Dalla competenza comunicativa alla competenza comunicativa interculturale
Dalla competenza comunicativa alla competenza comunicativa interculturale |
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(pubblicato in Babylonia 2/1996. 46 -52).
Daniela Zorzi
Università di Bologna
La crescente presenza nella scuola italiana di bambini e adolescenti stranieri, per lo più immigrati o profughi, mette sempre più in crisi il modello monoculturale e monolinguistico che propone la scuola italiana. Modello già storicamente improponibile (anche se a volte proposto) nelle zone di bilinguismo sociale e già fortemente messo in discussione negli ultimi trent'anni, quando, in conseguenza della mobilità interna, i contatti fra culture regionali e dialetti diversi si sono fatti sempre più frequenti ed è diventato palese, anche alla scuola, che per molti bambini l'italiano era, citando De Mauro, la prima delle lingue straniere. Nel microcosmo della classe, la reazione dell'insegnante ora come allora è sempre la stessa: mi hanno dato un bambino calabrese, napoletano, marocchino, cinese .... non sa l'italiano e io non so che cosa fare. Al di là del fatto che sotto la frase "non sa l'italiano" si nasconde un'infinita varietà di situazioni, in termini di conoscenze e capacità linguistiche - che va dal non saper dire buongiorno al non saper riconoscere una subordinata di terzo grado in dipendenza da un tempo storico -, ciò di cui si lamenta l'insegnante è l'inadeguatezza della competenza del bambino "altro" in relazione a quanto richiede la scuola. In realtà il problema linguistico era ed è la punta di un iceberg: sicuramente è uno degli elementi che turba maggiormente l'equilibrio della classe e incide nell'accettare o meno un ragazzo, ma molto spesso l'insufficienza linguistica, facilmente documentabile in relazione alla competenza del ragazzo autoctono monolingue, è un'etichetta di comodo per coprire il disagio che sia l'insegnante sia gli altri ragazzi provano davanti a comportamenti, abitudini, modi di parlare o di tacere, modi e tempi di reazione che si discostano a quelli del gruppo maggioritario. Di ciò, e le esperienze di moltissimi paesi con storie di immigrazione molto più forti e più antiche della nostra lo confermano, non sempre si è consapevoli, quindi si cerca quasi esclusivamente di coprire il deficit linguistico, o tutt'al più quello relativo ai contenuti disciplinari del nostro sistema di istruzione. Anche questa operazione, però, nel nostro contesto privo di una forte tradizione dell'insegnamento dell'italiano come lingua seconda, risulta difficoltosa: non si sa chi possa farlo (l'insegnante di lettere? la maestra? l'insegnante di sostegno? un interprete bilingue? per citare solo alcune modalità sperimentate in Italia), con quali competenze, in quali momenti e in relazione a quale programma di base.
Se questa, appena tratteggiata, è la situazione più comune in cui si trova (spesso da un momento all'altro) l'insegnante a cui capita in classe un bambino straniero, e se - come è prevedibile dato l'andamento della migrazione straniera in Italia - il numero dei bambini stranieri tenderà a crescere, allora è ragionevole, oltre e al di là di ogni valutazione morale, cominciare a pensare a una pedagogia che preveda un'utenza multiculturale.
In questa sede, vorrei vedere come il concetto di competenza comunicativa, su cui in maniera più o meno esplicita si è fondato negli ultimi 15 anni anche in Italia l'insegnamento delle lingue straniere e della lingua materna nella cornice dell'educazione linguistica, possa essere interpretato e attuato nella pratica didattica in modo da diventare uno strumento efficace in contesti in cui due o più culture devono convivere. Il mio contributo rientra nell'ambito della pedagogia interculturale, intesa come un atteggiamento e un punto di vista: non intende proporre contenuti specifici, ma si traduce in un modo di rapportarsi alla diversità, vista come risorsa per lo sviluppo di un gruppo misto. Questo atteggiamento è caratterizzato, innanzi tutto, da un aggiustamento reciproco fra le varie parti: non deve, cioè, essere solo lo 'straniero' ad adeguarsi al modello della cultura ospite, ma anche gli 'autoctoni' devono rinegoziare i loro valori e le loro certezze, cercando di identificare i comportamenti che portano all'esclusione (volontaria o coatta) dell'estraneo.
1. Sulla competenza comunicativa
Nell'ambito dell'insegnamento linguistico, si è passati da un prevalente, se non esclusivo, interesse per la forma della lingua a un prevalente interesse per l'uso, interesse quest'ultimo che pervade, in varia misura e con diverse modalità, tutti gli approcci definiti comunicativi. L'elemento che accomuna questi approcci è l'aspirazione a far sì che l'apprendente sviluppi la competenza comunicativa. Questa include la conoscenza del sistema linguistico (cioè sapere se o in che misura qualcosa è formalmente possibile all'interno di una data lingua), ma non si limita ad essa, in quanto la competenza puramente linguistica
circoscrive la descrizione a un parlante-ascoltatore 'ideale'; che conosce 'perfettamente' la propria lingua; che non è sottoposto ai 'condizionamenti' di ordine psicologico e sociologico nell'applicazione delle proprie conoscenze ai fini dell'esecuzione; che appartiene, infine, a una comunità linguistica 'omogenea'. (Zuanelli Sonino, 1981: 40). |
Per formare una competenza comunicativa, concorrono, quindi, altre componenenti: la conoscenza psicolinguistica (sapere se o in che misura qualcosa è fattibile in virtù dei mezzi di implementazione di cui si dispone, cioè in virtù della capacità dei parlanti di trasformare una realtà mentale (il significato) in una realtà sociale ai fini della comprensione (Zuanelli Sonino, 1981: 68)); la conoscenza socioculturale (se e in che misura qualcosa è appropriato in relazione al contesto in cui è usato e valutato); la conoscenza de facto, (sapere se e in che misura qualcosa è di fatto realizzato dalla comunità parlante quella lingua, e non soltanto possibile). La competenza comunicativa non solo richiede che il parlante abbia queste conoscenze, ma anche che sviluppi l'abilità d'usarle (Hymes, 1971).
Da questi principi teorici generali - che nascono all'interno di una teoria sociolinguistica dell'uso linguistico, senza un originario interesse per la pedagogia delle lingue - sono derivati, come si diceva, i vari approcci didattici di tipo comunicativo. Questi hanno messo l'accento su vari aspetti della comunicazione: alcuni hanno privilegiato il "che cosa è adatto dire in una certa situazione", e quindi quali sono le realizzazioni linguistiche che si ritengono più comuni o più usate per esprimere "nozioni" (ad es. spazio, tempo, quantità ecc.) e "funzioni" (ad es. chiedere e dare informazioni, presentarsi, accettare, rifiutare ecc.). Altri hanno messo l'accento sul contesto d'apprendimento: in particolare sulla relazione fra il compito cognitivo da svolgere (ad es. trovare argomentazioni convincenti affinché X faccia Y), il gruppo dei partecipanti (come i partecipanti al gruppo devono negoziare rapporti e informazioni per accordarsi su quali sono argomentazioni davvero convincenti) e gli elementi linguistici necessari per portare a termine il compito assegnato. Altri, ancora, hanno messo l'accento sullo studente come individuo, riconoscendo a ciascuno la propria specificità e quindi offrendo percorsi di apprendimento differenziati, fra i quali il singolo studente può scegliere quello più adatto alle proprie capacità, alle proprie inclinazioni e ai propri obiettivi.
Caratteristica comune a tutti questi approcci è l'attenzione per lo studente più che per la struttura della lingua da insegnare. In momenti e in modi diversi ci si è occupati dei bisogni dello studente, cercando di identificare quali sono i suoi obiettivi e di quali strumenti ha bisogno per interagire linguisticamente con la cultura con cui vuole/deve essere a contatto: quali nozioni e quali funzioni linguistiche gli sono più utili per i suoi scopi, quali strategie di comunicazione deve conoscere e attivare per avere incontri soddisfacenti, quali atteggiamenti deve assumere per avvicinarsi al parlante nativo. Questi è considerato il modello per eccellenza, il punto d'arrivo, mitico e frustrante allo stesso tempo, perchè mai raggiungibile, di tutto il percorso pedagogico. L'attenzione per il soggetto apprendente ha avuto l'indiscutibile vantaggio di sviluppare una serie di studi sia sull'apprendimento (motivazione, stili d'apprendimento, memoria, preferenze rispetto a tecniche e contenuti, personalità ecc.) sia sull'uso sociale del linguaggio, cioè come l'apprendente negozia verbalmente informazioni e relazioni con gli altri partecipanti del gruppo tramite la lingua che sta imparando. Questi approcci, però, hanno evidenziato soprattutto lo "sforzo" che l'apprendente fa in direzione della lingua e della cultura d'arrivo, tralasciando le modalità di negoziazione che il parlante nativo può o potrebbe mettere in campo per facilitare l'incontro.
2. Sulla competenza comunicativa interculturale
Mentre, come si diceva, l'attenzione della pedagogia linguistica è essenzialmente rivolta a far sì che l'apprendente sviluppi la capacità di interagire secondo il modello dei parlanti nativi, gli studi sulle interazioni verbali (e sociali) fra parlanti di lingue diverse hanno cercato di descrivere, tramite analisi del "dettagli" dell'interazione - quello che realmente avviene in questi incontri e hanno portato una serie di informazioni sul come, sul quando e, a volte, anche sul perché alcuni incontri non hanno successo, rilevando, in particolare come
il fraintendimento interculturale è un prodotto mutualmente costruito da tutti i partecipanti all'interazione, non è responsabilità di uno solo. (Chick, 1990: 254) |
Analizzando incontri interculturali si è visto come l'interazione fra persone di culture diverse sia marcata da una serie di momenti di asincronia, che si manifestano in silenzi, sovraposizioni, reazioni impreviste, interruzioni, ecc. che mostrano la difficoltà di stabilire e mantenere una cooperazione conversazionale a causa delle differenze nel background culturale e nelle convenzioni di comunicazione. I partecipanti, normalmente inconsapevoli sia delle conoscenze socioculturali sia delle convenzioni comunicative che contribuiscono alla loro interpretazione (e, normalmente, inconsapevoli anche delle proprie convenzioni conversazionali), hanno solo la percezione di un incontro fallimentare, le cui cause sono raramente identificate. Spiegano quello che è accaduto più spesso in termini psicologici che in termini sociologici o culturali, percependo l'altra persona come non cooperativa, aggressiva, stupida, incompetente o con spiacevoli caratteristiche personali. Ripetuti incontri interculturali falliti con diverse persone portano nel tempo, alla formazione di stereotipi culturali negativi (Chick, 1990: 253 e sgg.)
Il fallimento può essere di vari tipi: può non esserci comunicazione, cioè l'enunciato di un parlante non comunica nessun messaggio all'interlocutore, oppure un fraintendimento, quando si comunica qualcosa che non si voleva dire (Gumperz, 1982). I fraintendimenti - a loro volta - possono essere o di tipo pragmalinguistico, quando si attribuisce erroneamente una certo significato a un enunciato (ad esempio quando un consiglio viene interpretato come un rimprovero), o di tipo sociopragmatico, quando il contributo dell'altro non è ritenuto adatto alla situazione, in seguito a diverse valutazioni dei parametri sociali che determinano le scelte linguistiche (ad esempio l'uso del registro sbagliato per troppa o troppo poca formalità) (Thomas, 1983).
Le competenze che assicurano una effettiva comunicazione interculturale sono così complesse e oscure e legate al contesto, che in nessun modo possono essere direttamente insegnate come un insieme di conoscenze. Comunque un'efficace comunicazione interculturale può essere imparata. Essere consapevoli delle fonti potenziali di asincronia e delle sue possibili conseguenze negative sono un prerequisito necessario per l'apprendimento in quanto permette di ripercorrere retrospettivamente il discorso, di cercare e di identificare eventuali punti di asincronia per mettere in campo adatte strategie di riparo (Chick, 1990).
A titolo d'esempio, riporto un incontro molto problematico, fra un belga e un africano (Blommaert, 1991: 27 e sgg.), che mette in evidenza sia il punto di incomprensione sia le modalità di risoluzione.
A è il belga, B è l'africano. Si trovano a Bruxelles in un pomeriggio d'inverno.)
A: Vuoi un caffè?
B: No, grazie, non ho fame.
A: Vuoi un CAFFE'?
B: No, grazie. (breve pausa) Non ho fame.(lunga pausa)
A: Vorresti andare a bere qualcosa?
B: Certo, con piacere, fa proprio freddo.
A: Magari un caffè?
B: Bene, volentieri.
B reagisce alla domanda iniziale come se gli avessero offerto del cibo, in quanto nella sua cultura (Haya, nel nord della Tanzania) agli ospiti si offrono chicchi di caffè da masticare, come simbolo di amicizia, ospitalità e ricchezza. Di conseguenza è del tutto coerente la categorizzazione che B fa di caffé come "cibo". La categorizzazione del belga, è, invece, "bevanda calda". Le prime due battute del dialogo mettono in evidenza la differenza delle due concezioni, che porta a un fraintendimento di tipo pragmalinguistico. B si accorge che il suo intervento non è appropriato quando A ripete la domanda, sottolineando la parola caffé. A, dopo una pausa, riformula l'invito passando da "caffé" a un più generale "bere qualcosa". B questa volta accetta e ciò dà ad A una base per ritornare alla proposta iniziale, che finalmente ha successo. Il fraintendimento è stato rimediato.
In questo scambio si possono identificare tre fasi: una prima di "osservazione" di ciò che sta accadendo, in cui i partecipanti si accorgono del fallimento della comunicazione: i loro contributi sono perfettamente coerenti con i loro assunti culturali, ma non funzionano in quella situazione; segue una seconda fase, la 'ricerca di un terreno comune' in cui A evita l'elemento problematico (caffè). Entrambi si accordano quindi sul 'bere qualcosa'. A questo punto inizia la fase del 'dialogo': viene apprezzata esplicitamente l'idea di andare a prendere qualcosa di caldo e si è creata una base comune per accettare l'idea di caffé come bevanda.
Questo esempio mostra come la competenza interculturale consista nel raggiungere un reciproco adattamento (e non solo l'adeguamento dell'apprendente ai modelli linguistici e culturali del paese ospitante).
Obiettivo primario della pedagogia interculturale - di conseguenza - è trovare strategie didattiche perché soggetti di origini culturali diverse possano imparare a comunicare fra loro indipendentemente dalle differenze di lingua, comportamenti culturali e credenze. L'attenzione si sposta, quindi, dal lavoro che fa il singolo apprendente al modo con cui due persone di culture diverse riescono a negoziare significati e relazioni tramite un mezzo linguistico in cui hanno competenze molto sbilanciate. Questo non significa abdicare a una funzione didattica da parte di chi ha le maggiori competenze, ma, assumendo che il significato sia socialmente negoziato (piuttosto che individuale) e situato nel processo di interazione faccia a faccia (piuttosto che nella testa del singolo parlante), significa vedere la relazione personale non solo come una risorsa per l'apprendimento linguistico da parte del più debole, ma anche per l'allargamento dei confini culturali e linguistici di entrambi.
Nella gestione didattica ciò ha due implicazioni. Da un lato porta a non vedere la presentazione di contenuti culturali (quali la vita quotidiana in Marocco, le caratteristiche dell'Islam, o la scuola in Cina) come centrale nell'approccio interculturale: Nanni (1993: 77), a giusta ragione, sostiene che limitarsi a questo tipo di contenuti
significa già aver fatto una scelta dogmatica e moralistica che prefigura una proposta educativa sostanzialmente conservatrice per quanto possa essere aperta sul piano delle idee. |
Dall'altro implica la costruzione di un clima di classe che favorisca reciproci adattamenti a fronte delle diversità linguistiche e culturali: parlando di insegnamento dell'italiano, si mette l'accento sui meccanismi interattivi e sulla dinamica della gestione della classe e si cerca di impostare una didattica che consideri ogni studente come un individuo, e al contempo, sviluppi l'abitudine alla partecipazione cooperativa ai lavori di classe (Contento et al., 1994).
3. A proposito di "competenza partecipativa"
Come si diceva in precedenza, la comunicazione interculturale è caratterizzata (fra l'altro) dal processo, attivato da tutti i partecipanti, finalizzato a trovare accordo nella situazione in atto. In ambito scolastico, la prima operazione da fare, quindi, è definire la situazione, facendo diventare l'implicito dei comportamenti oggetto di discorso. Si tratta, cioè, di rendere esplicita la "norma" di comportamento verbale e non verbale adeguata al contesto classe di una scuola italiana, norma a cui di solito ci si adegua come se fosse l'unico comportamento possibile. Due strategie sembrano produttive: da un lato riflettere insieme su "che cosa si fa tutti i giorni in classe", cercando di entrare nei dettagli delle azioni routinizzate (ad esempio: quando suona la campana dell'intervallo, i ragazzi si alzano subito, o aspettano l'autorizzazione dell'insegnante?); dall'altro riflettere insieme sulla varietà di routines possibili, in alternativa a quelle attivate in quel contesto-classe: gli studenti possono raccontare esperienze fatte in altri ordini di scuola (ad es. alle elementari potevo/non potevo stare nel corridoio durante l'intervallo) o esperienze di amici che frequentano scuole diverse, e l'insegnante può raccontare "quello che succedeva quando andava a scuola lui" (ad esempio di quando si stava seduti nel banco a braccia conserte se non incrociate dietro la schiena; o del mutato valore sociale di refettorio e doposcuola, che una volta, ben diversamente da oggi, connotavano disagio sociale od economico). Sono attività che portano alla consapevolezza sia di quello che avviene veramente in classe, sia di come "ciò che di fatto avviene nella propria classe" non sia universale e quindi nè ovvio nè scontato per studenti con esperienze diverse.
A titolo d'esempio propongo una lista, del tutto approssimativa, di tratti del contesto "classe", che possono variare a seconda dei luoghi e delle situazioni. Questi elementi potrebbero diventare oggetto di discorso e di riflessione per tutti i ragazzi del gruppo, in quanto ciascuno di loro al momento di iniziare quella scuola ha dovuto rapportarsi a una serie di situazioni differenti rispetto alla sua esperienza precedente, sia scolastica, sia pre-scolastica:
- Diversa struttura dell'ambiente fisico e dell'organizzazione logistica: disposizione del banchi e della cattedra; usi differenziati dei locali della scuola (aule, palestre, laboratori, cortili).
- Diverse convenzioni che regolano l'uso di materiali didattici: in certe scuole elementari a tempo pieno, ad esempio, i bambini devono lasciare a scuola i libri e i quaderni, in altre li riportano a casa tutti i giorni; nella provincia di Bolzano i libri di testo per la scuola dell'obbligo sono di proprietà della scuola che li presta al singolo studente: questi, al termine dell'anno scolastico, dovrà restituirli in ottime condizioni, perché possano essere usati da un altro studente l'anno successivo: questo fatto - ovviamente - modifica il rapporto dello studente con il libro.
- Diverse convenzioni, nella vita di classe, relative alla mobilità e alla gestualità: alzarsi o meno al cambio dell'ora; alzarsi o meno durante la spiegazione dell'insegnante; convenzioni che regolano l'andare in bagno, al refettorio ecc; se/quando alzare la mano o alzarsi in piedi per rispondere o chiedere la parola; se/quando alzarsi per andare a parlare con un altro compagno.
- Diverse convenzioni nell'interazione con l'insegnante: se/quando parlare spontaneamente; se/quando rispondere alle domande; modalità diverse di dare ordini/consigli/esortazioni/rimproveri.
Conoscere queste convenzioni e imparare ad agire all'interno di questi confini fa parte di una componente della competenza comunicativa, che potrebbe definirsi "competenza di partecipazione", intendendo con questo termine la capacità di riconoscere i tratti costitutivi degli eventi comunicativi, e di sapersi rapportare ad essi.
Se per il ragazzo italiano questa competenza si è sviluppata nel tempo, tramite le informazioni date dall'istituzione (ordini, istruzioni consigli e rimproveri dell'insegnante) e il rinforzo dato dall'ambiente sociale intorno a lui (modello proposto o imposto da familiari e da amici; precedenti esperienze nel contesto italiano), per il ragazzo straniero, giunto da poco da un contesto scolastico e sociale diverso, sviluppare questa competenza diventa di necessità un processo accelerato, pena la sanzione sociale. In questo processo può essere aiutato da informazioni sul contesto e sulle regole socioculturali che regolano la partecipazione: lo studente deve essere consapevole di quale atteggiamento il gruppo si aspetta da lui, anche se ciò non significa che debba necessariamente adeguarsi. Da un lato deve sapere quali inferenze (di solito negative) si traggono da comportamenti che si discostano molto da quelli del gruppo maggioritario; dall'altro, nel caso non infrequente all'interno di un contesto istituzionale come la scuola, in cui 'debba' seguire certe regole, sapere che ci sono, come funzionano ed eventualmente anche perché ci sono e a che cosa servono, può aiutarlo ad adeguarsi. Raggiungere un equilibrio fra il rispetto dei tratti culturali dei singoli e le regole di un'istituzione è sicuramente problematico (le punte estreme, in Italia, si vedono nella difficoltà di accettazione e di inserimento dei bambini zingari, stigmatizzati a priori, e spesso con comportamenti che confermano alcuni degli stereotipi). Una strategia attenuativa del conflitto è rendere oggetto di discorso e di negoziazione non solo le diverse convenzioni culturali e istituzionali, ma anche la misura in cui è opportuno o neccessario adattarsi, senza ricorrere alla semplice imposizione.
Un esempio di come possono essere rese esplicite le regole socioculturali in un contesto didattico, lo offre Saville-Troike (1992). Racconta di una studentessa giapponese che si inchinava regolarmente davanti agli insegnanti. Un professore, cercando di insegnare le regole sociolinguistiche inglesi, le disse di non farlo con insegnanti anglosassoni, perché era considerato inappropriato. La ragazza, avvilita, reagì dicendo che sapeva benissimo che gli americani non si inchinavano, ma che quella era la sua cultura e che, se non si fosse comportata così, avrebbe mancato di rispetto e non sarebbe stata una persona corretta. Le diverse convenzioni sono così state rese esplicite e giustificate: si è costruita una base per eventuali accordi o per un'accettazione consapevole dell'alterità. Saville-Troike conclude che si dovrebbe parlare delle regole sociolinguistiche, ma che si dovrebbe lasciare alla decisione degli studenti se produrle o meno.
D'altra parte, senza forzare una persona a cambiare comportamento, è molto importante informarla che la media dei parlanti interpreta il comportamento 'diverso' come un segnale particolare. L'esempio seguente, anche questo riferito da Saville-Troike (1992), mette in evidenza il disagio che deriva dal fatto che i partecipanti all'interazione non chiariscono i presupposti del loro comportamento. All'inizio di un corso di inglese per stranieri, fu chiesto agli studenti di presentarsi agli altri con il nome di battesimo. A giro di tavolo tutti dissero il loro nome, finché un anziano signore giapponese anunciò: "Voglio essere chiamato signor Tanaka". Questo gelò l'insegnante e gli altri studenti. Ovviamente era suo diritto essere chiamato in maniera formale, ma gli sarebbe stato utile sapere che, in quel contesto, il suo atteggiamento suonava distante, scortese e veniva interpretato come segno di poca amichevolezza.
In quest'ultimo esempio sembra fallire la reciprocità di atteggiamento su cui si fonda la competenza comunicativa interculturale:
è sbagliato aspettarsi che l'adeguamento debba essere unilaterale e completo: la migliore dimostrazione di competenza interculturale sta nel chiarire che cos'è la tua identità culturale e nel segnalare all'interlocutore che ti aspetti che lui voglia venirti incontro, proprio come tu sei disposto ad andare incontro a lui. (Dirven & Pütz, 1993: 152) |
4. Conclusioni
Introducendo il concetto di competenza di partecipazione, come una delle componenti della competenza comunicativa interculturale, siamo andati nella direzione degli obiettivi che si propone un approccio didattico orientato sull'interculturalità: favorire, attraverso la vita di classe
una dinamica acquisizione del sapere, lo sviluppo delle abilità (comprese quelle di azione sociale) e l'internalizzazione di valori e atteggiamenti che potranno consentire ad insegnanti e alunni di non provare alcun disagio di fronte alla diversità culturale. (Lynch, 1993:1) |
Siamo partiti dall'assunto che una competenza comunicativa interculturale - al pari della competenza comunicativa - non possa essere "insegnata", in quanto si manifesta attraverso comportamenti linguistici e non linguistici assolutamente dipendenti dalle infinite variabili del contesto di situazione. Si ritiene allo stesso tempo che possa essere "imparata", o al di là della banale semplificazione, che si possano creare, anche in classe, alcune condizioni che aiutano a stabilire positive relazioni con persone di culture diverse.
Si tratta innanzi tutto di cambiare la prospettiva didattica: non è il bambino straniero a dover imparare (per adeguarsi) il modello di comportamento degli autoctoni, ma sono tutti i partecipanti al gruppo (cioè anche i bambini italiani e gli insegnanti) che - insieme - devono trovare un accordo sul comportamento adeguato. Ciò non significa abdicare al proprio modello culturale, ma trovare modalità di negoziazione per cui ciascuno attutisce o esalta aspetti della propria cultura per venire incontro all'altro.
L'adeguamento reciproco richiede una consapevolezza del proprio e dell'altrui comportamento, o, per lo meno la consapevolezza che certi comportamenti usuali in una certa cultura possono essere inusuali o avere valori differenti in un'altra. Rapportando questa affermazione a una classe di scuola italiana, vediamo che un primo passo è rendere esplicite le norme di comportamento che regolano la vita quotidiana in quel contesto, norme che i partecipanti della stessa cultura danno per scontate, e che raramente diventano oggetto di discorso. Usualmente si sanziona chi si distacca da queste norme (straniero o autoctono che sia), ma quasi mai si mettono in discussione o diventano oggetto di riflessione. Conoscere le regole tacite dell'evento a cui si sta partecipando e renderle esplicite a chi fa parte di un'altra comunità aiuta a giustificare comportamenti diversi, in apparenza estranei o minacciosi. E' ovvio che tale consapevolezza non è d'aiuto solo nel caso in cui siano presenti studenti di culture molto distanti dalla nostra: la varietà delle culture italiane, e la varietà delle abitudini e delle tradizioni familiari che ogni studente si porta dietro al momento di entrare in classe, è stato, è o può essere ragione di conflitto o di incomprensione. Un atteggiamento che non solo rispetti l'alterità, ma che la veda come una risorsa (non necessariamente un modello da imitare, ma uno stimolo per mettere in discussione il proprio modello senza subirlo acriticamente) "riconosce a ciascuno (immigrato o autoctono che sia) il diritto a non dover essere il sosia di altri e a non essere costretto nei limiti dell'omologazione" (Contento et al., 1994: 9). E' proprio in questo senso che i bambini "altri", o con una bella espressione di Canevaro "i bambini che vengono da lontano", sono una risorsa e un arricchimento per tutto il gruppo:
l'uomo non ha soltanto bisogno dell'altro, ma dell'altro differente da sè. Attraverso i rapporti in cui sia dominante l'identità egli rischia di dialogare con altri se stesso; può ricevere molte rassicurazioni, ma gli mancheranno stimolazioni per attivare strategie di cambiamento e ampliare la propria prospettiva esistenziale. (Contini, 1983: 156) |
Bibliografia
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