Novembre 2008  Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792
Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni
La scuola italiana e le culture altre: contraddizione e speranze. A colloquio con Stefano Allievi di Barbara D'Annunzio, Paolo Torresan

ABSTRACT

Stefano Allievi (Università di Padova), esperto di Islam, ci introduce, attraverso questa intervista ad esplorare e a tentare di sciogliere alcuni nodi apparentemente semplici dell’interculturalità.
La sua
produzione scientifica è assai vasta, tra cui ricordiamo: Islam italiano: viaggio nella seconda religione del paese (Einaudi); Ragioni senza forza, forze senza ragione: una risposta a Oriana Fallaci (EMI); Islam e Occidente: le trappole dell’immaginario (Forum).
L’intervista ci è stata rilasciata nel mese di maggio 2007.

 

 

L’INTERVISTA

 

(D) Gentile Prof. Allievi, esiste una via italiana all’interculturalità?

 

Non saprei dire se esiste una via italiana all’interculturalità.

Per quindici anni di significativa presenza dei migranti (dalla seconda metà degli anni Ottanta in avanti) non c’è stata alcuna via, o se c’era una via all’italiana, era a tarallucci e vino: priva di strategie e di riflessioni previe; quando si è posto il problema, tardivamente rispetto ad altri paesi europei, si son prese delle iniziative assolutamente casuali, non coordinate, non programmate, non studiate, e spesso, di conseguenza, mal gestite.

Successivamente, si è assistito, più che al costituirsi di una via, all’attivarsi, con buona volontà e qualche volta anche con qualche risultato significativo, di tentativi pragmatici di lavorare a livello locale, di singolo istituto.

Di fatto, il nostro paese, anche a livello legislativo, non ha ancora una politica sull’integrazione degli immigrati. Ha avuto per molti anni una non politica. Tuttavia, come diceva qualcuno, un vuoto di politica non esiste, è sempre riempito da qualche cosa e di solito è la politica del vuoto, che purtroppo ci ha guidati per lunghi anni, sia a destra che a sinistra, senza sostanziali differenze. O perlomeno, benché si siano registrate delle differenze di impostazione (nel mondo cattolico e progressista si facevano più iniziative in favore di, mentre il centro destra tendeva semmai a farle contro), di fatto né nell’uno né nell’altro caso si sono dimostrate capacità organizzative: non una politica, non un’analisi dei costi e dei benefici, non una valutazione dei risultati.

Così, oggi assistiamo ad un salto legislativo gigantesco, senza alcuna gradualità, col passaggio da un governo di centro destra che ha fatto una pessima legge sull’immigrazione –che è la Bossi-Fini, che tutto faceva tranne che favorire l’integrazione (con il legame strettissimo tra lavoro e permesso di soggiorno, che di fatto produceva ulteriore irregolarità)– alla politica di segno opposto del governo di centro sinistra attuale.

Insomma, si è passati da una legge, non dico restrittiva, ma non applicata sulla cittadinanza (per cui l’Italia concedeva pochissime cittadinanze), al fatto che ora la cittadinanza è rilasciata dopo cinque anni di presenza; così come si è passati da un legame diretto tra lavoro e soggiorno al permesso di soggiorno per ricerca di lavoro (che non esiste da nessuna parte). In entrambi i casi possiamo parlare di salti ideologici, non certo pragmatici.

E questo si riflette anche sulla scuola. La Commissione Intercultura, fondata dal governo di centro sinistra, mai riunita durante il governo di centro destra, è stata riattivata dall’attuale governo di centro sinistra, ma non sappiamo che cosa faccia e se faccia qualcosa.

 

(T) Insomma se c’è qualcosa che si muove, è a livello locale…

 

Sì, anche se le buone iniziative non vengono né valorizzate né proposte come modelli.

Va detto che è comunque bene procedere in maniera pragmatica, per tentativi ed errori, per sperimentazioni. Questi tentativi, certo, ci sono –alcuni sono figli non solo di buona volontà ma di intelligenza, di saggezza, di cultura– però non vengono né proposti né valorizzati, perlomeno questa è la mia sensazione.

 

(T). è un peccato, in effetti, che esperienze significative si perdano; tenuto conto che l’intercultura a scuola è ancora una dimensione carica di ingenuità. Penso agli insegnanti secondo i quali intercultura significa far emergere le differenze del nuovo arrivato, senza rendersi conto che il suo bisogno psicologico primario è quello dell’integrazione e dell’assimilazione col gruppo dei pari…

 

Esatto.

Tra l’altro esperienze di insegnanti bravissimi che lavorano da anni con pochi mezzi non vengono valorizzate, e si chiamano invece come esperti coloro che sono pseudoesperti o che di mestiere fanno gli esperti –magari il docente universitario che sì insegna, ma che di intercultura non ha esperienza e che di fatto ripete un quadro teorico, magari utile, ma privo di effetti pratici.

La scuola, va detto, ha lavorato: è l’istituzione pubblica che ha lavorato di più, non c’è dubbio. Tuttavia manca la rete, e soprattutto manca la valutazione empirica dell’esperienza: dire se una tal esperienza è riuscita e perché.

Il rischio, di conseguenza, è che si diffonda la chiusura becera, che è molto pratica per gli insegnanti: la chiusura consente di non porsi problemi; chi insegna è sovraccaricato di problemi, e un altro ancora non ha voglia di assumerselo, di rifletterci, di perdere tempo e preferisce piuttosto rifare burocraticamente le cose che ha sempre fatto.

In alternativa, si assiste, a volte, a un’ansia di fare, magari dettata da buone intenzioni, ma buonista nei risultati: la valorizzazione delle culture è fatta, spesso, con i mezzi sbagliati.

Succede, per esempio, che si responsabilizzi anche troppo il bambino, visto come portatore di una supposta differenza. La differenza, in realtà, va sempre analizzata empiricamente; occorre vedere innanzitutto se si dà o meno (dato che spesso non c’è); qualora ci fosse, bisognerebbe vedere se è di tipo culturale o religioso (mentre, nella pratica quotidiana, i due piani vengono spesso confusi, per cui al bambino che viene dal Marocco gli viene chiesto di spiegare cos’è il Ramadan o cos’è il kous kous, come se si trattasse di due realtà sullo stesso piano).

Credo che la responsabilizzazione eccessiva sia sbagliata perché costringe i bambini ad un ruolo che non necessariamente la loro famiglia ha, per esempio quello dei praticanti (di solito al bambino autotocno non viene chiesto di spiegare cos’è l’Eucarestia, il che avrebbe risultati assolutamente esilaranti –lui va a scuola per imparare; ma neanche gli viene chiesto, aggiungiamo, di spiegare qual è la cultura dell’Italia –impresa su cui notoriamente si sono cimentati fior di intellettuali, con risultati altrettanto contradditori, ammesso e non concesso che esista).

Nell’iper-responsabilizzazione del bambino rispetto alla sua identità culturale vedo un errore simile a quello che, a livello più profondo, viene praticato da una certa etnopsichiatria, per cui: “Vieni dal Congo e insieme allo psicologo ti ci metto lo stregone”, ma magari il paziente vive a Parigi da due generazioni, oppure, in Congo, viveva in città!

Viene praticata, a monte, un’operazione di ipostatizzazione delle culture; si rende ‘duro’, qualcosa che per definizione –il concetto di cultura– non lo è.

La cultura è qualcosa che sono, non qualcosa che ho. Nel dibattito ordinario invece, anche tra gli autotocni, si usa il verbo avere –“io ho una cultura”-, come se fosse una cosa concreta, che uno può tirar fuori, come quando apre il portafoglio ed estrae la carta d’identità.

Un altro problema è quello dell’assunzione al di là del lecito del ruolo da parte dell’insegnante. Mi riferisco alle fughe in avanti legate alla simbolica religiosa: arrivano i bambini stranieri, e allora si toglie il crocifisso; ci sono bambini Rom e si sostituisce la parola Gesù con Virtù (ma presumibilmente quei bambini sono Rom cattolici o ortodossi); l’insegnante si interroga se fare o meno il presepe, se fare l’albero di Natale ma non le canzoncine ecc. Si tratta di comportamenti che non sono richiesti dai bambini e nemmeno dalle famiglie. Il bambino marocchino, invece, pur di partecipare alla recita natalizia, magari farebbe pure la parte di Gesù (che del resto è un venerato profeta dell’Islam).

Diciamo che loro semmai ci considerano più cristiani di quello che siamo, non si offendono, danno per scontato che sono usciti dai loro paesi e vivono in un altro contesto; mentre, all’opposto, siamo noi che assumiamo posizioni ridicole.

Ho sostenuto spesso che l’intercultura, o se lo si vuol chiamare multiculturalismo, non funziona mai per sottrazione, probabilmente neanche per addizioni, ma piuttosto per metodi diversi.

Oltre a generare conflitti con l’opinione pubblica interna e strumentalizzazione politica, un atteggiamento di sottrazione (di simboli religiosi), torniamo a ripetere, non è una cosa che viene richiesta…

 

(T). … E se venisse richiesta?

 

Se anche venisse richiesta, si può rispondere di no. La responsabilità che la scuola ha è quella di prestare attenzione alle culture diverse, il che non vuol dire negare le altre; né quelle altrui né la supposta propria.

Salvo pochissimi casi, come quello di Adel Smith, che è un caso clamoroso che ha avuto un chiaro valore pubblicitario ma non è diffuso tra musulmani, quando è avvenuto qualcosa di questo genere non era preceduto da una richiesta né dei bambini né delle famiglie.

Voglio dire, non si tratta di una discussione tra l’Islam e la scuola, ma tra italiani a proposito dell’Islam e della scuola.

Questo va sottolineato perché è una responsabilità che ci si assume, non richiesta, e con risultati non necessariamente utili e positivi, non fosse altro per la ricaduta che questo produce su altri: “Ecco, ci tolgono il presepio!”, “Ecco, vengono qua e vogliono fare i padroni a casa nostra”, ecc.

Invocherei dunque il “principio di non sostituzione”: non anticipare gli attori sociali. In effetti, la sostituzione o l’anticipazione non avviene solo in ambito strettamente didattico, ma anche in altri contesti, come a mensa. Si danno casi di insegnanti che, saputo che il bambino ha un’origine musulmana, avvisano il personale della mensa: “toglietegli il prosciutto”, ma magari la famiglia non è praticante. Io, personalmente, sarei per accettare un certo numero di incidenti cognitivi, diciamo così, che facciano emergere la domanda. Al bambino viene dato il prosciutto una volta e il genitore protesta. È molto più sano.

Nella mia logica, il conflitto tra culture non è mai malvagio; il conflitto è la fisiologia della vita sociale, non è una patologia; se ben gestito, è l’unico modo per evitare la guerra. Non bisogna aver paura del conflitto nemmeno in classe: fa emergere i bisogni, il sentire delle persone, le capacità reattive, le capacità risolutive dei problemi, le leadership. Nel conflitto si impara fin dove si può arrivare, il punto oltre il quale interviene la repressione.

 

(T). Va precisato che comunque il bambino straniero, nel momento in cui si producono questi incidenti cognitivi, parte svantaggiato per il fatto che non possiede lo strumento linguistico… Insomma, io vedo una certa bontà nel fatto che l’insegnante cerchi, se non proprio di anticipare, perlomeno di interpretare i bisogni dello studente straniero.

 

Sono parzialmente d’accordo.

L’osservazione è corretta però è anche vero che la migrazione, specie per le prime generazioni, è una guerra, con le sue ferite, e in cui le cose le impari facendole, incluso la lingua naturalmente, e così la cultura del paese. Voglio dire, la lingua la impari migrando, non certo prima: è molto illusoria l’idea della socializzazione anticipatoria di cui parlavano Alberoni e Baglioni e in cui credevo anch’io anni fa; l’idea secondo la quale la televisione italiana e il turismo concorrerebbero a formare una coscienza linguistica e culturale.

Tornando al discorso di origine, ben venga l’attenzione per le problematiche linguistiche dell’altro, ma è auspicabile che si eviti la sostituzione.

 

(D). Lei parla anche di “principio di sussidiarietà”…

 

Lo possiamo enunciare così: non fare a livello alto, quello che può essere fatto a livello di classe, poi di Istituto, poi di Distretto, di Provveditorato, ecc.

Sono diffidente delle politiche che vengono calate dall’alto. La Commissione Intercultura esiste, ma se anche non produce nulla, non è gravissimo, secondo me; l’importante è che non tarpi le ali, in termini di sperimentazione; che dia delle guide molto generali ma non dica “si fa così”, dato che i modelli hanno una durata brevissima, anche per i teorici ormai.

 

(D). Venendo a strumenti operativi, ci pare che nel contesto di alunni migranti, specie per gli adolescenti, l’approccio narrativo o autobiografico sia in linea con un concetto fluido e dinamico di cultura.

(T). C’è da precisare, del resto, che vuoi per temperamento vuoi per formazione, non tutti gli studenti sono disposti a parlare di sé.

 

Qui abbiamo due ordini di problemi. Da un lato l’approccio narrativo non può che vedermi favorevole; nel senso che lo applicherei a tutti, come forma didattica generale, dato che non siamo più capaci di narrare.

Oltre alla difficoltà psicologica ad esprimersi, che possiamo riscontrare sia tra autotocni che immigrati, un secondo ordine di problemi può riguardare quei ragazzi che sono già stati socializzati nei paesi di origine e sono stati esposti a metodologie più tradizionali, direttive. Penso all’insegnamento del Corano che è, nella maggior parte dei casi, mnemonico: prima si impara a memoria il versetto, poi se ne spiega il significato. È chiaro che nulla vieta allo studente, abituato a una didattica di questo segno, di fare esperienze di un altro genere, ma non drammatizzerei oltremodo su questa non abitudine.

 

(D). Ci pare ci sia un grosso dibattito sul lessico utilizzato per definire le culture. C’è chi parla di cultura di appartenenza, di cultura di origine, di identità che si fonda sull’intersoggettività. C’è una grande confusione, a nostro parere, su questi termini.

 

Non farò nulla per dissiparla!

Posso solo dire che per un sociologo che si occupa di queste cose, l’identità non è più un dato assoluto, ma un processo. Si parla di un processo di identizzazione, che è fatto da un momento di socializzazione, quindi uno di desocializzazione, un altro di risocializzazione, e così all’infinito. Si tratta di un processo che si attua anche a livello amicale; a volte basta che uno traslochi, che cambi di paese, dalla città alla campagna o viceversa.

Allo stesso modo, il concetto di cultura è polisemico, le definizioni sono infinite. Ci sono universali culturali a cui fare riferimento ma bisogna fare attenzione. Nel mio ultimo libro [Le trappole dell’immaginario: Islam e Occidente, edizioni Forum, 2007], preciso appunto che l’Islam non è uno, ma ce ne sono molti –è banale dirlo ma nel dibattito attuale sembra quasi rivoluzionario–, così come l’Occidente non è uno, ma ci sono tanti Occidenti.

Una particolare attenzione va poi data alla linea di demarcazione tra cultura e religione. Si tende, in effetti, a sovrasemantizzare la religione, a proposito dell’Islam e non di altri (quando parliamo, infatti, degli slavi e dei rumeni la religione non la nominiamo mai, come se loro fossero atei, e invece sono ortodossi, magari anche praticanti). Qualsiasi cosa facciano i musulmani, tendiamo ad attribuirla all’aspetto religioso, per esempio: “Non rispettano l’insegnante donna? È perché sono musulmani”, e invece ragionevolmente si tratta di atteggiamenti che possono avere ragioni culturali, e che più in particolare dipendono da contesti sociali specifici (vanno presi in considerazione la classe sociale, il livello di istruzione, il fatto che il soggetto provenga dalla città o dalla campagna, e così via).

 

(T). Un compito dell’educazione interculturale potrebbe essere anche quello di valutare criticamente come vengono utilizzate le parole del quotidiano, soprattutto dai mass media, quando si parla di stranieri?

 

Io non mi aspetto che il corpo insegnante sappia fare questo, perché a sua volta ne è afflitto in prima persona.

C’è un fenomeno che si sta verificando recentemente, se penso all’Islam: il formarsi di identità reattive. Le identità reattive si formano in funzione e contro l’esistenza di qualcun altro, si pensi alla pletora di persone che riscoprono di essere cristiani da quando ci sono i musulmani, o, a loro volta, i musulmani che si chiudono a riccio da quando sono in Europa. La reattività, il fallacismo inteso come approccio culturale è un prodotto che vende molto bene in questo periodo.

 

(T). Mi vengono in mente i telegiornali –uno tra tanti: Studio Aperto– che usano rappresentare lo straniero che compie dei reati a seconda della nazionalità o dell’appartenenza o confessione religiosa.

Se lo stesso principio fosse applicato agli italiani, si proverebbe indignazione per una notizia del tipo: ligure investe i passati, o piemontese valdese rivendica uno spazio per una chiesa.

 

Sì, sono tutti frutti di un fallacismo culturale.

Uso fallacismo culturale per intendere un modo di rapportarsi alle culture e alle civiltà: noi contro loro; noi siamo i buoni, mentre loro i cattivi. Si tratta di una visione che vende benissimo, domina i media, il dibattito intellettuale, il dibattito politico, e ahimé in parte anche quello religioso.

Di fatto, il problema della modernità è che le identità tradizionali stanno andando in crisi. Le strutture di plausibilità, come diceva Berger, sono in crisi, nel senso che vacilla ciò che rende plausibile una identità culturale. Tanti, un’identità culturale non ce l’hanno più, altri ne hanno di diverse; insomma, l’ambiente non rimanda più, in maniera così automatica com’era in passato, il senso dell’identità; di conseguenza, il soggetto è continuamente costretto a ripensare una serie di scelte che una volta dava per scontate. È chiaro allora, che, stando così le cose, chi dà una risposta facile a una domanda difficile ha buon gioco.

Il fallacismo culturale è anche altro: volgarità intellettuale, menzogna diffusa, ecc.; tuttavia, torno a ripetere, è innanzitutto un modo di raccontarsi le cose che agisce da antistress.

Lo scotto da pagare è che tutto ciò esacerba le opinioni, spinge in direzione conflittuale (se l’Islam è uno ed è cattivo, allora non è male fargli la guerra, o comunque odiarlo, o non rispettarlo o non guardarlo neanche negli occhi).

Si tratta di un atteggiamento diffuso, e gli insegnanti sono figli, tanto quanto gli altri cittadini, di questa logica. Quando è uscito il primo articolo di Oriana Fallaci, La rabbia e l’orgoglio, ho avuto notizia di decine di scuole in cui è stato fotocopiato e distribuito a tutti gli studenti: “finalmente la spiegazione di una cosa complessa!

Questo mi avvisa che gli insegnanti sono intrisi di pregiudizi come tutti gli altri, cercano scappatoie facili a problemi difficili, esattamente come tutti gli altri, per cui non mi aspetto che un’operazione critica la facciano loro.

Sarebbe bello che le cose andassero diversamente, certo, ma l’insegnante ideale non esiste: tutti noi ne abbiano incontrati pochi di bravissimi e molti di mediocri.

Semmai si può cercare di fare in modo che la scuola non aumenti e non amplifichi questi problemi. Mi viene da pensare ai libri di testo; è difficile che un musulmano si riconosca nell’immagine dell’Islam presente nei libri di testo. L’insegnante, peraltro, ne sa poco e si fida di quello che dice il libro di testo, il quale a sua volta, titilla, per così dire, le conoscenze previe degli insegnanti, dato che così si facilita la memorizzazione e la condivisione dei contenuti.

 

(T). Insomma possiamo parlare di conflitti latenti…

 

Io sono convinto, dai segnali che si vedono in giro, che non siamo ancora al momento più alto del conflitto. Il che non è particolarmente incoraggiante, è vero, però penso che sia una fase transitoria, come così sempre è stato nei rapporti fra culture, fra religioni. Qualcuno sostiene che nella storia le cose finivano rapidamente con un vincitore e un vinto, in maniera molto netta; io non sono convinto che questo succedesse così spesso in passato, e comunque nella società attuale non è la prospettiva ineluttabile.

I conflitti continueranno fino a che il processo di autotocnizzazione, per così dire, non va avanti, ma ci vuole tempo. Faccio un esempio: in altri paesi, avere un cognome italiano un tempo poteva essere strano ma ora non lo è più. Oggi in Italia avere un cognome arabo fa strano, per cui non sei considerato cittadino, per definizione, anche quando lo sei. Io su questo ho un aneddoto personale. Ho due figli, di un precedente matrimonio di mia moglie, che era sposata con un cittadino italiano, figlio di una persona nata in Francia, che di cognome fa Mohammed. Ai miei figli è capitato che gli venisse chiesto, a scuola, di portare una filastrocca del loro paese. Io e mia moglie gli abbiamo insegnato ti che tacchet i tac, che è una filastrocca milanese, perché sia io che mia moglie siamo milanesi.

 

(D). Come dialogare, come cittadini europei, con comportamenti che paiono contraddire i valori della nostra società, come l’infibulazione? E ancora: esistono valori universali?

 

Cominciamo con il rispondere all’ultima domanda.

Una risposta è: sì, esistono valori universali, ma sono declinati culturalmente. Per esempio, La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo è tutto tranne che un documento universale: è figlia di una cultura e di un momento storico specifico, tanto che oggi verrebbe scritta diversamente, magari aggiungendo più che togliendo (sui diritti della donna, del bambino, dell’animale o quant’altro).

In questo senso una cultura universale non esiste. Il mio aneddoto favorito a tal proposito è un racconto apocrifo (anche se mi piace pensare che sia vero) di quando i conquistadores sono andati tra gli indios con i loro missionari, dicendo: “Siamo venuti a parlarvi di Dio, di religione, di civiltà”, e loro: “Benissimo, cosa volete sapere?”. Questo racconto fa vedere in maniera semplice che la percezione di superiorità è diffusissima, spesso anche all’interno di una stessa cultura.

È anche vero però che riferirsi a dei valori è inevitabile; una società altrimenti non potrebbe funzionare.

In questo senso, pur nella consapevolezza che i valori culturali non sono, appunto, universali, c’è la possibilità di comparare degli indicatori, che possono essere la durata della vita, la forza delle relazioni sociali, dei legami familiari.

Quello che caratterizza l’Occidente è, ad ogni modo, più ancora che il valore, un metodo, nel senso che alcuni valori si sono incarnati in istituzioni, le quali sono il valore aggiunto reale. Mi riferisco alle istituzioni del diritto, per esempio. Il diritto ha alcuni principi fondativi, alcuni valori forti: la legge è uguale per tutti, la responsabilità penale individuale.

Pensiamo allora al caso specifico dell’infibulazione. Precisato che non è un valore per molti dei paesi d’origine (conosco madri che, magari di nascosto, hanno evitato di fare l’infibulazione alle figlie, il che ovviamente fa supporre che ci siano dei dubbi anche all’interno), va dichiarato, molto banalmente, che se la legge è uguale per tutti e la legge vieta questo tipo di pratiche, questo tipo di pratiche in Italia non si fa.

Il rispetto della legge è, insomma, il reale discrimine, non solo per coloro che detestano le culture altre, ma anche per coloro che, in nome di un certo political correctness, sarebbero indotti a dire: “Vabbé, loro c’hanno ‘sta usanza qua, e lasciamogliela”, con un atteggiamento che porta a una medievalizzazione del diritto: ai musulmani il loro, agli ebrei il loro, ecc.

Il rispetto per la legge è, in sostanza, un punto fermo in cui possono trovarsi d’accordo tanto i fautori dello scontro delle civiltà quanto quelli del cosiddetto dialogo (devo dire, per inciso, che non mi piace tanto l’espressione dialogo, la trovo molto irenica. Nel mondo cattolico, sono diffusi libri sul dialogo interreligioso, che poi, a leggerli ci si accorge che sono molto apologetici e, sostanzialmente, antidialogici. Io non mi aspetto dagli attori sociali che dialoghino, a me è sufficiente che si parlino. Infatti nel mondo cattolico faccio notare che molti documenti che in italiano vengono tradotti con dialogo interreligioso –anche documenti del Concilio Vaticano II, del Pontificio Consiglio, ecc.– nell’originale latino riportano la parola colloquium, che è una dimensione più ordinaria, quotidiana –mangiare una pizza, parlare in autobus, ecc.; senza supporre grandi obiettivi).

Il rispetto della legge è l’elemento forte.

Se un sindaco vieta l’erezione di una moschea perché a lui non piace, è lui che non sta rispettando la legge, la nostra Costituzione lo consente. Se qualcuno mi dice che la ragazza non può portare il foulard a scuola, la legge mi dice che invece può.

Il rispetto delle leggi ci tutela anche da un certo progressismo. Mi riferisco alle sentenze che dicono: “Ma sì, ha picchiato la moglie, ma in fondo al suo paese si usa”: che costituiscono un errore profondo, dato che non favoriscono per nulla l’integrazione.

Se quindi parlassimo un po’ meno di valori e un po’ più di leggi, forse paradossalmente potremmo trovarci d’accordo, anche se su posizioni diverse rispetto all’altro in quanto tale.

 

 

CONCLUSIONI

L’intervista è una miniera di spunti e di riflessioni che stimolano l’elaborazione di pratiche interculturali ispirate al senso del colloquium; leggasi: confronto, attenzione, rispetto. 

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