Settembre 2014 | Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792 Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni |
Abstract
Giovanna Sciuti Russi è docente a contratto di Didattica dell’italiano a stranieri presso la Struttura Didattica Speciale di Lingue e Letterature Straniere di Ragusa. Laureata in Lettere moderne presso l’Università di Catania, si è specializzata nell’insegnamento dell’italiano come lingua seconda alla Ca' Foscari di Venezia. Il suo ambito di ricerca verte sui temi dell’accoglienza e dell’intercultura e sull’insegnamento/apprendimento della L2 in contesto migratorio.
Attualmente collabora con la prof.ssa Benucci dell’Università per Stranieri di Siena nell’ambito del progetto di ricerca DEPORT, Oltre i confini del carcere: portfolio linguistico-professionale per detenuti, e con l’Università Ca' Foscari di Venezia per il Master Itals di 2° Livello.
Attraverso questa intervista la studiosa tratteggia la complessa situazione dell’insegnamento dell’italiano in carcere. Si tratta di un tema trattato per la prima volta nella nostra rivista, che non interessa solo gli insegnanti che operano in Italia (siamo al corrente di iniziative di didattica dell’italiano in ambito carcerario avvenute in alcuni paesi latini).
Tra i saggi della studiosa che affrontano il tema dell’intervista, segnaliamo:
Sciuti Russi G., 2012, “L2 e carcere. L’acquisizione linguistica tra relazionalità e diffidenza”, Eco de Linguagem, 1, 1, 67-88.
Carmignani S., Sciuti Russi G., 2014, “Sillabo per personale non qualificato nell’industria”, in Benucci A. (a cura di), Italiano L2 e interazioni professionali: sillabi settoriali, UTET, Torino, 197-222.
Sciuti Russi G., “Educazione ed integrazione sociale in ambito penitenziario. L’insegnamento dell’Italiano L2 presso la Casa Circondariale di Ragusa” in Sturiale M., Traina G. (a cura di), Parole e sconfinamenti. Studi offerti a Nunzio Zago per i suoi sessantacinque anni dai colleghi della Struttura Didattica Speciale di Lingue e Letterature straniere di Ragusa, Leonforte, Euno Edizioni (settembre 2014).
Sciuti Russi G., “Spazi identitari e spazi emozionali: L2 e pratiche didattiche in ambiente carcerario” in Est-Ovest/ Nord-Sud. Frontiere, passaggi, incontri culturali, Atti del XXI Congresso AIPI, 27-29 Agosto 2014, Università di Bari, Firenze, Cesati (di prossima pubblicazione).
L’INTERVISTA
Gentilissima Dott. Sciuti Russi, ci può dire da cosa è nato il suo impegno di insegnante di italiano in carcere?
Il mio insegnamento in carcere è nato in maniera puramente casuale, mi sono ritrovata a lavorare per un ente di formazione e a svolgere due moduli, Lingua inglese livello A1 e Informatica di base, presso la Casa di Reclusione di Augusta. Da lì è cominciata la mia attività a livello individuale in Istituto, ho avviato una stretta collaborazione con la Direzione e con l’intero staff, proponendo progetti inerenti l’intercultura e l’italiano L2, percorsi didattici diversi rispetto all’offerta formativa delle attività scolastiche e trattamentali allora presenti.
Lei aveva già un’esperienza di didattica dell’italiano prima di insegnare in carcere, giusto?
Avevo una forte esperienza ma con un target diverso. Fino ad allora avevo insegnato in una scuola di lingua e cultura italiana privata, quindi con stranieri altamente scolarizzati, che venivano in Italia in vacanza-studio. Avevo lavorato – anzi stavo lavorando ancora, perché facevo il tutto in contemporanea – con studenti Erasmus all’Università di Catania, presso la Scuola di Lingua italiana per stranieri della Facoltà di Lingue.
In principio ho trovato piuttosto difficile lavorare ed insegnare in Istituto, perché, pur essendo formata a livello glottodidattico, non avevo una competenza specifica di L2 in ambito penitenziario e non conoscevo le dinamiche interne carcerarie; non mi ero mai orientata o preparata in tal senso, né esisteva (allora, nel 2006), una letteratura di riferimento.
Tutta l’impostazione, gli approcci, i metodi che utilizzavo all’Università o presso i centri privati e successivamente presso i CTP [Centri Territoriali Permanenti], non erano più adeguati.
Quindi Lei si è costruita una competenza sul campo?
Sì, diciamo che ho fatto il percorso inverso. Ho sperimentato in prima persona, cercando quale fosse la strada più adatta, la modalità didattica più appropriata, sperimentavo di continuo, senza però trovare, inizialmente, una soluzione adeguata.
Erano gli anni del sovraffollamento, si lavorava in emergenza. Le selezioni degli studenti venivano fatte spesso dalla Polizia penitenziaria, senza il contributo degli educatori (nei primi anni vi era un’estrema mancanza di organico), senza criteri didattici o motivazionali ma solo disciplinari; per cui in aula mi ritrovavo con livelli diversi di competenza e soprattutto con profili psicologici difficili da contenere e gestire. Di conseguenza i modelli operativi standard risultavano poco efficaci, perché troppo rigidi e impostati per un pubblico abituato a studiare, a stare in classe; modelli che prevedevano, in sostanza, un uso di tecniche e unità che comportano un’attività cognitiva molto intensa e un approccio didattico più statico.
Quali sono allora le specificità dell’insegnamento dell’italiano in carcere? Che cosa può dire a un insegnante che insegna per la prima volta in carcere?
A un neodocente direi sicuramente che il bagaglio glottodidattico è fondamentale, perché permette di gestire aspetti di carattere metodologico, procedurale o disciplinare molto importanti, da cui non si può prescindere. È un buon punto di partenza, che consente di sperimentare e soprattutto di andare oltre.
Quello che spesso viene sottovalutato in ambito carcerario, secondo me, è l’aspetto psicologico e quindi le competenze psicologiche o psicosociali che il docente dovrebbe avere per poter operare all’interno. Entriamo nella sfera della gestione creativa dei conflitti e delle emozioni, sia personali, del docente, che del gruppo-classe. Questa è una caratteristica specifica del carcere ed è un motivo che avvicina molto a mio avviso il profilo (formativo e professionale) del docente, in generale e L2 nello specifico, a quello dell’educatore, figura determinante perché responsabile del percorso trattamentale del detenuto.
Secondariamente, direi, che la motivazione è uno degli aspetti chiave dello studente detenuto, così come lo è, in realtà, per l’esterno. All’interno del carcere la motivazione all’apprendimento della lingua italiana generalmente manca o è debole. Il docente fatica molto a tener alta l’attenzione, a tenere gli studenti in aula, rischia spessissimo l’abbandono del corso. Gli approcci tradizionali, che ancora oggi sono molto usati da parte dei docente di scuola o l’assetto classico spaziale dei banchi tendono naturalmente, mi sono resa conto, a coinvolgere poco.
Aggiungiamo anche che, come dice Antonella Benucci[i], spesso il detenuto dà una connotazione negativa alla lingua e innesca un filtro affettivo molto alto, soprattutto appena arrivato, quale nuovo “giunto”. A livello psicologico, pertanto, c’è un rifiuto iniziale o una certa resistenza all’apprendimento e alle attività formative in generale. In carcere, dopo tutto, si può sopravvivere senza parlare bene la lingua; c’è sempre qualcuno della tua nazionalità che la sa parlare, il connazionale che interpreta il ruolo di mediatore, che ti aiuta a scrivere o a comunicare con gli operatori. Si parla a gesti, magari male, creando anche incomprensioni interculturali, ma si comunica in tutti i modi. Quindi, stimolare una motivazione che non sia solo strumentale – qual è quella più presente all’interno del carcere – ma che sia più interiore e intrinseca, cioè legata alla persona e al bisogno di esprimere la sua identità, della quale è privato, secondo me è sostanziale.
Ecco, io direi questo a un neodocente che si avvicina a questo profilo.
Lei ha fatto riferimento alla Professoressa Benucci. So che Lei fa parte di un gruppo coordinato dalla professoressa. Ci può informare sulle ricerche in atto?
Attualmente stiamo lavorando al progetto DEPORT. Oltre i confini del carcere, progetto della Regione Toscana[ii], di cui la professoressa, docente dell’Università per Stranieri di Siena, è responsabile scientifico.
DEPORT è un progetto di lingua molto significativo e ambizioso, basato sulla comunicazione interculturale, che ha come obiettivo, da una parte, la sensibilizzazione alla comunicazione interculturale (quindi alla differenza e al decentramento), degli operatori che gravitano attorno all’ambito penitenziario (intendo Polizia penitenziaria, funzionari pedagogico-giuridici, cioè gli educatori, funzionari UEPE) e dei docenti che operano in sede carceraria, dall’altra la formazione dei detenuti stranieri (di competenza B1/B2 con abilità parziali) e la costruzione di un portfolio linguistico-professionale tramite corsi di lingua italiana settoriale, ovvero corsi di microlingua legata al lavoro (l’obiettivo ultimo, qualora non vengano espulsi, è un più facile inserimento sociolavorativo dei detenuti stranieri).
Per motivi di ricerca si è deciso di estendere l’attività di rilevazione e le azioni didattiche a livello nazionale: oltre al Provveditorato Regionale della Toscana, sono stati coinvolti i P.R.A.P. della Campania, del Veneto, della Sardegna e della Sicilia e sono stati avviati diversi corsi di lingua a seconda delle attività lavorative intra/extramurarie presenti negli istituti o in base alle singole richieste ed esigenze rilevate. Le attività di “disseminazione” on line (attraverso la piattaforma di Adobe Connect), quali percorsi di sensibilizzazione alla comunicazione interculturale rivolti a docenti di L2 e operatori penitenziari, e la Giornata di Studi conclusiva, “Oltre Confini del carcere”, sono state una interessante occasione di incontro e confronto tra le Istituzioni, tra cui in primis l’ISSP [Istituto Superiore di Studi Penitenziari], che ha condiviso gli obiettivi e le finalità dell’iniziativa, e il mondo della ricerca.
Prevedete quindi anche di elaborare dei materiali?
Sì, stiamo finendo di approntarli e contiamo di pubblicarli a breve. Li abbiamo sperimentati nelle varie regioni. Sono materiali organizzati secondo l’idea del modulo; un unico modulo costituito da tre macrounità didattiche, centrate su diversi profili professionali: operaio agricolo, operaio edile, aiuto-cuoco, manutentore del verde pubblico, operatore dell’industria alimentare.
Questi materiali seguono l’idea di modulo utilizzata per il manuale L’ora di italiano[iii] e riprendono l’impostazione del sillabo proposto in Italiano liberamente[iv] e dei sillabi settoriali professionali[v].
Tornando alla sua esperienza di insegnante, può condividere qualche buona pratica con i lettori?
Nell’arco di questi otto anni sono passata dal corso tradizionale di L2 al corso di intercultura, all’attività di cinema e didattizzazione di film centrati sulla tematica dell’Altro, alla realizzazione di un video partecipativo, girato e organizzato interamente dagli studenti, a corsi di scrittura creativa (la scrittura è una della abilità che si tende a privilegiare in carcere, dato che è il modo, per eccellenza, in cui il detenuto riesce ad esprimersi).
Un’attività riuscita particolarmente bene, che ha avuto successo e riscontro ed è stata molto formativa per tutti, è stato l’incontro “dentro-fuori“ tra gli studenti della Casa di Reclusione di Augusta e gli studenti universitari della Struttura Didattica Speciale di Lingue di Ragusa. Insieme abbiamo girato un video e partecipato al concorso del MedFilmFestival 2013.
Volevamo raccontare cosa succede dentro, valutare se è possibile fare cittadinanza attiva in carcere e mostrare come attraverso una metodologia integrata (il movimento, tecniche di manipolazione, metodo autobiografico) si possa fare lingua. Avevamo, in sostanza, un progetto insieme. Purtroppo penso che l’idea del progetto sia sottovalutata in ambito glottodidattico in carcere.
La didattica per progetti, secondo me, in Italia non è che abbia mai attecchito più di tanto.
A scuola, forse, all’inizio, c’è stato un momento, però a livello extracurricolare, come se fosse un di più…
… perché sembra si inserisca con difficoltà all’interno della scansione dei contenuti del curricolo; sembra l’insegnante ci debba lavorare molto, che gli studenti si disperdano, che facciano altre cose…
Sì. Invece in carcere, se ci guardiamo intorno e consideriamo quali sono le buone pratiche o le attività trattamentali che funzionano di più, vediamo che sono proprio quelle espressive e quelle che hanno un obiettivo finale (che può essere il lavoro, uno spettacolo, un concerto – mi riferisco al canto, al teatro – o un prodotto – per esempio un quadro, un libro per la scrittura creativa, la pubblicazione di racconti, di favole).
In questo caso, il detenuto recupera talmente la sua identità che si autorigenera, la motivazione diventa intrinseca, perché si vede riconosciuta la capacità di rimettersi in gioco, nonostante il contesto di privazione (sociale, di diritti, di libertà).
Il corso più tradizionale non riesce in questo, malgrado i giochi o le attività integrative.
In quest’ottica è come se la lingua diventasse uno strumento di riconoscimento personale?
Lei ha centrato perfettamente l’obiettivo. È quello che abbiamo cercato di esprimere e comunicare a livello glottodidattico e metodologico attraverso il cortometraggio del MedFilmFestival.
Ci sono per caso possibili situazioni di conflitto tra l’insegnante e l’istituzione carceraria?
L’istituzione penitenziaria da poco riconosce in maniera positiva il ruolo della scuola e della formazione.
Il riconoscimento della figura del docente non è sempre stato facile, poiché elemento esterno con un ruolo che assume un significato diverso da quello degli altri operatori.
C’è anche da dire che tutto cambia in base agli istituti. La mia esperienza è stata da sempre positiva perché ho avuto la fortuna di incontrare una Direzione illuminata. Una sorta di Centro di Eccellenza, per intenderci, dove viene dato molto spazio alla socialità e ai percorsi rieducativi, che, nel rispetto delle regole e della normativa vigente - valutata la fattibilità delle azioni -, possiede e dimostra una notevole flessibilità a livello amministrativo e procedurale, consentendo al docente di muoversi e di avviare iniziative progettuali più innovative e sperimentali.
Tuttavia non è sempre così. Grazie a DEPORT e alla rete di contatti avviati, mi sono resa conto che nelle altre regioni ci sono realtà e strutture molto restrittive, che limitano fortemente le iniziative personali.
Ci può essere diffidenza da parte degli utenti? Sto pensando al fatto che alla fin fine il docente arriva, insegna, e poi torna a casa…
Le riporto un aneddoto (tra l’altro, a volte ero io la studentessa, i detenuti mi hanno insegnato tantissimo, specialmente all’inizio e sul piano amministrativo e diciamo “comportamentale”, proprio perché non avevo esperienza). Un adulto albanese una volta mi disse: “Giovanna, al detenuto tu devi rispondere o sì o no”. Il detenuto, voglio dire, è una persona molto pragmatica, tocca le cose con mano e sa quello che si può fare e quello che non si può fare; dal docente si aspetta lo stesso rapporto. Ha un atteggiamento di diffidenza iniziale molto più alto di quello dello studente dei corsi tradizionali. All’inizio cioè ti osservano molto, “ti studiano” per capire chi sei; dopodiché sta al docente creare quel rapporto di fiducia, empatia ed ascolto su cui, secondo me, si basa tutta la didattica in ambito carcerario, ed è un rapporto molto più forte di quello che c’è all’esterno, a scuola, in un CTP.
Certo loro sono coscienti che noi svolgiamo innanzitutto un’attività lavorativa, che dopo rientriamo a casa e che torniamo dalle nostre famiglie. Ma non ho mai avvertito per questo da parte loro un sentimento di rancore oppure di ostilità; anzi ho vissuto l’esatto contrario: ho sempre notato che tendono a conoscere (e voler condividere) la tua vita, nella semplicità delle dinamiche di un rapporto umano. E credo sia giusto così perché naturale e spontaneo. Perciò rispetto al corso, se si trovano bene e sono interessati, ti aspettano, sanno che hanno quel tempo con te e cercano di utilizzarlo al meglio.
Quindi, in sostanza, il patto formativo iniziale è molto importante; è bene che le regole si condividano e si stabiliscano insieme, che la metodologia adottata (oggi sono più orientata sul costruttivismo e sulla sviluppo dello spazio emotivo) e le attività programmate siano comprensibili e manifeste da subito e che tutti gli obiettivi (linguistici, formativi e soprattutto psicosociali) siano esplicitati in maniera chiara e diretta.
C’è per caso una rete di insegnanti di italiano che operano in carcere?
Che io sappia al momento non c’è, perché non c’è un ambito di formazione istituzionale in questo campo. Sarebbe molto interessante crearne una.
Quali sono i bisogni comunicativi dello studente detenuto?
In merito a questo la professoressa Benucci, come già anticipato, ha risposto chiaramente proponendo un sillabo per i livelli A1/A2 e individuando quattro macroaree, secondo me molto pertinenti: l’io, gli altri, il dentro e il fuori.
I bisogni comunicativi, soprattutto ai livelli iniziali, sono questi.
Siamo su un piano funzionale, gli studenti lavorano meno sulla metalingua e molto di più sulle funzioni e sull’aspetto pragmatico.
Il focus è sulla persona, sul sapersi presentare, descrivere, ai fini anche burocratici, di compilazione di semplici moduli, della domandina fatidica, ecc.
L’ambito della socializzazione, quindi il rapporto con gli altri, è un altro aspetto importante su cui il docente, secondo me, si deve focalizzare. Quindi innanzitutto funzione personale e interpersonale.
Occorre ad ogni modo considerare il fatto che definire i bisogni comunicativi si lega al livello di competenza e alla condizione in cui si trova il detenuto. Una distinzione fondamentale da fare, al riguardo, è quella tra casa di reclusione e casa circondariale.
In una casa di reclusione, dove il detenuto ha ottenuto una sentenza definitiva, il docente riesce a lavorare in maniera sistematica e più efficace perché c’è una maggiore stabilità di carattere emotivo, psicologico e anche linguistico; il detenuto sa che dovrà scontare lì per un po’ di tempo la sua pena. Nella casa circondariale, dove è ancora in attesa di giudizio, c’è invece un turnover altissimo. Gli studenti cambiano anche nel giro di poche settimane ed è molto difficile, naturalmente, per i docenti programmare un curricolo. Ciò significa che nella casa di reclusione è più probabile trovare livelli di competenza più alti, perché c’è stato un primo passaggio nella circondariale, c’è già stata una prima esposizione alla lingua (in un altro istituto o fuori, all’esterno), intendo c’è già stato un input spontaneo. Lo stesso discorso vale se sono analfabeti: in questo caso le abilità sono di solito parziali, il livello di produzione e comprensione orale chiaramente maggiore rispetto allo scritto. A livello cognitivo e metodologico tutto dovrebbe essere modulato di conseguenza.
Nel contesto carcerario, in particolare nella casa di reclusione, si lavora spesso in termini di multiclasse?
La scuola primaria e secondaria di primo e secondo grado (quando c’è il secondo grado; perché non c’è sempre) ha classi plurilingue e multilivello. Si lavora in maniera differenziata a seconda delle competenze.
Per i corsi extracurricolari, o i corsi aggiuntivi di lingua, intercultura, finanziati da progetti europei o regionali o organizzati dalla direzione, se c’è una sinergia di forze tra il docente, il responsabile del progetto, la direzione, il capoarea trattamentale, si può fare una selezione. Tutto è relativo e dipende dal grado di libertà che il docente ha.
Ci sono per caso attività che coinvolgono detenuti stranieri e detenuti italiani insieme, all’interno di un laboratorio di lingua extracurricolare? M’immagino una situazione dove gli italiani possono assumere il ruolo di tutor.
Noi in parte l’abbiamo fatto ma non in maniera strutturale, diventava quasi un po’ spontaneo che l’italofono aiutasse il compagno straniero. Non so se è stato fatto o se lo fanno altrove. Certamente una situazione di compresenza si verifica in progetti più ampi, di scrittura, di teatro, di ceramica, ecc.
Con la situazione della crisi, ci sono pochi fondi disponibili, immagino: i corsi extracurricolari si sono notevolmente ridotti?
La situazione adesso è molto difficile: i fondi sono pochi, la sede carceraria dei CTP non è abbastanza attenzionata dagli istituti scolastici di riferimento, cioè non è un settore in cui si investe, neanche a livello ministeriale (questo vale in generale per i CTP, men che mai in carcere). In Sicilia gli istituti comprensivi si avvalgono dei fondi regionali ed europei (mi riferisco ai progetti P.O.R. e P.O.N.). Quindi, diciamo, è la buona volontà dell’istituto e dei docenti a fare la differenza. L’ufficio scolastico ha privilegiato altro fino ad oggi.
[i] Benucci A. (a cura di), 2007, Italiano libera-mente. L’insegnamento dell’italiano a stranieri in carcere, Perugia, Guerra.
[ii] Progetto PAR FAS Linea di azione 1.1.a.3.
[iii] Benucci A., Bianchi V., Tronconi E., 2010, L’ora di italiano. Manuale di italiano per stranieri negli istituti penitenziari, Perugia, Guerra.
[iv] Benucci A. (a cura di), 2007, Italiano libera-mente. L’insegnamento dell’italiano a stranieri in carcere, Perugia, Guerra.
[v] Benucci A. (a cura di), 2014, Italiano L2 e interazioni professionali: sillabi settoriali, Torino, UTET.