Aprile 2007  Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792
Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni
Motivazione come autoregolazione. A colloquio con Jesús Alonso Tapia di Paolo Torresan

ABSTRACT

Jesús Alonso Tapia, titolare della cattedra di Psicologia presso l’Università Autonoma di Madrid, è una tra le figure che maggiormente si sono impegnate, in ambito europeo, ad approfondire il tema della motivazione scolastica. A coronare tale impegno il Ministero della Pubblica Istruzione spagnolo gli ha conferito nel 1997 il primo premio per la ricerca in ambito educativo.

Una sintesi dei suoi studi la si può leggere nel testo recentemente uscito: “Motivar en la escuela, motivar en la famiglia” (Morata, Madrid 2005).

Parte di queste riflessioni sono presenti nell’intervista che ci ha concesso l’aprile dell’anno scorso.

Il nodo concettuale di maggiore rilevo pare essere costituito dalla stretta relazione tra autoregolazione e motivazione. Come leggeremo nell’intervista, l’autoregolazione è, in ambito scolastico, la capacità di mantenere viva, costante, l’energia che ci spinge a impegnarci nello studio di una materia, che tiene desta insomma la motivazione.

L’autoregolazione ha a che fare con aspetti cognitivi e emotivi, strettamente collegati: se io dispongo di strategie che mi permettono di superare un problema, mi sento competente, se mi sento competente mi risulta più facile applicarmi. L’autoregolazione è necessaria anche là dove la motivazione sia per così dire eccessiva, come nel caso dell’alunno che comincia mille attività o e non riesce a finirne nemmeno una; in questa circostanza, regolarsi significa inibire la spinta eccessiva e concentrarsi su una sola attività.

L’autoregolazione è, perciò, l’anello che mette a contatto il sapere (la materia) con il sentire (la motivazione), e ha come conseguenza, dicevamo, che l’alunno “senta” (come importante) ciò che sa.

L’aspetto più interessante della questione, per un insegnante, è che lo studente può essere allenato ad autoregolarsi: la condotta dell’insegnante può cioè incidere sull’acquisizione di attitudini che permettono di affrontare l’apprendimento con serenità, attraverso la definizione di tappe intermedie, di percorsi guidati e di strategie utili a governare l’ansia.

 

L’INTERVISTA

 

Gentile Prof. Tapia, “motivazione” e “autoregolazione” sono due parole che ricorrono spesso nei testi di pedagogia. Ce ne può dare una breve illustrazione?

 

Il termine “motivazione” è sinonimo, nel linguaggio comune, di sforzo, e descrive una proprietà del nostro comportamento. Si tratta di un comportamento caratterizzato da impegno, dal fatto di spendere tempo, di concentrarsi, di ritornare più volte sull’attività al fine di raggiungere un obiettivo, il quale assume ai nostri occhi un certo valore.

Il termine “autoregolazione” si usa invece per descrivere le attività, i meccanismi e le strategie mediante le quali una persona dirige la propria condotta. Facciamo un esempio: se io, studente, a casa, devo ripassare tre materie, regolo il mio impegno nella misura in cui mi faccio delle domande del tipo: quanto tempo dedico a ciascuna materia? Cosa mi viene effettivamente richiesto? Quali sono i passi che devo seguire? Quali le strategie che posso utilizzare? Dove e come posso attingere a fonti di informazione?

Va precisato che ci sono diversi modi di regolarsi: alcuni sono più efficaci di altri. Il fatto di adottare un modo non efficace, che non mi permette cioè di raggiungere gli obiettivi prefissi, comporta una demotivazione.

Per esempio, se io, studente, nel tentativo di autoregolarmi nello svolgimento di un compito, non rispondo o rispondo inadeguatamente a uno dei quesiti a cui prima accennavamo, non avanzo nello studio e alla fine mi demotivo.

è quindi molto importante insegnare all’alunno ad autoregolarsi, in modo che impari e, sperimentando i propri progressi, mantenga alto l’interesse e il coinvolgimento iniziali.

 

Tornando alla questione specifica della motivazione, quali sono le variabili più significative che la determinano?

 

La motivazione, ovvero il fatto che io investa una certa energia per raggiungere un obiettivo, dipende sia da fattori personali, interni all’individuo, che da fattori contestuali, esterni all’individuo.

Per quanto riguarda i primi, una persona si sforza tanto più quanto:

 

  1. sa ciò che vuole ottenere (ha quindi chiaro l’obiettivo);

 

  1. sa quali sono i benefici che derivano dal raggiungere quel certo obiettivo (benefici che possono essere intrinseci -per esempio, sapere una lingua per il puro interesse personale-, o e estrinseci –se so parlare una lingua, posso ambire a un certo posto di lavoro) e i relativi costi

 

  1. sa autoregolarsi. Nel contesto scolastico, si è soliti pensare che gli alunni non imparino per il fatto che non si impegnano, e che non si impegnino per il fatto che non sono motivati. Quello che in realtà succede spesso è il contrario: gli alunni si sforzano ma, loro malgrado, non apprendono e si demotivano. Un esempio: gli alunni sono attenti durante una spiegazione (l’attenzione è un indicatore dello sforzo), però certe cose sfuggono e non osano fare domande all’insegnante, si distraggono, rimangono indietro, e a lungo andare perdono l’interesse per la materia.

 

Passiamo agli elementi che sono legati al contesto.

Poniamo che io voglia apprendere italiano per il puro piacere di impararlo, che abbia aspettative di riuscita, data la somiglianza con lo spagnolo, e che abbia alle spalle una serie di esperienze di apprendimento delle lingue particolarmente positive. Può capitare però che la mia motivazione venga meno a causa del fatto che il professore introduca i vari aspetti della lingua, senza che io, studente, ne colga l’utilità (per esempio, introduce lo stile indiretto attraverso una serie di aride definizioni grammaticali, senza alcuna situazione pragmatica, che mi farebbe invece sperimentare l’utilità della forma). O può capitare che io sia costretto a svolgere certi esercizi senza che mi siano fornire delle piste, delle guide, degli schemi, dei modelli.

O può capitare che il professore non mi corregga o mi corregga male, con un giudizio piuttosto generale, del tipo “non fai attenzione” o “non ti applichi”, mentre magari con altri è molto più preciso e dettagliato.

 

Chiaramente entrano in gioco anche fattori non verbali..

 

Ovvio: la comunicazione non verbale trasmette messaggi che possono contraddire quella verbale. Immaginiamo che un alunno mi faccia una domanda e io risponda; “sì, lo vediamo dopo”, però, nel dire questo, alzo gli occhi al cielo con un’espressione del tipo “ma che razza di domanda è?”, è chiaro che l’alunno percepisce il fatto di aver chiesto qualcosa di non gradito e la seconda volta non oserà più.

Certo, la comunicazione non verbale influisce, però non tanto quanto quei fattori cui accennavamo in precedenza, che sono più incisivi nello strutturare la motivazione: informare l’alunno sull’utilità del compito da un lato e aiutarlo a regolare il proprio lavoro dall’altro.

Penso, a proposito dell’autoregolazione, all’insegnamento universitario in Spagna. Il professore di solito spiega e non dà alcun lavoro da fare allo studente; si aspetta che lo studente lavori per conto suo. Sarebbe meglio che il professore si chiedesse invece: che tipo di attività posso fargli fare che lo costringa a impegnarsi periodicamente? Ciò permetterebbe all’insegnante di fornire un feedback continuo agli studenti, e tale feedback inciderebbe positivamente sulla motivazione

 

Questo, se non intendo male, comporta diluire la valutazione durante tutto l’arco del corso, limitando il peso della valutazione finale.

 

Certo, la valutazione finale dovrebbe avere il valore di sintesi, di recupero, non essere il momento in cui uno si gioca il tutto per tutto.

A volte gli insegnanti assumono un comportamento inadeguato, quando somministrano più prove e si limitano alla fine a stilare una media dei risultati. Il problema, in questo caso, è che, se un alunno ottiene risultati deludenti alle prime prove, le sue aspettative si abbassano e facilmente si demotiva. Se, al contrario, si potesse fare in modo che ci fosse un raffronto con la valutazione precedente, dando l’opportunità all’alunno di percepire se è andato migliorando o meno, sarebbe più facile che lo sforzo si possa mantenere.

 

Come può l’insegnante aiutare lo studente ad autoregolarsi emozionalmente? Lo studente può rendere meno di quello che sa perché in sede di esame non riesce a governare l’ansia.

 

Certo, è facile che lo studente, mentre svolge un compito a casa o in classe, di fronte alla difficoltà si trovi a pensare: “non ne vengo fuori” e l’emozione negativa che questo pensiero scatena rende difficile la capacità di attenzione.

A monte quello che l’insegnante può fare è allenare gli studenti a strategie di controllo.

Mi immagino il caso di una insegnante di inglese che, nell’esporre la classe a un ascolto, invitava gli studenti a cogliere, ad un primo ascolto, solo l’argomento; ad un secondo ascolto, gli chiedeva di focalizzare l’attenzione sul ruolo dei personaggi, e così via. In questo caso il docente ha insegnato l’importanza strategica di stabilire delle mete intermedie.

Molto importante è anche l’atteggiamento che l’insegnante assume di fronte agli errori; se, invece di censurare, aiuta lo studente a pensare, gli insegna a vivere l’apprendimento con maggiore serenità e autonomia.

 

In riferimento al tema della correzione dell’errore mi viene in mente una reazione tipica di sconforto dell’alunno quando riceve il tema di lingua tutto sottolineato in rosso e può capitare che borbotti “questa lingua non la imparerò mai”. Non potrebbe risultare più efficace che l’insegnante sottolinei solo una certa categoria di errori (per esempio: i verbi), così che l’attenzione dello studente si concentri su di essa, e casomai, una seconda volta, ritorni sul testo consideri un altro aspetto (per esempio: i pronomi)?

 

Sì, può funzionare; attenzione però al problema che insorge quanto l’alunno crede che sia corretto quello che non gli è stato corretto.

In ogni caso, il concetto di una correzione focalizzata mi pare buono.

Un esempio mi viene dalla didattica della lingua materna. Un insegnante di spagnolo che conosco insegna ai suoi studenti a comporre un testo facendo attenzione di volta in volta agli aspetti che lo caratterizzano: l’argomento, il destinatario, la coerenza, la coesione, ecc. Nel momento della correzione, oltre agli errori di ortografia, gli studenti vengono invitati a considerare il particolare aspetto specifico a cui gli era richiesto di fare attenzione in sede di stesura. Per esempio, se si analizza l’efficacia persuasiva di un testo argomentativo, ogni alunno è chiamato a chiedersi se il testo prodotto convince o meno, e pertanto se è opportuno apportare delle modiche al contenuto o alla forma.

In questo modo di procedere si stabiliscono dei passi da seguire e si valuta se e come lo studente li ha raggiunti. è importante che il feedback sia opportuno, sufficiente e soprattutto regolare: se, durante l’anno scolastico, non c’è, infatti, un’esperienza continua di progresso, l’impulso iniziale viene meno.

 

C’è da aggiungere, in ogni caso, che la motivazione dell’insegnante appare come una variabile che dipende, in parte, dalla motivazione degli studenti. Penso al caso di una mia collega che insegna italiano negli Stati Uniti e che si trova scoraggiata poiché molti studenti che frequentano il suo corso lo fanno solo perché spinti dai genitori…

 

Beh, è chiaro che se l’alunno non percepisce l’utilità di quello che sta imparando, la motivazione ne risente.

Un compito, infatti, può essere sentito come proprio purché lo si riconosca come importante per sé, anche se magari all’inizio si è costretti a farlo.

Faccio un esempio personale. I miei figli a un certo punto non desideravano più seguire dei corsi di inglese extrascolastici. Però, per fagli cambiare idea bastò sfogliare con loro il giornale, alla pagina delle offerte di lavoro, chiedergli quali fossero i lavori che avrebbero voluto fare un giorno, e vedere come spesso la conoscenza dell’inglese fosse un prerequisito.

Insomma, è chiaro che, se un ragazzo non percepisce l’utilità di studiare una lingua, inglese o italiano che sia, e oltretutto si vede costretto, in lui si genera una reazione di ostilità non solo rispetto alla lingua ma rispetto ai genitori, perché percepisce la cosa come ingiusta. Quello che si potrebbe fare è appunto creare le condizioni affinché una qualche utilità sia percepita: un viaggio nel paese straniero, il contatto con coetanei che parlano la lingua che si studia e quindi la necessità di comunicare in quella lingua, ecc.

 

Tornando alla questione della demotivazione del professore, mi viene da sottolineare che nel caso dell’insegnante di lingue è una realtà che si verifica molto facilmente: alla fin fine ripetere le stesse routine linguistiche anno dopo anno sfinisce…

 

Sì, in generale il fatto di fare sempre la stessa cosa, stanca. Va però ricordato che la motivazione degli insegnanti si appoggia sugli stessi elementi che abbiamo riconosciuto costituire la motivazione degli studenti. Come insegnanti siamo motivati quando ci è chiaro l’obiettivo didattico di una lezione, ne percepiamo l’utilità (raggiungere un tale obiettivo, porta ad accrescere la mia competenza di insegnante e di educatore) e quando ci sappiamo autoregolare, ovvero siamo capaci di uno spirito costruttivo e strategico.

In particolare, l’autoregolazione significa che, se una lezione non mi riesce, anziché scoraggiarmi, mi chiedo come posso migliorare le prossime, alla luce di quest’esperienza negativa. Ricordo le mie prime lezioni universitarie, di cui ora non potrei dirmi soddisfatto: ero sempre con gli appunti in mano, preoccupato di cosa dovevo dire, poi pian piano ho avvertito la necessità di chiarire come dire quello che dovevo insegnare, e oggi non è prioritario né il cosa né il come, ma il cercare di fare in modo che gli studenti elaborino il valore e il significato di quello che io gli racconto.

Questa sfida, secondo me, non ha fine, dato che l’insegnante si trova di fronte alunni diversi; il contesto cambia, la cultura cambia e una classe non è mai uguale a una precedente.

 

CONCLUSIONI

Siamo certi che l’intervista a Tapia risvegli la curiosità dei lettori e alcune sue osservazioni richiamino alla mente esperienze vissute.

Se è vero che la motivazione è un fattore che si può direttamente regolare, è lavorando sulle variabili che la determinano che si gioca gran parte del nostro intervento formativo, in qualità di insegnanti; quasi a eco della celebre frase di Von Humboldt: “Non si tratta di insegnare le lingue, ma di creare le condizioni affinché vengano apprese”. 

Laboratorio Itals newsletter

Iscriviti per essere notificato quando é disponibile un nuovo numero del Bollettino ITALS

Abbonamento a Laboratorio Itals newsletter feed

Contatti

Per informazioni contattaci ai seguenti recapiti


Per informazioni sui Master: