spingendo membri di età inferiore a sostituirsi all’anziano per avere una comunicazione più precisa e snella: spesso ciò può compromettere il contatto. Il problema non si pone quando il prestigio di status non è “attribuito” ma acquisito sul campo, con la propria preparazione, il proprio curriculum.
Connesso al problema dello status e del suo riconoscimento da parte di tutti i partecipanti a un evento comunicativo c’è quello del rifiuto di “perdere la faccia”: un arabo giungerà a negare platealmente l’evidenza, in alcune situazioni, e potrà attribuire al demonio un incidente da lui provocato di fronte agli interlocutori pur di non perdere la faccia. In questo caso, pretendere scuse è un’offesa definitiva, tale da far chiudere il rapporto: significa voler far pubblicamente perdere la faccia.
Il problema del “salvare la faccia” è fortemente sentito in molte culture asiatiche, africane e latino-americane, dove viene definita con la parola honra.
3. La comunicazione non verbale
3.1 Uso del corpo per fini comunicativi
Tutto il corpo, che è fonte di molte “informazioni” involontarie quali il sudore, il tremito, l’arrossire, ecc., viene utilizzato anche per “comunicare”, cioè per veicolare significati volontari, o per sottolineare significati espressi con la lingua.
Vedremo quindi cosa “dicono” le varie parti del corpo, tralasciando interpretazioni psicologiche (ad esempio: braccia conserte = chiusura nei confronti dell’interlocutore) che pur essendo intuitivamente valide rientrano tuttavia nell’ambito delle interpretazioni.
a. Sorriso
Spesso chi ascolta sorride. In Europa questo esprime un generico accordo, o almeno attesta la comprensione di quanto si sta dicendo; in altre culture questa interpretazione non è altrettanto certa: ad esempio, per non offendere un ospite straniero con un diniego, un giapponese imbarazzato può limitarsi a sorridere e mantenere il silenzio, in quanto non vige la nostra equazione “silenzio = assenso” (“chi tace acconsente”). In una trattativa interpretare il dissenso come assenso è grave.
b. Occhi
In Occidente guardare l’interlocutore negli occhi è inteso come un segno di franchezza, ma in molte culture, ad esempio in Asia, il fissare una persona dritto negli occhi può essere una sfida (o un richiamo erotico). Mentre in Cina guardare negli occhi di chi parla è un segno di attenzione, in Giappone ci si guarda di quando in quando, ma mai durante un commiato: gli occhi vanno focalizzati a terra, in un punto a lato della persona che si sta salutando.
Gli occhi abbassati, quasi chiusi in una fessura, significano disattenzione e noi in Europa, ma in Giappone possono rappresentare una forma di rispetto, ad esempio verso un conferenziere: gli si comunica che l’attenzione è massima, che non si vuol correre il rischio di distrarsi - ma il conferenziere europeo che non conosca questa convenzione ha la certezza che i suoi ascoltatori si sono addormentati.
c. Espressioni del viso
Esprimere le proprie emozioni, sensazioni, giudizi, pensieri con la mimica facciale è una cosa “ovvia” nell’Europa mediterranea, in Russia e, in parte, in America, ma in Europa settentrionale ci si attende che queste espressioni siano abbastanza controllate, mentre in Oriente esse sono poco gradite, preferendo educare i bambini fin da piccoli ad una certa imperscrutabilità, cioè ad una riservatezza riguardo i propri sentimenti.
d. Braccia e mani
Spesso non si sa dove tenere braccia e mani: incrociarle davanti al petto dà un senso di chiusura, tenerle allacciate dietro il corpo può dare la sensazione di un’eccessiva informalità. Quindi di solito si tengono accanto al corpo o si pone una mano in tasca. Molte culture, ad esempio quella turca e quella cinese, non accettano entrambe le mani in tasca.
Al di là di queste considerazioni, ci sono vari problemi di significati che le nostre mani portano portano agli interlocutori:
· si ritiene, soprattutto in culture euro-americane, che una stretta di mano stritolante dimostri sincerità e “virilità”, ma questo non Ë vero per altre culture, dove l’eccesso di forza è solo fonte di fastidio; in Oriente la stretta di mano è inusuale, per cui non sempre sanno dosarne la forza
· i gesti della mano spesso sottolineano o sostituiscono le parole, ma essi hanno diversi significati: il segno di vittoria tipico di W. Churchill (la "v" con indice e medio) significa “vittoria” se il palmo è rivolto verso l’interlocutore, ma è un insulto (ha più forza di un chiaro “va a fartelo mettere...”) se il dorso della mano è rivolto all’interlocutore: corrisponde, ma con forza maggiore, al medio teso che esce dal pugno chiuso in America; ci sono due gesti che hanno causato due famose gaffe di Bush e Clinton: il primo ha effettuato il gesto americano con il pugno chiuso e il pollice eretto verso l'alto che significa "OK", ma il contesto era Manila, ed in estremo Oriente quel gesto corrisponde al medio che esce eretto dal pugno chiuso... Clinton ha usato un altro segno americano per dire “OK”, quello fatto con pollice e indice uniti a formare una "O", ma lo ha fatto alla Duma di Mosca, e nei paesi slavi quel gesto significa “Ti faccio un ... grande così”
· Gli italiani muovono molto le mani mentre parlano: ciò spesso li fa ritenere aggressivi, invadenti, e la cosa è grave se questa sensazione viene confermata dal tono di voce, dalle frequenti interruzioni, e così via, come vedremo in seguito. In tutto il mondo i comici che vogliono imitare gli italiani muovono istericamente braccia e mani e parlano a voce alta. Si tenga anche presente che il cinema italiano più noto nel mondo, da Salvatores a Amelio, da Sordi a Troisi passando per La Piovra (lo spettacolo più visto al mondo nella storia del cinema) è di ambiente meridionale, dove l’uso delle mani è particolarmente accentuato.
e. Gambe e piedi
In molte culture accavallare le gambe non ha alcun valore comunicativo, mentre in incrociarle, cioè appoggiare la caviglia al ginocchio lasciando quindi che si veda la suola delle scarpe, viene ritenuto unpolite e comunica scarso rispetto; gli arabi tuttavia vivono questi atteggiamenti in maniera molto risentita, perché ritengono che si comunichi disprezzo sia quando si mostra la suola della scarpa sia quando, avendo semplicemente accavallato le gambe, si fa oscillare, quasi nel gesto di dare calcetti che hanno un significato molto forte: “vattene da qui”.
Nelle culture scandinave e in quelle orientali spesso togliersi le scarpe è un gesto naturale, che indica relax.
f. Sudore (e profumo)
Il sudore è naturale e può informare sulla tensione emotiva di una persona (ponendo il problema di come detergerlo in pubblico); l’odore di sudore ha invece valore comunicativo: assolutamente bandito in culture come quella italiana (chi si accorge di odorare si sente a disagio, quindi le sue performance, anche linguistiche, sono intaccate), in altre culture è considerato normale; nel mondo arabo un maschio deodorato è meno “maschio”, e se è sensibilmente profumato è un pervertito. Il sudore ha un valore positivo, di sincera partecipazione, in Giappone (come nelle discoteche occidentali).
Quanto ai profumi, la definizione di "buono" e di "modica quantità" varia da cultura a cultura: in Giappone sono particolarmente intensi anche tra maschi, in Italia i profumi devono essere artificiali, non riscontrabili in natura.
g. Rumori corporei
In quasi tutte le culture ciò che esce dal corpo è considerato negativamente e quindi si pone il problema culturale di come liberarsene con discrezione.
Soffiarsi il naso (per quanto discretamente) è permesso nelle culture occidentali, mentre in Giappone è considerato irrispettoso e volgare. Lo stesso vale per il ruttare e dar sfogo a rumori intestinali, vietati nelle culture occidentali e meglio tollerati in Asia; in Giappone una specie di risucchio indica soddisfazione dopo un pasto.
Il ruttare dopo un pasto, sebbene stia lentamente declinando come uso, è ancora talvolta permesso (ma era richiesto, come indice di sazietà e piacere) dopo un pasto in Scandinavia, Russia, Sud-est asiatico.
Vomitare è escluso in molte culture, ma non in tutte; in quella Giapponese, in particolare, il vomitare per postumi di un’ubriacatura è una sorta di omaggio ai compagni con cui si è passato una bella serata, bevendo ritualmente senza curarsi egoisticamente del proprio malessere successivo.
Sputare e scatarrare è comunissimo in Oriente e, in parte, nelle culture arabe e nere africane, mentre è vietato in quelle occidentali.
f. Toccarsi piedi e genitali
Alcune culture orientali accettano, anche se si tratta di un costume in regresso, il fatto di accarezzarsi i piedi in una specie di massaggio rilassante, senza che questo abbia alcun significato irrispettoso
E’ invece “poco educato” in Italia ma decisamente offensivo in altre culture, ad esempio quella greca, il gesto abituale degli adolescenti di sistemarsi i genitali, schiacciati dai jeans: significa, soprattutto in momenti di tensione, di lite, “ti mostro che cosa sei: un c...”.
3.2 Distanza tra corpi
Tutti gli animali vivono in una sorta di bolla virtuale che rappresenta la loro intimità e che ha il raggio della distanza di sicurezza, cioè quella che consente di difendersi da un attacco o di iniziare una fuga. Negli uomini, essa è data dalla distanza del braccio teso (circa 60 cm.).
La “bolla” è un dato di natura, mentre da sua dimensione e il suo valore di intimità sono dati di cultura e quindi variano: l’infrazione alle regole “prossemiche”, cioè alla grammatica che regola la distanza interpersonale, può generare una crisi comunciativa, cioè far interpretare come aggressivi e invasivi, quindi necessari di una reazione, dei movimenti di avvicinamento che non hanno questo significato nella cultura di chi li ha compiuti.
Le culture nord-mediterranee ritengono che la sfera dell’intimità, la “bolla”, sia data dalla distanza di un braccio teso: che si avvicina di più invade il campo dell’altro, mettendolo a disagio e dandogli la sensazione di essere aggredito (se poi questa invasione si accoppia con un accentuato movimento delle mani ed un tono di voce alto, tipici del Mediterraneo, la sensazione di un nordico di essere aggredito si trasforma in certezza e genera una reazione). Ma nel Mediterraneo arabo spesso che parla tocca l’interlocutore sul petto o sul braccio.
Al capo opposto troviamo gli europei non mediterranei e gli americani che richiedono che ciascuna “bolla” sia rispettata, per cui i due interlocutori restano a distanza di un doppio braccio.
C’è una tendenza generalizzata nel mondo dei contatti internazionali all’aumento della distanza interpersonale, forse dovuta al fatto che la cinematografia è quasi interamente di origine anglosassone e funge da “persuasore occulto” nell’imporre nuove grammatiche di comunicazione interpersonale.
Quanto al contatto laterale vigono svariate regole: molti mediterranei si prendono a braccetto (addirittura per mano nei paesi arabi) anche tra maschi, cosa esclusa nel nord Italia e nel resto d’Europa. Anche nelle zone rurali dell’Oriente sopravvive l’abitudine di prendersi per mano tra persone dello stesso sesso - ma in Giappone il prendersi a braccetto ha una connotazione sessuale, così come il camminare molto vicini, a contatto di spalla, anche se la ragazza sta qualche centimetro avanti.
3.3 Uso di oggetti
Si è spesso osservato che, a differenza di quanto recita la saggezza popolare, nella comunicazione "l'abito fa il monaco”: gli oggetti che poniamo sul nostro corpo ed intorno ad esso nei luoghi di abitazione o di lavoro, la macchina che si usa, ecc., sono tutti status symbol, e in alcuni casi sono indicatori di rispetto per l’interlocutore. Poiché il rispetto mostrato per l’interlocutore è un dato essenziale ma variante in ogni cultura, può spesso succedere che la nostra indicazione di rispetto non venga compresa o venga mal interpretata.
a. Vestiario
La formalità dell’abbigliamento è essenziale per comunicare il rispetto che si porta ad una persona.
In Italia un vestito "formale" include camicia, cravatta, giacca; negli USA è sufficiente la cravatta, anche con una camicia a maniche corte e la giacca poggiata sullo schienale — atteggiamento che da noi sarebbe di amichevole informalità. In Oriente il concetto di formale in abito europeo è ancora impreciso.
Una giacca cammello o di tweed inglese è adeguata ad un incontro formale in uffici, università, ecc. in Europa e in Oriente ma non in America dove un impiegato o un funzionario non vengono accettati in ufficio se non hanno un abito grigio, blu o nero: cammello, tweed, toppe di pelle sui gomiti sono per il weekend. La sola strategia per non commettere errori è costituita dal parlarne chiaramente.
b. Status symbol
Gli status symbol variano da cultura a cultura, da classe a classe, e spesso non vengono compresi dagli interlocutori di altre culture, per cui non vengono posti in atto comportamenti attesi: ad esempio stemmini sul bavero (in Italia si usano al massimo quelli di Rotary e Lions), cravatte con il colore di Oxford o Harvard, e così via, sono strumenti di comunicazione sociale molto rilevanti in America e irrilevanti in Italia.
Tra gli status symbol hanno un ruolo particolare quelli che indicano la ricchezza: un Rolex d’oro al polso, pesanti catene su petti villosi o sui polsi, grevi anelli con pietra preziosa sulle dita robuste di un arabo o di uno slavo possono portare l’europeo “raffinato” a pensare di trovarsi di fronte ad un buzzurro, ad una esibizione di ricchezza rapidamente e spesso malamente acquisita, di un parvenu mentre in quelle culture l’esibizione di ricchezza è culturalmente approvata; anche la possibilità di accedere a servizi rari è uno status symbol: il telefono cellulare, che gli italiani spengono prima di una riunione e che non va esibito perché ormai di uso generalizzato, è segno di forte vicinanza al potere in Africa o nell’Europa slava, dove i ripetitori cellulari sono pochi e quindi i numeri disponibili sono limitati.
c. Oggetti che si offrono: sigarette, liquori, ecc.
Offrire è sempre un gesto di rispetto e accettare significa ricambio di rispetto; in culture in cui il rispetto interpersonale ha molto valore (Africa, Asia ma, in parte, anche America Latina) il rifiuto può essere uno sgarbo: rifiutare un tè alla menta in un bicchiere opacizzato dall’uso può essere un desiderio giustificato, ma è offensivo per l’arabo che lo ha offerto. In questi casi l’eventuale rifiuto va giustificato con ragioni di salute (un finto diabete è la soluzione in molti casi) o di ordine religioso.
Anche l'insistere nell’offrire o lo schernirsi nell’accettare sono regolati dalla cultura: ad esempio, nel sud d'Italia si insiste molto, secondo la tradizione greca, in un modo che un Inglese ritiene francamente eccessivo, invadente, imbarazzante.
Ci sono poi problemi legati a ciò che si può offrire: oggi, offrire una sigaretta in America può essere un insulto (e in Giappone non si offrono affatto), come offrire alcool a un arabo, o come insistere per far bere vino a un commensale inglese o americano che dopo la cena deve tornare a casa in macchina.
d. Regali
In Cina regalare un orologio, che richiama il passare del tempo, è un memento mori, quindi assolutamente inaccettabile, come i fiori (soprattutto bianchi) in Oriente, i crisantemi in Italia, i fiori gialli in Messico... : il comunicare rispetto e amicizia con i regali è spesso rischioso. In Giappone esiste una vera e propria cultura della confezione dei regali., che indica lo status della persona cui viene fatto, mentre in Germania regalare fiori con il cellophane intorno è offensivo...
I regali costituiscono un importante mezzo di comunicazione sia intimo (regalare fiori è dunque “rischioso”), sia sociale, in occasione di inviti a cene, ecc. La tendenza è sempre più quella ad aprire il regalo, soprattutto se si tratta di un pacchetto, per comunicare il fatto che è stato gradito;
e. Danaro
Il danaro ha un fortissimo valore di status symbol, come indicatore non solo di ricchezza, ma anche di successo sociale. Le culture differiscono molto sul modo di esibire il danaro: a fronte di culture europee, più o meno legate al concetto di understatement, per cui si dimostra la ricchezza con il possesso di oggetti lussuosi (abbigliamento, automobili, ecc.) ma non parlando apertamente di danaro, troviamo la cultura americana, quelle Orientali e quelle di molti paesi emergenti in cui l’esibizione del danaro è accettata e ricercata.
Se in Italia parliamo ancora di “vil danaro” e la parola “lucrare” è ignobile, mentre “senza fine di lucro” è puro, le culture puritane ricordano che l’amor di Dio per la persona giusta si vede anche sotto forma di gratificazione materiale: per cui anche i cattolici americani, intrisi di puritanesimo, possono esibirsi nello spillare alle vesti della Madonna mazzette di dollari durante le processioni, ed è possibile che una persona venga presentata anche con riferimento al suo reddito annuo: he makes half a million a year! Parlare del proprio stipendio è assolutamente fuori luogo in Italia, tranne tra colleghi e per solidarietà sindacale, mentre è naturale in culture in cui il danaro va mostrato. Quindi non deve stupire se, di fronte a un italiano che si scusa se la commessa della libreria non ha tagliato il prezzo dalla sovraccoperta di un libro da regalare, troviamo l’americano che dice il costo del regalo, per comunicare l’estremo valore in cui tiene la persona cui è stato fatto.
4. Aspetti verbali
La lingua è prima di tutto espressione sonora, ma è anche costituita dalla scelta delle parole, dal modo in cui usiamo alcuni aspetti della grammatica e, soprattutto, da quello in cui strutturiamo i nostri “testi”.
4.1 Uso della voce
La nostra voce può dare l’impressione che siamo rinunciatari o aggressivi, indipendentemente da quello che effettivamente vorremmo essere; il nostro silenzio è del tutto neutro in Scandinavia, assolutamente imbarazzante in Italia...
L’aspetto sonoro della voce è un po’ come quello visivo: è il primo ad essere percepito e, proprio perché viene analizzato in maniera inconsapevole, anche in questo caso si può dire che “l’abito fonologico fa il monaco”: l’inglese che sente due italiani che discutono serenamente ritiene che stiano litigando, mentre magari stanno semplicemente constatando di essere d’accordo, ma lo fanno con un tono di voce e un reciproco interrompersi che in Inghilterra verrebbe usato solo in un litigio.
Se consideriamo che gli italiani agitano le mani, hanno una grande mimica facciale, invadono la “bolla” dell’interlocutore, vediamo come l’alto tono di voce e l’interrompersi aggiungono una conferma di “aggressività”.
C’è poi il problema della sovrapposizione di voci. Le culture mediterranee l’accettano, quasi tutte le altre la vietano, sia sotto forma di interruzione, sia come parlare contemporaneo. Pare che questa sia invece una caratteristica propria degli italiani, tant’è vero che nella metafora scelta da Gannon per descrivere l’Italia, (un paese che è paragonato a un’opera lirica) il parlare insieme viene equalizzato al duetto o al quartetto tipico del melodramma.
4.2. Alcune scelte lessicali
Abbiamo già trattato il tema dei taboo nel paragrafo sui parametri di giudizio della comunicazione interculturale, mentre abbiamo solo accennato al problema della “correttezza politica”, che qui riprendiamo, isieme agli insidcatori di status, cioè gli appellativi quali “signore/a/ina” o i titoli quali “dott.”, “ing.”, ecc. Il loro uso cambia significativamente da cultura a cultura.
Iniziamo dall’abitudine comune in Italia, a scuola come tra colleghi, di chiamare una persona per cognome: si tratta di una scelta abbastanza inusuale in Europa, e del tutto fuori luogo nel mondo anglofono: “Brown, come here” è usato solo dal sergente cattivo nel campo di addestramento dei marines...
Il cognome, in inglese, va sempre preceduto da un appellativo, che può essere Dr in ambito accademico (solo per coloro che hanno ottenuto un PhD), ma di norma è Mr per un uomo e, oggi, Ms (pronunciato come se fosse scritto Miz) per una donna. La classica distinzione tra Mrs e Miss è contestata nel nome della parità tra uomo e donna, in quanto solo di una donna si viene a sapere se è sposata o non.
I titoli che corrispondono ad un professione (“Ingegnere”, “Architetto”) non sono accettati: le uniche professioni che hanno un titolo sono quella medica (Dr) e la docenza universitaria (Prof). Le culture spagnola, italiana e tedesca accentuano i titoli e gli appellativi, mentre quelle scandinave e anglosassoni li sfumano; la Francia sta evolvendo in direzione anglosassone.
Quanto al formale/informale, notiamo che ad esempio in Svezia durante gli anni Settanta c’è stato un abbandono generalizzato del “lei” a favore di “tu”, mentre in Francia vous resta molto usato; Italia il passaggio dal “lei” al “tu” tra colleghi è rapido, così come in inglese, dove darsi del tu significa usare il nome di battesimo anziché Mr/Ms + cognome, che indica un registro formale.
Anche nell’appiattimento della seconda persona, cioè nella generalizzazione dell’informalità, la necessità di indicare il registro formale rimane viva. In inglese come in italiano l’uso dei condizionale nelle offerte (“would you like...”, “vorresti / le piacerebbe”) oppure la richiesta di autorizzazione e di pareri (“Secondo te, posso...”; “Che ne diresti se...”) comunicano un senso di rispetto e di formalità. Questo viene sottolineato anche dall’eliminazione di interiezioni e parole di natura volgare (quali “fucking”, “incazzato”, ecc.) e dall’uso intensivo di espressioni che attutiscono la forza delle nostre richieste, quali “per piacere”, “grazie”. E così via.
Culture che si esprimono in inglese, che devono quindi marcare con forme linguistiche la mancanza dell’alternanza tra “tu/lei”, “du/Sie”, “tu/vous”, “tu/Ud.”, “tu/vocé”, ecc., tendono a usare moltissimo please e thank you, anche laddove un italiano non li userebbe; il loro mancato uso fa ritenere a un anglofono che noi siamo poco polite, il che risulta grave se si aggiunge al tono di voce, alla mobilità delle mani e alla vicinanza eccessiva che ci fanno ritenere aggressivi.
4.3 Struttura del testo
Chiamiamo “testo” la componente verbale, linguistica, di un evento comunicativo, che ha anche molte componenti non verbali, cui si è fatto cenno sopra.
Essenzialmente esistono tre modi di costruire un testo:
· il testo italiano, spagnolo, tedesco procede dal punto A al punto B non come una retta ma come una linea continuamente interrotta da digressioni, da ulteriori digressioni nella digressione, e così via: una linea spezzata che rende conto della complessità dell’argomentare che si vuole fare: l’informazione principale e tutte quelle accessorie (le digressioni) vengono incastonate l’una nell’altra, per cui ne risulta un testo, scritto o orale, complesso, articolato, con un forte uso di pronomi relativi e altri meccanismi di coesione tra le varie parti del testo; la struttura del verbo in queste lingue, con le sue sei persone, i molti modi e tempi, consente di raccordare le varie parti della macro-frase che si produce;
· il testo inglese va invece straight to the point, e tutte le informazioni accessorie, che nel testo italiano erano collocate in frasi secondarie, in digressioni, qui vengono poste di seguito. Il testo si traduce quindi in una serie di frasi brevi e semplici, con forte uso delle ripetizioni (osteggiate in italiano). Il sistema verbale inglese, che è assolutamente scarno, funziona bene in questo tipo di strutture, ma non regge nel momento in cui si pensa in italiano e si vuole parlare in inglese: le digressioni, le frasi secondarie e terziarie, richiedono una logica verbale che l’inglese non possiede. Questo vale anche per la traduzione di un testo scritto italiano, che va spezzato nelle sue componenti e riscritto con frasi semplici e lineari;
· il testo asiatico e arabo procede invece a spirale, per progressivi avvicinamenti al punto d’arrivo, senza forzature (che vengono viste come unpolite), senza andare subito al punto (altra forma di unpoliteness).
La percezione del testo prodotto secondo le regole di un’altra cultura è assai pericolosa: un americano ritiene inconsapevolmente che il testo di un italiano o di un tedesco sia fumoso, che si voglia coprire a suon di digressioni qualche cosa di non chiaro; viceversa, l’europeo ritiene che il testo americano sia povero concettualmente, banale, semplicistico. Entrambi, europei e americani, ritengono che il testo orientale sia una perdita di tempo, un’ectoplasmatica nebbia che non si sa cosa celi e dove porti. E si tratta di percezioni che mettono a rischio la buona riuscita della comunicazione.
5. Le mosse comunicative
Nei paragrafi precedenti abbiamo visto gli strumenti a disposizione di chi gioca la “partita” comunicativa per scambiare messaggi che lo vedano vincente.
Avere la scacchiera e i pezzi non basta per vincere, cioè per dare un esito felice alla propria comunicazione: bisogna conoscere le mosse e le regole che le governano. Schmidt ne elenca una ventina, che qui di seguito si vedranno in prospettiva interculturale, cioè cercando di vedere se essere sono egualmente accette o non-accette e se producono gli stessi effetti nelle varie culture. Useremo la terminologia introdotta nella definizione di comunicazione per cui avremo “mosse up” e “mosse down”, a seconda che esse tendano a favorire chi le compie nel tentativo di prendere controllo dell’evento comunicativo oppure che mirino piuttosto a permettere di evitare una escalation, cioè un diverbio, lasciando raffreddare gli animi, prendendo tempo, ammettendo l’errore, e così via.
a) Attaccare è la mossa up per eccellenza; in Italia (ma anche in Russia, dove l’espressione diretta delle opinioni è gradita) un attacco condotto con garbo è di solito accettato, e tra amici è ammesso anche un attacco diretto, mentre in molte culture questa mossa è inaccettabile; in alcuni casi (ad esempio in molte culture asiatiche) basta lo sguardo puntato dritto negli occhi per trasformare una mossa neutra in un “attacco”.
b) Costruire, cioè l’accettazione della proposta dell’interlocutore ma integrandola nella propria: è una mossa che porta in posizione up (è la proposta originaria che funge da cornice, da quadro di riferimento) in maniera indiretta. Essa è accettata in tutte le culture ed è indispensabile soprattutto in quei casi in cui l’attacco (mossa “a”) è culturalmente vietata.
c) Dissentire è per certi versi una variante dell’attacco (mossa “a”), per cui diventa accettabile ovunque solo se usata come introduzione a un tentativo di costruire insieme (mossa “b”). I modi di dissentire variano da cultura a cultura: gli italiani tendono ad accentuare immediatamente il 10 per cento di disaccordo e tacere sul restante, su cui c’è accordo (“chi tace acconsente”), mentre a livello internazionale è indispensabile la procedura opposta, “sì... ma...”: prima si esprimono esplicitamente le ragioni di concordanza e poi quelle di disaccordo.
Ricordiamo anche che molte culture non accettano la possibilità di dire “no” ad un ospite straniero ritenuto importante, per cui il dissenso viene manifestato in maniera indiretta (il sorriso accompagnato dal silenzio in Giappone, ad esempio), o non può essere espresso (l’obbligo di rispondere “sì” ad una domanda “sì-no” nelle culture swahili). Totalmente differente la situazione russa, in cui un dissenso aperto è gradito ed è segno di serietà, di volontà di costruire insieme.
Chi dissente presuppone per sé una posizione di pari dignità rispetto a quella dell’interlocutore (e quindi, se parte da posizione down, si configura una sorta di inizio delle ostilità) e gioca tutto sul contenuto della sua critica: se questa è valida ed il dissenso è esposto con tatto, è una mossa efficace.
d) Esporsi, parlare di sé, delle proprie opinioni, ritenendole importanti per gli altri: se essi le accettano confermano la posizione up di chi si espone. In molti casi il rischio è che questa mossa venga percepita come esibizione, vanteria, sicumera, soprattutto se non è realizzata con forme linguistiche polite (condizionale, “forse”, “si potrebbe” “mi pare che” ecc.). Un informant inglese di questa nostra ricerca ci ha detto esplicitamente che ci si può esporre “superficialmente e mai nell’ambiente di lavoro. La sincerità non è necessariamente d’obbligo”.
e) Ordinare è una mossa rischiosa perché è collegata ad un valore essenziale, quello di gerarchia e mette in campo due variabili molto forti, quella della formalità/informalità e quella della esplicitezza/implicitezza della “forza” pragmatica della mossa.
Ogni cultura ha dei metodi propri per mascherare tale forza, ed un errore in questo senso può essere grave. Nella cultura italiana (ma anche in molte culture orientali), l’ordine è accettato senza discussione se viene da un superiore. In altre culture esprimere un ordine come suggerimento o proposta è invece d’obbligo. Spesso sono quindi gli italiani a non capire che I think you should... è in realtà un ordine e non un consiglio...
f) Proporre sostituisce l’ordinare in molte culture (vedi sopra); se la proposta segue quella dell’interlocutore ed è differente, o addirittura contraria, è una variante dell’attaccare e può condurre all’escalation. Nelle culture in cui l’attacco esplicito è vietato, esso assume spesso la forma di una controproposta.
j) Cambiare argomento: può essere un escamotage per togliersi da una situazione imbarazzante (ed è quindi una mossa down) o per togliere l’interlocutore dai problemi (ed è una mossa up), ma può essere anche aggressiva: la frase italiana “il problema in realtà è un altro” viene poco gradita nelle culture straniere. I russi, amanti della discussione diretta, vedono abbastanza male questa mossa.
k) Ironizzare è una mossa rischiosissima perché ogni cultura ha una sua nozione di ironia; le culture orientali e quelle arabe rifiutano questa mossa, che in Italia può essere up, se conferma la posizione di superiorità di un interlocutore che può permettersi di essere ironico, o può essere down se serve per togliersi da una situazione difficile con una battuta. Gli americani ritengono l’ironia troppo “inglese” e non l’apprezzano, soprattutto in situazioni di lavoro; anche i tedeschi sono restii ad accettare la “presa in giro” all’italiana e sono poco ironici, soprattutto riguardo alla politica e la vita pubblica, ritenendo che il concetto di Stato non sia oggetto di ironia.
l) Interrompere: mossa frequente in Italia, dove è spesso una forma di collaborazione con chi sta parlando, ma assolutamente inaccettabile in quasi tutte le altre culture, che la vivono come un attacco personale sgarbato.
m) Tacere di fronte a una domanda può essere up oppure down a seconda che venga compiuta da chi domina o da chi subisce l’andamento dello scambio comunicativo; in molte culture è ritenuta una mancanza di civiltà e significa una resa senza condizioni.
n) Scusarsi è una mossa inutile per chi è up mentre è tipica di chi è in posizione di inferiorità, anche se spesso serve a parificare la relazione perché costringe l’interlocutore a smettere di esercitare ironia, di recriminare, di mostrarsi superiore: le scuse indicano un “punto a capo” dopo un errore, che viene in qualche modo dimenticato.
Come si vede, quindi, sono le mosse di attacco che rischiano di provocare incomprensione culturale e che risultano delicate; ci sono poi mosse neutre in italiano che possono essere viste come aggressive da stranieri, soprattutto se compiute con il nostro tono di voce (considerato sempre “litigioso” dagli stranieri), con il nostro accentuato gesticolare e la notevole vicinanza tra gli interlocutori, che possono farci ritenere invadenti. Non sono tanto le mosse in sé, quindi, a risultare fonte di errore, quanto il loro accoppiarsi a peculiarità linguistiche e gestuali degli italiani.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
I dati presentati in questo provengono dal nostro volume
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