Settembre 2010  Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792
Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni
L’intercultura al plurale e la didattica della lingua di Matteo Chinosi

ABSTRACT

Se il ballerino fa un passo indietro, muore suo padre.
Se ne fa uno avanti, muore sua madre.
Ma se non balla, muore lui.”

 

Questo passo di Donni Dongama, ‘La piccola danza indanzabile’, favola Bambara riportata da A. A. Waberi, esprime con la sintesi efficace ed evocativa tipica dei racconti il rapporto tra il necessario dinamismo di ogni cultura e l’immobilità cui la riportano i suoi richiami passati.
Una voluminosa letteratura critica si è spesa nell’analisi di questi retaggi, accordando alla presa delle loro determinazioni e al peso della loro autorità un ruolo privilegiato nella costruzione della nozione di cultura, ai danni della sua dimensione attiva, creativa e mobile, che pure ne costituisce il tessuto vitale.
L’intercultura, terreno di passaggio e di confine, per sua natura spinge le riflessioni verso i margini delle strutture fisse e degli schemi consolidati, ma non sempre il prefisso inter- è sufficiente a strappare la cultura alla sua facciata di stabilità per restituirla al formicolare delle molteplici interpretazioni, modifiche, rielaborazioni umane.
Ripartendo dalle relazioni, dalla condivisione, dall’imprevedibile intreccio di parole attraverso cui le persone si scambiano pensieri sul mondo, è possibile riavvicinare l’idea di cultura alle sue basi dinamiche e plurali, e su di esse suggerire una possibilità di intercultura al plurale intesa come ambito di confronto e creazione rivolto a persone che, aldilà delle diverse appartenenze, incrociano per un tratto le loro strade.
Si intende questo momento d’incontro non come un territorio neutro tra blocchi culturali statici e omogenei, ma come un percorso che ricerca margini di movimento e valorizza momenti di creatività; i contesti di insegnamento dell’italiano L2 rappresentano un’ occasione preziosa per praticare questi interstizi di libertà: l’intercultura intesa e praticata come invito a muovere, sulle note degli orizzonti culturali, i passi di una piccola danza indanzabile.

 

 

 

 

1 QUALE CULTURA PER l’INTERCULTURA? DALLA “CULTURA AL SINGOLARE” ALLA “CULTURA AL PLURALE”

 

1.1. LA CULTURA AL SINGOLARE

 

Un tentativo di delineare i contorni di una possibile didattica interculturale che non voglia ridursi alla riproduzione di formule note e ampiamente sperimentate deve fare i conti con una revisione critica della nozione di intercultura, che a sua volta non può non coinvolgere la (sottostante) nozione di cultura, in essa implicata, sottesa e forse troppo spesso sottintesa.

L’accezione più comune e inflazionata del concetto di Cultura (che indichiamo con la lettera maiuscola, e che con De Certeau possiamo definire “Cultura al singolare”) la intende come “orizzonte stabile di senso collettivamente riconosciuto e imposto”, weltenschaaung condivisa da un gruppo e uniformemente distribuita dalle istituzioni sociali ai suoi membri, alienati (nel senso “necessario” indicato da Castoriadis) e conformati ai suoi dettami senza possibilità di fuga. Tale accezione coglie con indubbia efficacia la portata totalizzante dell’universo di senso simbolico all’interno del quale si muovono, con sana inconsapevolezza, le persone. L’individuo culturale che emerge in questa prospettiva è una creatura costruita (si parla di antropopoiesi) e programmata deterministicamente ad agire secondo i dettami imposti dal “senso comune” a cui è assoggettata: si chiama appunto “soggetto” (termine che come ricorda Michel Serres è stato un aggettivo, prima di diventare un sostantivo), in quanto “soggetto alla Cultura”.

 

 

1.2. L’ «ECCESSO DI CULTURA», IL CULTURALISMO

 

Secondo questa accezione “al singolare”, la Cultura instaura un rapporto di coincidenza tra la società e coloro che ne fanno parte; nega la relazione, l’alterità interna in ogni persona, il divenire, la complessità e contraddittorietà di ogni storia; privilegia l’essere (che non a caso è infinito, atemporale) ai danni della singolarità degli enti1; tende a ridurre gli individui a “ostaggi universali” (J. Derrida) costretti a rappresentare la “comunità” alla quale “appartengono”, coatti a ripetere, rinchiusi nella purezza del loro monolinguismo sociale, ridotti a “sintomi” di un non ben precisato universo di senso che si esprimerebbe attraverso di loro; descrive soggetti declinati al passato, che descrivono ciò che è alla luce di ciò che (forse) è sempre stato, ricondotti all’astratto che sottrae al concreto muoversi del tempo; trasmette, inoltre, un “razzismo di contrabbando” (Demetrio), travestito da culturalismo ma portatore della stessa istanza di irriducibilità che assolutizza le differenze nei confini delle Identità.

 

Non c’è nozione più conservatrice: blocca, ripete, congela, chiude, immobilizza; “per fortuna non esiste; esistono al contrario coloro che vi si rifanno”. (Laplantine 1999: 36)

 

Per impostare una prospettiva interculturale si rende quindi necessaria una critica a questo “eccesso di Cultura” (culturalismo) per recuperare il valore e l’utilità della cultura, superando la sua dimensione “al singolare” per rivelarne una natura dinamica e composita, “plurale”.

A tal fine occorre mettere in evidenza come ogni logica collettiva di rappresentazioni sia plurale tanto in senso interno (poiché la ricerca di senso e adattamento, matrice della pulsione culturale, segue imprevedibili direzioni che ne disegnano un’instancabile evoluzione) quanto in senso esterno (dal momento che ogni incontro e relazione con gli altri, portatori di domande e risposte sempre diverse, influenza ogni individuo e ogni gruppo). Va quindi “rimesso in moto il tempo”, che il culturalismo tende a rallentare o addirittura bloccare, sostituendo al privilegio del passato, dell’origine, delle eredità, della sorgente, una valorizzazione del presente e del futuro, dei progetti, dei percorsi: del fiume; “la frase, non il punto” (Deleuze).

 

L’immagine della cultura deve essere così riconciliata con il mutamento, il flusso temporale e l’evoluzione, a costo di incrinarne la solidità identitaria per far riaffiorare la dimensione individuale: “a incontrarsi e scontrarsi non sono culture, ma persone” (Aime 2004: 53), che hanno certamente radici e origini, ma anche biografie e storie segnate da cambiamenti, passaggi, scelte, che fanno degli individui gli attori, e non i prodotti della propria identità.

Soggetti della cultura, e non (solo) soggetti alla Cultura.

 

 

1.3. LA CULTURA AL PLURALE

 

Le direzioni in cui si esprime la pluralitude che caratterizza il rapporto tra la cultura e gli individui sono essenzialmente due:

Le culture sono molte, mescolate e sovrapposte, nello stesso individuo, il quale rappresenta la mutevole sintesi di un’infinità di subculture stratificate e mescolate in maniera imprevedibile, non di una sola Cultura;

Ogni individuo è culturalmente determinato e conformato, ma le sue maniere di “fare con” gli strumenti culturali che riceve sono percorsi imprevedibili e irriducibili ai loro presupposti: ognuno è obbligato a parlare con la sintassi e il vocabolario che un determinato linguaggio gli fornisce, ma nella sintassi e nel vocabolario non sono già previsti i loro possibili utilizzi; tutti gli individui rappresentano insomma altrettanti modi di mettere in scena una “cultura”, tema che non esiste al di fuori delle sue infinite variazioni.

La cultura quindi è plurale in due sensi (tante culture in un individuo, tanti individui in una cultura).

 

 

1.4. “MAA KA MAAYA KA CA A YERE KONO - LE PERSONE DI UNA PERSONA SONO NUMEROSE IN OGNI PERSONA”2

 

L’identità individuale è un tragitto dinamico in cui si mescolano istanze di appartenenza che provengono da tutte le sfaccettature di cui si compone il proprio rapporto con gli altri e con il mondo. Lungi dall’essere generata, come per gemmazione, da un solido ceppo culturale, ogni persona costruisce la propria traiettoria identitaria mescolando influenze che hanno a che fare con l’età, la condizione sociale, la sensibilità, il genere, le relazioni, la storia della propria vita, e non solo con l’origine geografica o addirittura etnica. Ogni persona partecipa a molteplici subculture, intrecciate in un originale ed imprevedibile tessuto policromo e pieno di pieghe (ovvero complesso).

Per quanto possa essere forte l’influenza di una determinata istanza conformatrice, per quanto il bisogno di stabilità possa indurlo ad aggrapparsi a una monolitica astrazione di appartenenza, l’uomo non ha una sola dimensione, non dispone di una sola opzione culturale da esercitare: la sua natura è costitutivamente plurima, policentrica, aperta e plurale.3

 

 

1.5 “LA CULTURA CAMMINA SULLE GAMBE DELLE PERSONE”

 

Ogni persona, oltre ad essere il risultato sempre cangiante dell’unione di molteplici culture, rappresenta un modo particolare, originale e inimitabile di “abitare” ognuno di questi orizzonti di senso; ogni individuo “mette in scena” a proprio modo le appartenenze culturali che riconosce, interpreta secondo proprie linee i comportamenti codificati e collettivamente imposti.

Quello che chiamiamo cultura, dunque, è un insieme ordinato di tratti e caratteristiche dedotto con un processo di astrazione dall’osservazione della quotidiana invenzione, da parte delle persone, della propria storia, del proprio percorso di ricerca e costruzione di senso, della tessitura della propria ragnatela relazionale.

La cultura è plurale perché, per quanto possa rappresentare un sistema ordinato e rigido di caratteristiche e classificazioni, non esiste fuori dalle diverse persone che disordinatamente vi partecipano.

Occorre quindi portare l’attenzione sulle tracce delle persone, tralasciando per quanto possibile il desiderio di semplificarle e riordinarle in classificazioni sistematiche, di ridurle alla loro Cultura.

 

 

2 DALLA CULTURA AL PLURALE, UN’INTERCULTURA AL PLURALE

 

Se da una “Cultura al singolare” si produce un’intercultura al singolare (secondo un approccio che si definirà “multiculturalista”), da una “cultura al plurale” va costruita un’intercultura al plurale.

 

 

2.1. OLTRE LA TERRA DI MEZZO

 

Nel libro Didattica interculturale Duccio Demetrio e Graziella Favaro, cercando di chiarire una concezione di intercultura sulla quale appoggiare una didattica della lingua, tratteggiano un percorso storico in cui diverse idee ed applicazioni dell’intercultura vengono accostate secondo una prospettiva cronologica, come momenti di un cammino di ricerca epistemologica.

Ad un primo approccio di tipo detrattivo-compensatorio, in cui la differenza culturale era considerata come un handicap, un deficit da colmare, gli autori

vedono succedere un atteggiamento che definiscono “integrativista”: anche secondo questo approccio la differenza, seppur degna di maggiore valorizzazione, è sempre vista come una mancanza, una difficoltà del cui superamento deve farsi carico la comunità ospitante (ovvero la cultura dominante), attivando procedure di integrazione di tipo assimilatorio volte ad aiutare i diversi ad essere assorbiti.

A questa concezione rigida dell’intercultura viene contrapposta una visione “reciprocativa”, per cui l’adattamento non è più a senso unico, nella direzione della cultura dominante: tutte le differenze, al contrario, dotate di uguale dignità e nello stesso tempo di uguale flessibilità e pluralità intrinseca, si trovano a collaborare per costruire un terreno comune, una “terra di mezzo” dai confini imprevedibili e cangianti, e dal baricentro instabile; l’intercultura viene vista come il prodotto di interventi di reciproco avvicinamento.

Questa prospettiva coglie, senza dubbio, i limiti di concezioni inadeguate dell’intercultura, ma lascia aperti due ordini di problemi.

In primo luogo, la visione dell’intercultura come “terra di mezzo” non si distacca da un’idea “spazializzata” della cultura, come territorio omogeneo ed uniforme di cui le persone sarebbero esempi, rappresentanti, ostaggi. L’appartenenza culturale tende ad essere ancora una volta sovraccaricata, l’intercultura si profila come un “luogo neutro” posto al confine tra territori ben delineati di cui gli individui con maggior sensibilità alle relazioni fungerebbero da rappresentanti “diplomatici”, ambasciatori del proprio orizzonte di senso.

In secondo luogo, per quanto questa concezione sia “reciprocativa”, i processi di inculturazione ed acculturazione rimangono sostanzialmente a carico dei diversi, degli stranieri. Anche in questo senso è presupposta una certa staticità di fondo degli appartenenti alla cultura dominante, la cui partecipazione al “prodotto interculturale” risulta quindi minima e poco determinante.

 

 

2.2. MULTICULTURALISMO E INTERCULTURALISMO: LA RIPROPOSIZIONE DELLA DIALETTICA SINGOLARE-PLURALE SU SCALA PIÙ AMPIA

 

Per aggiungere una tappa ulteriore al percorso epistemologico cui si è fatto riferimento in precedenza, è indispensabile fare chiarezza nella distinzione tra i termini “interculturale” e “multiculturale”.

Seguendo le linee proposte da M. Abdallah-Pretceille, con “multiculturalismo” si intende un modello interpretativo tendente a sottolineare, essenzializzare e “supervalorizzare” alcune caratteristiche astratte dei gruppi di appartenenza degli individui; così facendo, esso classifica le persone in una rigida tassonomia, assolutizza e irrigidisce i tratti considerati peculiari4, sminuisce o nega del tutto i mutamenti o le differenze interne ad ogni gruppo, consegna le persone ad un ordine deterministicamente imposto che non lascia spazio al pluralismo, alla libertà di scelta della propria identità, alla multidimensionalità. In questo senso, il multiculturalismo risulta da una concezione “al singolare” delle culture: interpretandole come “territori” giustapposti, omogenei al loro interno come tessere di un mosaico, considera l’incontro e la relazione dei loro “membri” come il confronto tra mondi compatti e irriducibili.

Nel tentativo di interrogarsi su come facilitare l’incontro tra persone di diversa provenienza, una prospettiva multiculturale tenderà quindi a valorizzare e tutelare le differenze (anche quando si tratta di minoranze, infatti, resterebbero ben visibili), mantenendo un atteggiamento tollerante e tendenzialmente relativista. I rischi di una simile concezione, però, sono molti: l’insistenza sul gruppo d’appartenenza può ingenerare un congelamento dei tratti identitari, una deriva esotista, un rifiuto della mobilità sociale, un diffondersi degli stereotipi; la radicalizzazione delle differenze può portare a una “razializzazione” delle culture (attraverso un uso ambiguo del concetto di etnia) o a una loro gerarchizzazione, nonché alla riproduzione delle discriminazioni; l’ipertrofia dell’aspetto culturale può tradursi in una culturalizzazione dei problemi o delle difficoltà, dimenticando altre chiavi di lettura (sociologica, psicologica, economica, politica, …).

I limiti della cultura “al singolare” si riproducono quindi nell’“intercultura al singolare”, o “multiculturalismo”, ma possono essere superati opponendovi una prospettiva “interculturalista” non soltanto descrittiva ma tendenzialmente attiva, progettuale, e costruita su presupposti radicalmente diversi.

 

L’orientamento interculturale è [rispetto alla multicultura] un’altra maniera di analizzare la diversità culturale, non a partire dalle culture prese come degli stati di cose, come delle entità indipendenti e omogenee, ma a partire dai processi, dalle interazioni, secondo una logica della complessità, della variazione (e non della differenza)5

 

Il paradigma interculturale così inteso sostituisce alla visione della cultura come ordine e sistema quella della cultura come azione e comunicazione. L’individuo non è visto (solo) come il prodotto della sua cultura (il soggetto alla sua cultura) ma (anche) come il suo autore (soggetto della cultura) in funzione di strategie e tattiche diversificate, secondo i bisogni e le circostanze, in un quadro marcato non solo dalle determinazioni collettive imposte, ma anche dalla pluralità e dalla mobilità. L’“interculturalismo” restituisce centralità al soggetto come autore della propria identità e creatore di un percorso originale di appartenenza attraverso le culture; interrompe la rigida causalità dei processi di conformazione alle logiche di gruppo, sospendendo il giudizio sulla determinazione culturale; si concentra sulle relazioni intersoggetive presenti, tralasciando i retaggi passati, adottando quindi un approccio comunicazionale e non tassonomico; ridimensiona la “variabile culturale” ad una tra le tante altre che concorrono a costituire gli individui, negandole centralità e preminenza nel determinare i comportamenti relazionali; riconosce la complessità, la contraddittorietà, la non-trasparenza di ogni gruppo, comunità ed individuo, e ne fa anzi la base del proprio operare.

 

 

2.3. L’INTERCULTURA AL PLURALE

 

Se il “multiculturalismo” è la trasposizione relazionale di un concetto di cultura “al singolare”, l’“interculturalismo” appoggia la propria analisi sulla “cultura al plurale”, dalla quale di fatto risulta indistinguibile. Con il prefisso inter- allude infatti non a un territorio “di mezzo” compreso tra dei blocchi culturali, ma alla pluralità di interazioni interna ad ogni orizzonte di senso e ad ogni sua determinazione. L’intercultura diventa quindi la sola “struttura” della cultura intesa in senso plurale, ne costituisce la fragile e mutevole ossatura e ne indirizza ogni progettualità pratica; appare come lo strumento in grado di seguire le tracce lasciate dalle molteplici interpretazioni, corrispondenze e relazioni stabilite dagli individui nel terreno delle diverse appartenenze; può venire utilizzata per progettare e costruire un percorso comune tra persone che condividono un frammento di destino.

Attraverso questa modalità analitica e operativa plurale è possibile costruire modelli di incontro e relazione dinamici, creativi e polimorfi: l’intercultura al plurale è un intreccio di percorsi di identificazione e di appartenenza mobili e instabili che non coinvolge solo i diversi, gli immigrati, gli stranieri, ma riflette sui mutamenti che lo scorrere del tempo impone a tutti gli individui; non stabilisce e irrigidisce differenze astratte e legate ad un passato più o meno mitico, classificando gli uomini e le donne in caselle identitarie soffocanti, ma valorizza la diversità, la complessità, la poli-appartenenza come elementi di costruzione di orizzonti di senso condiviso ancorati nel presente, e proiettati nel futuro (alla luce, implicita, del passato di ciascuno); non esalta la riproduzione di schemi autentici, ma sottolinea la dimensione meticcia6 di ogni rappresentazione.

 

 

3. L’INTERCULTURA AL PLURALE NELLA DIDATTICA DELLA LINGUA

 

Il tentativo di declinare in chiave didattica gli spunti offerti dal modello di intercultura “al plurale” impone di riflettere sulle modalità di transizione a una teoria della pratica (e di costruzione di una pratica della teoria) per trasmettere in contesti operativi le linee tratteggiate dall’analisi, mettendole alla prova dell’attività didattica.

 

 

3.1. QUALE APPROCCIO?

 

Appare evidente che un approccio didattico in cui si esprima un’intercultura al plurale deve essere di tipo comunicativo: in primo luogo, il continuo riferimento all’individuo come soggetto della propria cultura, autore della propria interpretazione degli elementi simbolici, creatore dell’imprevedibile alchimia con cui abitare i riferimenti collettivi, non può che imporre un modello didattico centrato sul soggetto sottratto alla sovradeterminazione soffocante della sua “appartenenza culturale”. Il soggetto dev’essere il centro dell’attività, per giocare il proprio peculiare ruolo nella scena interculturale. L’attività didattica deve metterlo in condizione di potersi spogliare delle proprie identità, abbandonare le proprie appartenenze, mettere in discussione le proprie certezze “culturali” (e non contribuire a rafforzarle), riconoscere il proprio come uno dei modi di partecipare ai sistemi di riferimento collettivi, e nel contempo di contribuire a costruirli.

In secondo luogo, il ricorso alla comunicazione come paradigma su cui imperniare la nozione tanto di cultura quanto di intercultura conduce a ipotizzare una didattica della relazione e dell’interazione attiva: la classe viene a costituirsi come il contesto di sviluppo di una rete di comunicazione intersoggettiva, ove il gruppo possa raggiungere una dinamica in cui costruire cultura in senso plurale. I significati devono essere decostruiti, bricolati, messi in circolazione, reinterpretati, svuotati e reinvestiti di senso; i riferimenti devono essere esplicitati, sottoposti al vaglio critico dell’interpretazione collettiva, rivisitati consapevolmente ed eventualmente ridimensionati; la comunicazione deve essere il centro dell’intervento didattico, configurandosi come mezzo di relazione intersoggettiva, come strumento non solo di riproduzione ma anche di creazione di linguaggio e cultura, come obiettivo funzionale volto a permettere relazioni anche esterne alla classe.

 

3.2. QUALE LINGUAGGIO?

 

Una prospettiva interculturale plurale non può appoggiarsi sul monolinguismo, su una visione statica e solida della lingua, sulla messa in evidenza della sua dimensione sistemica e “scritturale”, fissa.

La lingua veicolare dell’intercultura al plurale non può che essere l’interlingua: linguaggio variabile e mai definitivamente codificato, lingua inter-media ma anche inter-attiva, senza partenza riscontrabile e senza arrivo determinato, lingua-itinerario diversa per ciascuno ma che si sforza di rendere condivisibile e comprensibile il tragitto di ognuno. L’interlingua è un sistema linguistico provvisorio basato sulla strutturazione di un sistema di ipotesi; un codice ibrido e meticcio, sfuggente alle sistematizzazioni e refrattario alla possibilità di divenire centro di stabilizzate istanze identitarie. Per definizione è diverso per ciascuno, variabile nel tempo in maniera sfuggente e difficilmente prevedibile; ciononostante, è proprio nell’interlingua che si incontrano i percorsi di tutti, che si coniugano le fragili costruzioni soggettive nel loro intrecciarsi intersoggettivo.

Paradossale koinè senza dizionario, l’interlingua è la lingua di tutti perché non è la lingua di nessuno: se in quanto lingua entre-deux appare tipica dello “straniero”, è in realtà paradigmatica della condizione di chiunque, “straniero all’interno del linguaggio” (Derrida) in quanto abitante del suo scorrere continuo: ogni lingua viva infatti (quindi anche ogni lingua materna) è un’interlingua dinamica, si deforma e modifica per le relazioni che vi si incontrano. Solo, rispetto all’autoctono, lo “straniero” migrante vive in maniera particolarmente evidente il suo tragitto inter-linguistico, poiché dovendo abbandonare il terreno solido della “propria” lingua scopre la diversità in cui in realtà abitano tutti. Vive in misura maggiore il disagio dell’inter-medietà, ma anche le straordinarie opportunità che offre questo lieu-mi-lieu7.

Compito di una didattica interculturale è quindi valorizzare l’interlingua, sperimentarne la versatilità e la comprensibilità, inventarne variabili inedite, usarla come materia prima; non trattarla da semplice tappa intermedia per raggiungimento di una lingua d’arrivo conclusa e codificata, statica e definitiva

L’interlingua è la lingua veicolare (nel senso più possibile dinamico) dell’intercultura, è il cursore che conduce le traiettorie nel bilinguismo, l’ambito di transito ed esplorazione, ovvero il momento dell’incontro, della condivisione, della sperimentazione collettiva e della costruzione di riferimenti culturali mobili e abitabili. Stimolare ad usarla, senza inibizioni, è il primo compito di un percorso didattico che ne riconosce il ruolo ed il valore. Ma anche dare visibilità, ove possibile e nei limiti della discrezione, ai prodotti linguistici degli alunni è importante per attribuire centralità al medium interlinguistico: usarli come materiale didattico, cioè come materiale da costruzione di elementi culturali nuovi e condivisi, è un modo immediato per conferire alle creazioni linguistiche degli alunni importanza e considerazione, e fare di questi frammenti narrativi le basi per l’intercultura.

 

 

3.3. QUALE PERCORSO?

 

Se l’interlingua si profila come il codice in cui far parlare una didattica interculturale, il metodo di riferimento e il mezzo espressivo per la costruzione di percorsi operativi attivi e creativi dev’essere di tipo narrativo. Animata da una logica discorsiva e non prescrittiva, la narratività è l’operatore logico più coerente per creare le condizioni in cui “lasciar essere” l’espressività di ognuno, permettere una diffusa presa di parola, descrivere traiettorie all’interno dello spazio linguistico.

Il pensiero narrativo, per il suo coniugarsi più sulla forma del mythos che su quella del logos, spontaneamente segue tracce di evoluzioni e trasformazioni, non rinnega il divenire temporale ma lo asseconda, non si costituisce di punti fermi ma di percorsi. Il racconto apre, più di quanto non concluda, è matrice di infinite variazioni prive di tema fisso, è naturalmente e inevitabilmente creativo. Permette di esprimere e condividere la propria esperienza del mondo attraverso la mediazione dei propri filtri, ma lasciandoli impliciti, non erigendo loro un monumento “culturale” in cui riconoscere il segno della propria identità.

La narrazione fa emergere interferenze e corti circuiti, aspetti “universali” in circostanze estremamente contingenti, lascia spazio alla connotatività e non solo alla denotatività della descrizione e della rappresentazione, tesse una trama (me-tissage) fitta di pieghe, riflessi e zone d’ombra, richiede e stimola interpretazioni, scelte, enfasi, pathos, emotività, sottolineature, parentesi, evocazioni, punti di vista, sorprese, ironia, atmosfera.

La figura dominante dell’universo narrativo è la metafora, veicolo8 di significati che non classifica né riordina i simboli, ma li trasferisce, li porta avanti, vi costruisce percorsi e intrecci nuovi e imprevisti: fa della narrativa un’“errativa”. La metafora, come un mezzo di trasporto che fa incontrare e si incrociare le storie, è il veicolo più adatto per muoversi nell’interlingua narrativa, e il modello cognitivo ideale per stimolare una mitopoiesi dinamica con cui costruire una cultura plurale.

 

 

4. PRATICA DELLA TEORIA

 

Lo scopo dell’istruzione è la fine dell’istruzione, cioè l’invenzione (Serres 1991: 147)

 

L’applicazione operativa di una prospettiva interculturale di orientamento plurale dovrà concentrarsi sul tentativo non solo di “assistere a come gli uomini danno significato all'esperienza (del mondo) raccontandosela e raccontandola” (Demetrio, Favaro 2002: 85), ma anche di creare le condizioni che rendono possibili queste costruzioni di racconti (mitopoiesi), agendo sia sui processi cognitivi sia sui contenuti.

Perchè, declinata nella sua prassi didattica, l’intercultura al plurale davvero non sia un “risultato” dell’incontro di Culture rivolte al passato, ma un “progetto” costruito da persone rivolte al futuro, è necessario sapere mettere in pratica i percorsi narrativi, le sperimentazioni interlinguistiche, gli incroci comunicativi creativi che l’analisi teorica ha evidenziato come aspetti fondamentali di tale prospettiva.

 

 

4.1. CREARE OCCASIONI PER “PRENDERE LA PAROLA”

 

La centralità del soggetto nel processo didattico deve esprimersi attraverso la costruzione di occasioni in cui siano effettivamente possibili, per tutti, gesti creativi di espressione e condivisione di contenuti originali. Questa possibilità si può concretizzare attraverso una “presa di parola” continua e diffusa, che permetta l’emersione delle elaborazioni personali dei temi affrontati, nei loro aspetti linguistici e culturali.

La partecipazione attiva degli alunni all’interno del processo didattico, come presa di autonomia espressiva, dovrà articolarsi in due direzioni: rispetto al contesto della classe, e rispetto agli schemi dell’appartenenza culturale cui ognuno è soggetto.

Per stimolare l’intervento attivo e creativo in classe è necessario fin dal principio promuovere interazioni orizzontali, escogitare meccanismi di abbassamento dei filtri affettivi, creare un clima positivo di scambio attraverso l’ironia e l’autoironia, il decentramento, la cooperazione.

Costruire occasioni di sviluppo di posizioni originali, autonome o critiche rispetto all’eredità culturale di ogni alunno è un intervento più delicato e complesso, poiché tocca intime questioni identitarie, oltre a richiedere notevoli sforzi di astrazione. Proponendo testi significativi, suggerendo temi “sensibili”, evidenziando elementi originali, è possibile cercare gli interstizi tra la Cultura e le diverse reinterpretazioni personali, figlie di intrecci di esperienze contingenti e plurali. Inserendosi in questo margine si può tentare di avviare confronti, prese di distanza critica, spazi di riflessione in cui, veramente, si possa “prendere la parola”.

 

 

4.2. COSTRUIRE UN AMBIENTE DI INTERAZIONE E CONFRONTO

 

La base di ogni intercultura, comunque intesa, è la relazione, lo scambio, il confronto continuo che va promosso muovendosi in diverse direzioni:

 

  • Proponendo input di interesse generale e collettivo, su cui si possa facilmente produrre pensieri; argomenti che riguardino tutti, che si possano affrontare da diverse angolazioni, che siano coniugati al presente (o al futuro) e non al passato, creano zone di empatia e immedesimazione, terreni di incontro e di scontro trasversali, momenti di sintonia o discordanza.

  • Selezionando e presentando temi che facciano emergere i diversi punti di vista degli alunni come diversi occhi che colgono, interpretano, valutano le informazioni, in seguito le confrontano e infine, raccontando, inventano, agiscono, trasformano, grazie alla sovrapposizione delle diverse sub-culture che implicitamente o esplicitamente emergono dall’incontro delle prospettive. Gli alunni possono così scoprire il loro ruolo fondamentale di interpreti ed elaboratori di messaggi, e l’importanza dell’apporto altrui per il successo di questa operazione poietica.

  • Fornendo spunti che fungano da specchi per riflettere su di sé, le proprie origini, le appartenenze, le influenze, i preconcetti, gli stereotipi, le semplificazioni, esplicitandone se possibile la genealogia e ridimensionandone l’effetto attraverso un confronto il più possibile distante e ironico. Presentare un’italianità non stereotipata, ma anche giocare con i pregiudizi di tutti e su tutti, sviluppa uno sguardo riflesso nelle sfaccettature degli sguardi altrui, dunque più consapevole, approfondito, costruttivo.

  • Tracciando piani che attraversino trasversalmente le appartenenze culturali e identitarie del gruppo classe, sottolineando (attraverso la proposta di temi ma anche la divisione in gruppi) le differenze transculturali, ma anche privilegiando gli aspetti su cui è più facile trovare “universali” culturali, punti di contatto comuni a diverse culture. Le differenze di età, o di genere, possono essere parametri interessanti per forzare i limiti dei gruppi, creare nuove classi di appartenenza transculturale, cambiare la geografia delle differenze (e delle divergenze) interne. Nello stesso tempo, però, la transculturalità può essere scoperta anche tramite la ricerca e l’esplicitazione di nessi e convergenze tra diverse prospettive culturali. Insistere su elementi narrativi, simbolici o emotivi può far scoprire legami e sovrapposizioni inattese, zone di prossimità capaci a loro volta di aprire nuovi spazi di confronto e approssimazione.

 

 

4.3. CREARE UN CONTESTO ATTIVO E CREATIVO

 

Intendere l’intercultura come un progetto, di cui la didattica della lingua è parte integrante e strumento fondamentale, impone di dare il giusto peso ai processi creativi, all’inventiva personale, ad ogni elemento in grado di imporre una dinamica attiva e interattiva, a qualsiasi livello di competenza linguistica.

È fondamentale quindi considerare ogni testo come la possibile matrice di una creazione (individuale, in piccoli gruppi, collettiva) intesa innanzitutto come ricezione attiva, e declinata successivamente come selezione, elaborazione, interpretazione, invenzione, evidenziando i diversi passaggi. Si tratta di creare, gradualmente e con equilibrio, campi d’azione espressiva, microcontesti di creatività cognitiva, percorsi (o interi curricoli) di sperimentazione.

Una modalità per affrontare la lingua come campo d’azione è sottolinearne l’aspetto performativo, nel senso indicato da Austin (in Come fare cose con le parole); secondo Austin, dire è anche fare (fare cose con le parole), compiere azioni dall’esito incerto, felici o infelici, ovvero efficaci o meno nel manifestare le intenzioni del parlante e produrre un effetto: dire è compiere un atto non solo locutorio (pronunciare delle parole che hanno un senso e un riferimento), ma anche illocutorio (perché ogni dire è un dire in situazione, e risponde a delle precise convenzioni linguistiche) e perlocutorio (perché produce un effetto, o almeno lo cerca).

La performatività è un aspetto di tutti gli atti linguistici: raramente il soggetto, protagonista della scena comunicativa, formula un atto locutorio per limitarsi ad asserire un’informazione sul mondo, piuttosto lo fa per suggerire qualcosa, convincere qualcuno, manifestare un’intenzione o un umore, insomma compiere un’azione.

La didattica comunicativa si configura di per sé come una didattica performativa: maneggiare una lingua è, alla base, un saper fare cose con le parole. Nella più elementare delle ipotesi questo saper fare è, semplicemente, comunicare; d’altra parte comunicare è, di volta in volta, compiere determinate azioni specifiche, in accordo con il contesto, i propri fini, gli interlocutori, e altre contingenze.

Dal punto di vista interculturale, concentrarsi sul livello performativo del linguaggio si rivela particolarmente interessante, dal momento che esso coinvolge la dimensione del contesto, delle diverse convenzioni che indirizzano la comunicazione, del rapporto tra il piano denotativo e il piano connotativo: l’efficacia (la felicità, come la definisce Austin) di un messaggio è un’alchimia delicata, risultato di una complessa composizione di fattori (anche culturali) che possono raggiungere un equilibrio se sottoposti a confronti, compromessi, negoziazioni.

 

5. CONCLUSIONE

 

La necessità di trovare sbocchi operativi originali per costruire intercultura non impone direzioni obbligate: per proporre una didattica di approccio comunicativo, costruita su modalità narrative e concentrata nello sforzo di creare possibilità creative in interlingua è necessario anzi sperimentare strategie differenti, attente al contesto e ai bisogni della classe, capaci di adattarsi, trasformarsi e rimettersi in discussione continuamente.

Alcune di queste sperimentazioni hanno trovato una dimensione pratica9, con risultati a volte deludenti, spesso sorprendenti, mai definitivi. Al contrario, lungi dall’individuare modalità fisse, hanno suggerito sempre nuove direzioni, mostrando la necessità di tenere tutte le strade aperte: l’intercultura è la nostra cultura che cambia, quindi è tutta da percorrere.

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

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1 Ente è inteso in senso ontico, come participio presente di esse latino: essente, esistente; se l’essere (all’infinito) evoca una dimensione atemporale e statica, l’ente in quanto participio presente richiama il mutamento, l’ambiguità connessa al “partecipante di due nature”. Cfr: Devoto-Oli, Dizionario della lingua italiana.

2 Aime (2004 : 57)

3 La pluralità e complessità interna ad ogni universo di senso, facilmente riscontrabile quando ci si rivolge sulla propria collettività (“l’occidente”, in senso lato), è sistematicamente sottovalutata o addirittura negata dallo sguardo culturalista quando si posa su società “lontane”, di per sé immutabili, compatte e chiuse nei limiti del loro “provincialismo cosmico” (Aime 2004: 56).

4 Naturalmente, come ricorda Aime, sono i più forti a decidere quali sono i tratti culturali degni di rilievo, quali sono le culture degne di essere considerate tali, e quali sono i loro confini. (Aime 2004: 60)

5 Martine Abdallah-Pretceille (1999: 52).

6 Meticcio è inteso nell’accezione suggerita da Laplantine (cfr. F. Laplantine, Identità e métissage): non, come suggerisce l’origine naturalistica del termine, come il risultato del mescolamento e dell’imbastardimento di elementi puri, che componendosi perderebbero la loro autenticità, ma come il segno della costitutiva pluralità e dinamicità di ogni cosa: divincolandosi da una dialettica che oppone un’omogeneità originaria fittizia a un’eterogeneità spuria e compromessa, il pensiero meticcio propone quindi delle “metamorfosi mutualmente feconde tra appartenenza identitarie” in grado di riconoscere la pluralità intrinseca dell’essere nel divenire. Il pensiero meticcio si concentra nel valorizzare il mutamento, la creazione e continua produzione di elementi nuovi dalle ceneri dei precedenti, il “bricolage senza fine” degli esseri umani con i materiali simbolici e culturali di cui dispongono, in aperta antitesi con l’“autismo” della purezza identitaria, del ricorso alle radici, del differenzialismo culturale.

7 Cfr. M. Serres, Le Tiers Instruit, ove si suggerisce un collegamento tra lieu (luogo) e mi-lieu (ambiente, ma anche “luogo di mezzo”), ambito “né posto né opposto, ma esposto”.

8 Curiosamente, nella Grecia moderna metaphorài sono i furgoni usati per i traslochi.

9 In particolare nel corso degli anni scolastici 2008/09 e 2009/10, in una classe di livello A2-B1 della scuola serale di italiano L2 per adulti immigrati dell’associazione Cittadini del Mondo di Sesto Calende (VA).

 

 

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