Giugno 2012 | Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792 Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni |
ABSTRACT
Questo articolo nasce dalla necessità di riformulare la percezione dell'identità italiana da parte degli stranieri, in modo da osservare come attore principale lo sguardo degli immigrati sul comportamento degli italiani. Gli elementi di comparazione presenti nell'immaginario degli immigrati intervistati risulta ricco e suggestivo in termini di elementi di analisi sul vivere della comunità autoctona.
1. PRATICHE DISCORSIVE DELLA MINORANZA
“Europei, aprite questo libro, andateci dentro. Dopo qualche passo nella notte vedrete stranieri riuniti attorno ad un fuoco, avvicinatevi, ascoltate: discutono (di voi). Vi vedranno forse, ma continueranno a parlar tra di loro, senza neanche abbassare la voce. Quell’indifferenza colpisce al cuore: i padri, creature dell’ombra, le vostre creature, erano anime morte. Non si rivolgevano se non a voi, e voi non vi prendevate la briga di rispondere a quegli zombies. I figli vi ignorano: un fuoco li rischiara e li riscalda, che non è il vostro. Voi, a rispettosa distanza, vi sentirete furtivi, notturni, agghiacciati: a ciascuno il suo turno; in quelle tenebre da cui spunterà un’altra aurora, gli zombie siete voi” (Fanon 1971)
La citazione di Fanon porta a ribaltare i termini della centralità in quelli della marginalità e della minoranza. Fanon afferma che la conoscenza del popolo dipende dalla scoperta “di una sostanza più fondamentale rinnovata di continuo”, una struttura che non è visibile attraverso i costumi del popolo. Infatti concepire la storia nazionale come storia ripetuta del “vero passato” nazionale ci porta direttamente verso lo stereotipo. L’identificazione culturale è in bilico fra quel che Kristeva (1986) chiama “perdita dell’identità” e quella che Fanon descrive come una profonda “indeterminabilità” culturale. Ciò che ora è in palio è il linguaggio della collettività nazionale e la sua coesione. Né l’omogeneità culturale, né lo spazio orizzontale della nazione possono essere rappresentati in modo autoritario nell’ambito del territorio familiare della sfera pubblica: la causalità sociale non può essere l’effetto deterministico di un centro “statalista”, la narrazione della coesione sociale non può essere rappresentata, per usare le parole di Benedict Anderson (1996), come una “compattezza sociologica” fissata in una successione di plurali: prigioni, ospedali, villaggi, comuni, dove lo spazio sociale è delimitato in modo netto da questi oggetti ripetuti. Tale pluralismo del segno nazionale, in cui la differenza continua ad essere la stessa, è contestato dalla “perdita d’identità” del significante che iscrive la narrazione del popolo, nella scrittura ambivalente della razionalità politica moderna: l’integrazione marginale d’individui in un movimento ripetitivo tra le antinomie di legge ed ordine. È a partire da questo movimento marginale della cultura nazionale, che esce il discorso della minoranza. La sua strategia d’intervento è simile a ciò che nella procedura parlamentare è chiamata questione “complementare”: si tratta di un problema la cui complementarietà è individuata in rapporto a ciò che è scritto sull’ordine del giorno, ma trovandosi “dopo” o “aggiunto” ad esso dà il vantaggio di introdurre un senso di “secondarietà” rispetto alla struttura originale. Inserendosi nei termini del discorso dominante, il complementare si contrappone al potere implicito di generalizzare e produrre “compattezza sociologica”. Il potere della complementarietà non è perciò la negazione di contraddizioni sociali precostituite del passato o del presente; la sua forza risiede nella rinegoziazione di questi tempi, termini e tradizioni mediante le quali alteriamo la nostra incerta ed effimera contemporaneità nei segni della storia. Da qui deduco, che il discorso sulla “perplessità del vivere”, composto da uno spazio della vita umana sempre più irrisorio, che il giudizio sulla vita è esso stesso confuso, che il topos narrativo è per natura un movimento oscillatorio nel dirigere il presente dell’autorità culturale. Il discorso della minorità contesta le genealogie di “origine” che portano a rivendicare la supremazia culturale e la priorità storica, che riconosce lo statuto della cultura nazionale, come uno spazio performativo di contesa della confusione del vivente, nel mezzo di rappresentazioni pedagogiche della pienezza di vita.
2. CREDIAMO DI CONOSCERLI, MA LORO COME CI PERCEPISCONO?
Nel lavoro di Marcella Delle Donne (1993) intitolato Lo Specchio del non Sè vengono ribaltati i termini della centralità a favore della cultura e della società dell’altro.
Gli immigrati di Roma, in questa ricerca saranno portatori di conoscenza e di centralità nella formazione della narrazione sull’identità italiana. Il loro mondo interiore acquista spessore storico in questa ricerca di Delle Donne.
Gli immigrati scelti per questa ricerca sono tutti detentori di una laurea e conoscono bene l’intero territorio nazionale. Il centro d’interesse di questo lavoro sarà rivolto alla percezione che hanno gli immigrati del nostro universo socio-antropologico.
3. ITALIANO: SIMPATICO E INDIFFERENTE
Il lavoro di Delle Donne (1993) inizia con la presentazione di una prima domanda esplicitata in questi termini: Che cosa apprezza degli italiani? Ecco come viene profilato il primo profilo identitario dell'italiano: L’italiano si adatta e s’ingenua di fronte alle difficoltà, non drammatizza, cerca di semplificare le cose senza chiedersi troppi “perché”. La sua natura viene definita come allegra, estroversa, ma anche superficiale, prende facilmente la vita, ama divertirsi; per questo è cordiale, simpatico, disponibile, ma senza impegnarsi troppo. Curioso verso il diverso, ha calorose manifestazioni d’amicizia, ma non devi chiedere, perché nella pratica l’italiano non vuole assumersi responsabilità, non vuol essere coinvolto, né impegnarsi al di fuori di ciò che rientra nella sfera dei propri interessi.
Questa può sembrare la descrizione del romano anche se non doc, certamente differente dal Veneto, ma vorrei citare l'articolo compiuto da Rodanthi Tzanelli (2004) “Orienta(lizz)ando l’Italia”, dove esce fuori che l’Italia è un paese esotico per gli stranieri e a sua volta il Nord per paura di essere meridionalizzato orientalizza il Sud, come luogo stereotipato che non si rivede nell’immagine proiettato dall’altro.
Singolare per certi versi, una parte degli intervistati considera gli italiani poco razzisti, e ciò è rintracciato nel fatto che gli italiani non hanno una percezione del sé, come entità nazionale. Da rilevare che alcuni intervistati considerano il nostro modo di vivere vicino a quello del paese da cui provengono, trovandosi un po’ “come a casa loro”, poiché gli italiani sono poco calcolatori e razionali, e vivono nella confusione.
La seconda domanda posta da Delle Donne intende regalarci una visione più completa del nostro universo socio-antropologico.
La domanda è la seguente: Come giudica il comportamento degli italiani? ( nella vita sociale, nella famiglia, per quanto concerne la donna, il mondo dei giovani, nel lavoro, nella religione).
L’aspetto che subito salta fuori è la mancanza di solidarietà sociale e di partecipazione alla vita collettiva, in breve il poco senso della sfera pubblica. Il comportamento degli italiani nel sociale è caratterizzato dal distacco e dall’indifferenza verso gli obiettivi e gli interessi comuni, unitamente alla volontà di non contribuire a risolverli. In tal senso, l’Italia viene giudicata una società civile monca, dove sono scarse le forme di associazionismo. Al di fuori della politica, ci dicono, la quale porta avanti gli interessi clientelari e non quelli pubblici, ci sono dall’altra parte, gli interessi individuali. Nel sociale prevale la superficialità, sotto la quale si rivela l’egoismo personale e miope, la chiusura di una società dove non c’è spazio per la vita collettiva. Da qui, un sistema socio-politico in cui prevalgono forme di corruzione, di falsità e di diffidenza sia nella società civile che nel governo. Si viene a costituire così una specie di circolo vizioso dove la mancanza di sensibilità e di partecipazione nella sfera pubblica, da parte dei cittadini, genera la poca responsabilità e l’inefficienza della burocrazia e dell’apparato pubblico con effetti di ricaduta per i cittadini. I cittadini, chiusi nei loro interessi personali, hanno un atteggiamento di superiorità e pongono in atto meccanismi di rifiuto nei confronti dell’immigrato. Nei rapporti tra italiani e immigrati, poi c’è la volontà di mantenere separate e distinte le reciproche sfere, anche quando il centro dell’interesse sono gli immigrati. Questo avviene regolarmente nelle associazioni, dove gli “specialisti” dell’altro si guardano bene di riconoscere l’”altro” come un contributo di sé.
4. IL RIFIUTO DELLE RADICI
Un aspetto che suscita sdegno e riprovazione è l’abbandono in cui sono lasciati gli anziani nei rapporti sociali e nella famiglia. Per gli immigrati, provenienti da contesti sociali di tipo comunitario, basato sui valori della qualità e della durata, l’anziano è il testimone e il depositario delle pratiche sociali. Egli ha un ruolo carismatico, è amato e venerato come espressione dell’anima collettiva, occupando una posizione prioritaria nella gerarchia sociale. Ad esempio, molti senegalesi trovano terribile il modo nel quale trattiamo l’anziano, giacché ha consumato la sua vita per la società e la società lo emargina e rimuove il problema. Questo modo di comportarsi verso gli anziani, disturba molti immigrati e provoca distacco e critica alla nostra società, così cinica e orientata all’utile. “Una società che non ha cura per gli anziani, non ha cura di sé, delle sue radici” (Delle Donne 1993).
5. LA FAMIGLIA COME TRAVAGLIO
La famiglia viene vista in Italia sia come agente di socializzazione, in rapporto al contesto sociale, sia come spazio relazionale in rapporto alla variabile psicologica, sia come istituzione. La famiglia viene avvertita dagli immigrati come l’unico luogo prescelto per la socializzazione degli italiani. Di fatto, non può esserlo poiché nucleo ripiegato su se stesso che non comunica con la società civile. Quindi, all’interno di questo gruppo non s’insegnano i valori del vivere insieme e della solidarietà. Al contrario, il rapporto viscerale della madre con i figli, non consente a quest’ultimo di diventare autonomo e responsabile perché viene mantenuto in un spazio di permissivismo e di mancanza d’autonomia. I figli vengono cresciuti sprovveduti e viziati e non rispettano i genitori. La famiglia diventa spesso luogo generatore di nevrosi, di follie e le notizie del telegiornale confermano in pieno queste analisi. Questa visione della famiglia italiana “troppo limitata”, ci richiama l’attenzione della provenienza della maggior parte degli immigrati, i quali vengono da società dove ancora sopravvive, nonostante la modernizzazione e l’urbanizzazione, il modello della famiglia allargata. Questo problema è molto sentito da parte degli immigrati di cultura islamica. In tal senso, il cosiddetto “fondamentalismo islamico”, ci spiegano, è un modo di reagire al dilagare contagioso della cultura occidentale, ed esprime la rinata coscienza politica dell’Islam come sistema di valori autonomi da contrapporre alla forza pervasiva dell’Occidente. L’Islam si colloca come sistema normativo per tutti gli aspetti della vita. Per ciò che riguarda la famiglia, le scelte dei giovani si accordano alla volontà dei membri adulti e le scelte si distinguono in rapporto alla differenza di genere. Così, tra maschio e femmina, mentre il primo ha diritto ad uscire dalla famiglia, crearne una nuova, il destino della donna è gestito dalla famiglia che sceglie per lei il marito (con il suo consenso, in teoria), il quale sarà riconosciuto come capo famiglia, a lui sottomettendosi. In conformità a questi presupposti, l’emancipazione della donna italiana e la libertà come diritto possono essere percepiti come colpe, causa della discordia, dei litigi, della disunione e della fragilità della famiglia.
6. ETICA DEL LAVORO: COS’È?
Secondo molti immigrati, gli italiani cercano di migliorare la loro condizione rinunciando al tempo libero, al fine di accrescere le loro entrate. Tuttavia, il lavoro e il guadagno finiscono per essere l’unico scopo della vita, ignorando l’aspetto sociale e gli obiettivi della collettività. Secondo il punto di vista degli immigrati, il concetto di lavoro come diritto, ossia come mezzo per garantirsi legittimamente un proprio spazio, per realizzarsi come persone, e il concetto di lavoro come dovere, ossia come il modo per contribuire allo sviluppo, all’organizzazione e al buon funzionamento della società, sono in sostanza sconosciuti alla maggior parte degli italiani.
Di fatto i rapporti di lavoro e l’atteggiamento nei confronti del lavoro sono improntati alla mancanza di senso sociale, poca solidarietà, furbizia, opportunismo, menefreghismo, rapporto servo-padrone. Per i lavoratori dello Stato, la lentezza, la negligenza, il disordine, il disinteresse per il proprio lavoro, unita con la volontà di trovare tutte le scappatoie, sono tutti elementi che giocano contro la nostra collettività. Di fatto, spesso la gente cerca il posto, non il lavoro, soprattutto da Roma in giù. D’altra parte non c’è coscienza del lavoro come servizio, come contributo allo sviluppo sociale. Impressionante è stata l’analisi compiuta da un intellettuale iraniano che lavora per l’Università di Pisa: “ Il sistema clientelare e mafioso con il quale si ottiene generalmente il lavoro, determina una situazione medioevale, un rapporto servile, dove il superiore ha un atteggiamento arrogante e il subalterno un atteggiamento di convinta inferiorità. Ne consegue che le rivendicazioni si esprimono in lamentele, o nei rapporti personali e non con denunce sociali, sulla base dei diritti acquisiti.”(Delle Donne, 1993)
Un altro tipo di osservazione viene fuori parlando di quei lavori molto competitivi, iper-specializzati e privi di qualunque protezione sociale. In quest’ambiente, i rapporti sono duri, la mentalità è carrieristica e corporativa in un mondo dove non interessano le persone, ma solo la loro capacità produttiva, la loro efficienza.
Gli immigrati denunciano in pieno il mondo del lavoro, nel quale la situazione di fragilità contrattuale e giuridica dell’immigrato, viene usata dal datore del lavoro per violare le nome sindacali, ottenere maggiore sfruttamento, mettere in atto comportamenti razzisti.
7. RELIGIONE E SOCIETÀ
L’analisi della percezione che gli immigrati hanno del comportamento religioso degli italiani, richiama le relazioni tra individuo e società, tra modi di vita e valori, tra orientamento laico e religioso, tra società civile e religione, tra Stato e Chiesa.
Importante a proposito di questo punto, sarà fare la differenza tra musulmani e cattolici, tra sfera personale e quella sociale. Infatti, i musulmani pongono l’accento sulla funzione educativa della religione, soprattutto per i giovani, la religione parla d’amore, solidarietà, fratellanza, quindi apre la mente e il cuore verso l’altro, e di fronte all’individualismo dilagante, esalta la comunità dei fedeli, l’unione nel rispetto e nell’aiuto reciproco. “L’uomo da solo impazzisce, la religione lo fa vivere con gli altri, dà senso alla vita e quindi, produce sicurezza e fiducia; tutte le religioni parlano d’amore e fratellanza, quindi sono educative. La religione indirizza il popolo a fare del bene e vivere con onestà. Se la religione non funziona, non funziona la società.”(Delle Donne 1993)
Per i cattolici, la religione è la base morale del comportamento individuale verso la famiglia e la società. La religione è un modo di pensare che rinvia alla dimensione ecumenica per questo tutti sono uguali, perché tutti sono fratelli. Le persone intervistate dimostrano apertura, tolleranza, ma ancor più innovativo se vogliamo, quella priorità del principio d’autodeterminazione del soggetto. Nella loro prospettiva, la persona è considerata principio di giudizio, il quale riconosce la presenza di Dio e il ruolo della religione, ma non si annienta in essi.
7.1. RAPPORTO TRA STATO E CHIESA
Quasi tutti gli immigrati sono d’accordo con l’idea che lo Stato deve essere separato dalla Chiesa. Inoltre, molti tra gli intervistati ritengono che di fatto, lo Stato italiano non sia separato dalla Chiesa. Tale separazione rinvia alla priorità della sfera laica e al principio di cittadinanza: “ Il cittadino deve essere salvaguardato nel suo diritto di scegliere, per cui “la religione è un fatto personale, privato, lo Stato è pubblico rappresenta la sfera del diritto. La divisione tra lo Stato e la Chiesa è necessaria per la diversità dei fini e le rispettive libertà.”(Delle Donne 1993). Di grossa suggestione è il giudizio sulla condotta religiosa degli italiani ci dà un quadro penetrante della nostra società. Come si vive la religione, il rapporto con Dio prendono una diversa interpretazione nelle due diverse prospettive: musulmana e cattolica.
La dimensione mistica, il dialogo diretto con Dio, la fede come espressione della vita interiore, la conoscenza e la coerenza con le leggi del Signore sono per i musulmani, il quadro di riferimento attraverso il quale ci guardano, mentre i cattolici sono portati a fare il confronto con il diverso modo che noi abbiamo di vivere la stessa religione. Esistono tuttavia valutazioni comuni in entrambi i gruppi:
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Scarso spessore della dimensione religiosa nella vita della gente che molto spesso si traduce in distacco ed indifferenza.
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Ambiguità e incoerenza tra dichiarazione di fede e pratica di vita
Gli italiani si dichiarano cattolici e non vanno in chiesa, né praticano i principi religiosi, oppure vanno in chiesa, pregano Dio, ma si comportano in modo contrario alle leggi divine. Solo i vecchi sono religiosi e vanno in chiesa, ma perché in generale hanno paura della morte.
Quindi, gli italiani dicono di essere religiosi e/o vanno in chiesa, ma tale comportamento appare suggerito dall’abitudine, dall’ostentazione, da una ritualità formale, oppure da interessi politici e/o utilitaristici in un paese in cui “esiste un miscuglio tra il potere religioso e quello politico”. Alcuni somali intervistati ci dicono che manca agli italiani l’interesse per una cultura e una vita religiosa, non si conosce il contenuto della Bibbia, né quindi sono seguite le regole di profonda saggezza ivi contenute. Per alcuni marocchini, esistono troppi intermediari tra Dio e gli uomini: parroci, frati, suore che da una parte distolgono da una vita interiore vissuta in un rapporto diretto con Dio e dall’altra, legano la Fede ad interessi materiali. La situazione risulta complicata perché esistono interferenze tra religione e politica. Per l’italiano, la religione non è un patrimonio interiore, vive la religione come formalità, essa diventa una cultura mondana, informa di sé, dell’identità politica e civile, perciò gli italiani non sono religiosi, ma non sono atei. Di fatti, si dicono cattolici sia in senso crociano, come memoria storica, immaginario collettivo, ma anche in senso pragmatico, come identità politica, pratica di vita, organizzazione civile. L’ipocrisia, cioè la differenza tra ciò che si professa e ciò che si fa, è il modo di esprimersi dell’italiano medio per il quale l’”abito fa il monaco”. In questa prospettiva, gli italiani avvertono le altre religioni come una doppia minaccia: all’identità e all’integrità culturale da parte di chi è portatore di un messaggio diverso, all’organizzazione politica degli interessi materiali di fronte a chi è portatore di un altro tipo d’organizzazione. Da qui scaturisce, secondo i musulmani intervistati, la chiusura all’Islam e il rifiuto del confronto, che si manifesta nell’intolleranza.
Intolleranza alimentata dall’ignoranza della cultura, della storia, della religione dei paesi da cui provengono gli immigrati. Altri intervistati, ci dicono che l’italiano non avrebbe altra fede che quella nella vita o meglio un laicismo ironico, come atteggiamento di distacco sorridente e irridente, rispetto ad un’istituzione come la Chiesa cattolica, la cui storia parla di “debolezze umane dei suoi capi”, di rituali piuttosto che di credenze, d’interessi mondani che di devozione. Tali differenze, sono sottolineate nel confrontare il modo di praticare la religione tra autoctoni e immigrati di fede cattolica. Per loro, nell’italiano medio manca una dimensione religiosa reale e una sentita partecipazione interiore. La religione dovrebbe essere comunione, qui in Italia è vissuta in modo individuale. Possiamo quasi dire che il rapporto con Dio è superficiale.
8. I VALORI DOMINANTI
Alla domanda: Quali sono le caratteristiche e le istituzioni dominanti nella società italiana?
Le voci che sono saltate fuori sono state le seguenti: al primo posto individualismo, in ordine vengono dopo, consumismo, famiglia, materialismo, lavoro, solidarietà, cultura e religione per finire.
Da questa scala dei valori emerge che i valori spirituali e umani della solidarietà, della religione, della cultura occupano il fanalino di coda in una società dominata dal consumismo, dall’individualismo. Unico valore che resiste, nonostante la crisi di spiritualità, è la famiglia. Per quanto riguarda la cultura, esiste una contraddizione nella società italiana. Nonostante il livello d’istruzione si sia accresciuto enormemente, la conoscenza consiste in un bagaglio d’informazioni superficiali, rivolta al consumo o al massimo alla specializzazione tecnica. Vi è indifferenza verso la letteratura, l’arte, la storia, verso la conoscenza come sapere dell’uomo, soprattutto verso il diverso, l’altro.
8.1. GLI IMMIGRATI CRITICANO LA SOCIETÀ CONSUMISTICA
Partendo dalla domanda: “Vi sono aspetti negativi nella società consumistica?” molti immigrati vogliono distinguere tra consumismo e società dei consumi. Mentre il primo termine ha una connotazione negativa, per alcune donne filippine la società dei consumi è vista come il sistema che ha permesso alle donne di liberarsi dalla schiavitù del lavoro domestico, dalla tutela patriarcale e ha permesso di portare avanti l’emancipazione femminile. Per quanto riguardo il consumismo, gli intervistati mettono a fuoco i pericoli di una società protesa al consumo: cinismo, esteriorità, appiattimento delle differenze, vanità e indifferenza. I musulmani intervistati portano avanti il discorso focalizzando l’attenzione sull’atteggiamento delle persone, le quali hanno l’orientamento all’acquisizione dell’identità attraverso il possesso delle cose e degli oggetti; in una prospettiva rivolta al sé, alla soddisfazione individuale, con un atteggiamento strumentale verso tutto e tutti che si manifesta nella competizione. La conseguenza è la perdita dei valori umani, della propria storia, della propria identità culturale. Ciò comporta, l’emarginazione di chi è l’espressione della nostra storia: gli anziani. Tale società dei consumi spinge all’idea dell’intercambiabilità dei valori e delle persone, quindi alla filosofia dell’”uso e getta”.
La “manipolazione della mente” da parte dei media, induce a una predisposizione all’acquisto fine a se stesso, una tendenza ad identificarsi con soggetti irreali, al prevalere di rapporti finalizzati allo scambio mediato dal consumo, il quale diventa simbologia in quanto modo per conoscersi e per stabilire appartenenze di gruppo. “La società dei consumi”, è tutta protesa e compressa in un tempo presente, cioè il tempo dell’acquisto, non ha progettualità, né futuro. L’obiettivo di questa società è quello del “far soldi”, per questo la dimensione dell’ansia diventa centrale nella nostra vita. La scelta di apparire più che essere, così come l’orientamento al piacere, alla futilità fanno crollare gli interessi per il sociale, il culturale e per la comunità. Così l’egoismo porta a disgregare la famiglia e il materialismo rende inutile l’etica e la solidarietà.
8.2. CITTADINI E IMMIGRATI: DEMOCRAZIA ALL’ "ITALIANA"
Sulla percezione dell’Italia come paese democratico, la ricerca ha riscontrato giudizi negativi, tra i quali: a) democrazia apparente, si fanno le leggi ma non si applicano, non c’è garanzia; b) si è liberi solo di parlare; c) governa e decide solo il 10%; d) discriminazione fra gli stessi italiani tra Nord e Sud e rigetto degli stranieri in una condizione di non esistenza.
Per molti gli italiani sono liberi, ma condizionati. Per capire questa risposta bisogna rifarsi all’idea dello Stato come tutore e garante delle libertà e del cittadino nell’esercizio delle libertà come diritto. Ebbene, per gli intervistati in Italia esiste una libertà a grandi linee, una libertà senza diritto e quindi sempre condizionata. L’italiano è libero di dire quello che pensa, poi il potere fa quello che vuole. Libertà sì, ma libertà apparente. In uno stato che fa leggi precarie, la libertà si traduce spesso in abuso.
Invece, se noi andiamo a discutere su principi universali come quello d’uguaglianza, libertà, fratellanza, vediamo che gli intervistati tendono a dirci che gli italiani sono privi dell’orientamento alla sfera pubblica, così com’è carente un comportamento basato su principi egualitari, intesi come patrimonio collettivo. Vediamo negli atteggiamenti reciproci il principio di libertà viene inteso come liceità, ossia libertà di fare i propri comodi, nell’assoluta indifferenza per gli altri, e l’uguaglianza viene coniugata con opportunismo che si traduce in sfruttamento. In Italia non c’è uguaglianza né fratellanza: per un lombardo, un siciliano non è né uguale, né fratello. La fratellanza e l’uguaglianza si ritrovano soltanto nei casi eccezionali, come durante le calamità naturali. Per ciò che riguarda gli immigrati, questi principi sono praticamente inesistenti. La precarietà della legge, l’arbitrarietà nella sfera pubblica, la mancanza di una società civile consapevole e rispettosa dei diritti-doveri dei cittadini portano ad atteggiamenti individualistici, i quali si traducono davanti ai soggetti meno tutelati come gli immigrati nello sfruttamento da una parte e nel rifiuto della cittadinanza dall’altra parte.
8.3. DA DOVE NASCE LA DIVERSITÀ CULTURALE?
L’analisi della nostra identità osservata dall’altro, ci deve portare a spingere il nostro sguardo verso quella categoria sociale emergente, che può essere ricondotta alla differenza culturale, o meglio ancora, vale a dire scoprire l’arcano momento della differenza culturale.
“Forse accade come le cose troppo famigliari, che ci sfuggono, il livello enunciativo emerge proprio dalla sua vicinanza a noi.” (Foucault 1971)
La differenza culturale non va intesa come libero gioco di pluralità nel tempo vuoto omogeneo della comunità nazionale, per dirla alla B. Anderson. Essa invece fronteggia le discrepanze tra significati e valori che questa varietà e diversità producono e che si associano con la pienezza culturale, rappresentando il processo di interpretazione culturale emerso nella confusione del vivere, nello spazio marginale e scisso della società nazionale. La questione della differenza culturale ci pone dinanzi ad una distribuzione di conoscenze e ha una ridistribuzione di pratiche che esistono l’una accanto all’altro. Annullando le totalità armoniose della cultura, la differenza culturale sviluppa la sua differenza nella rappresentazione della vita sociale senza travalicare lo spazio di significati e giudizi incommensurabili prodotti nel processo di negoziazione transculturale. L’analisi della differenza culturale sposta la posizione d’enunciazione e le relazioni cui ci si riferisce al suo interno, non soltanto ciò che si è detto ma anche il luogo da cui si è detto, non solo la logica della manifestazione ma il topos stesso dell’enunciazione.
L’obiettivo della differenza culturale è di riarticolare la quantità di conoscenze dalla prospettiva della singolarità significante dell’”altro” che si oppone alla totalizzazione, la ripetizione che non si trasforma nell’identico, la mancanza originaria che dà luogo a strategie politiche e discorsive in cui aggiungere a- non significa sommare, ma serve a turbare il calcolo del potere e della conoscenza producendo altri spazi di significazione subalterna. L’identità della differenza culturale non può pertanto esistere autonomamente in rapporto ad un oggetto o ad una pratica “in sé” poiché l’identificazione del soggetto del discorso culturale è dialogica. Essa si realizza attraverso il locus dell’altro suggerendoci che l’oggetto dell’identità è ambivalente e inoltre, fatto più rilevante, che la produzione d’identità non è mai un atto puro o olistico ma è sempre un processo di sostituzione, slittamento o proiezioni. La differenza culturale non rappresenta semplicemente la contesa fra rivendicazioni opposte o l’antagonismo fra tradizioni e valori culturali.
Questa differenza culturale segna il costituirsi di nuove forme di significato e strategie identitarie, attraverso processi di negoziazione in cui nessun’autorità discorsiva può essere fondata senza scoprire la differenza del sé. Quel che si tenta di suggerire è che la misteriosa struttura della differenza culturale è vicina all’interpretazione di Lévi-Strauss (1950) dà dell’inconscio “ in quanto capace di fornire il carattere comune e specifico dei fatti sociali…. non perché racchiude il nostro Io più segreto ma perché… ci pone in coincidenza con forme di attività che sono al tempo stesso nostre ed altrui.”.
La differenza culturale si scova là dove la perdita di significato penetra, come una lama tagliente, nella rappresentazione della pienezza delle esigenze culturali. Non è sufficiente avere una semplice padronanza dei sistemi semiotici che forniscono i segni della cultura e la loro dissemi-nazione: è assai più importante giungere ad interpretare, le tracce di tutti quei diversi discorsi disciplinari e di quelle istituzioni conoscitive che costituiscono le condizioni e i contesti della cultura. Uso la parola “tracce” per inserirsi nell’interdisciplinarietà dei testi culturali, attraverso l’anteriorità del segno arbitrario, significa poter contestualizzare l’emergere di una forma culturale spiegandola nei termini di una qualche causalità pre-discorsiva. La “differenza” di conoscenza culturale che “si aggiunge a “ ma non “ si somma” è nemica dell’implicita generalizzazione conoscitiva o dell’implicita omogeneizzazione esperienziale per impiegare i termini di Lefort (1985), nell’opera Le forme politiche della società moderna. L’interdisciplinarietà, proprio come la pratica discorsiva della differenza culturale, elabora una logica d’intervento e interpretazione simile alla questione della complementarietà. Il soggetto della differenza culturale non è né pluralista né relativista: in altre parole la loro ibridità non deriva dalla mescolanza di identità o essenze precostituite. L’ibridità è la confusione del vivere perché sospende la rappresentazione della pienezza di vita. Per esempio, nella pulsione alla traduzione culturale, i luoghi ibridi di significato aprono una spaccatura nel linguaggio della cultura, e questo significa che il simbolo e il ruolo che gioca nei luoghi culturali non deve nascondere che il segno è differente e differenziale. La differenza culturale si manifesta nella sua vicinanza e non nella sua “visibilità”, o meglio ancora per dirla alla Benjamin (1952), nell’”estraneità dei linguaggi”.
9. CONCLUSIONI
Il lavoro presentato da Marcella Delle Donne rappresenta un punto di partenza per fare ripartire il bisogno d'intersoggettività tra la comunità autoctona e i nuovi cittadini presenti sul territorio. Raccogliere la sfida del dialogo costruttivo con l'altro potrebbe essere un elemento per fare ripartire la società italiana ferma da troppo tempo su se stessa. Il dialogo con gli stranieri potrebbe essere un ponte per fare rilanciare il nostro paese come protagonista culturale sulla nuova scena economica contemporanea.
BIBLIOGRAFIA
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