Aprile 2012 | Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792 Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni |
ABSTRACT
Questo articolo nasce dalla necessità di ri-formulare il volto della nostra identità culturale, in modo da capire le strade da perseguire da parte degli italiani per capire meglio la propria storia.
Al lettore immigrato vengono offerte delle chiavi interpretative per capire in maniera approfondita il contesto storico-culturale italiano. L’intento di questo lavoro è di fare capire che l’identità è un’elaborazione culturale e pertanto dobbiamo iniziare a vedere la nostra identità culturale e nazionale come un fenomeno in divenire, in modo da rendere più fluido e concreto l’approccio all’interculturalità.
“L’intercultura passa attraverso la conoscenza della propria cultura,
la quale è gia “abitata” dal pensiero dell’altro.” (Bonn 1995)
1. IDENTITA' GEO-FISIOLOGICA ITALIANA
Questo articolo prende forma dalla necessità di ri-formulare il volto della nostra identità culturale, in modo da capire le nuove strade da perseguire da parte degli italiani per capire meglio la propria storia, mentre agli immigrati fornisce chiavi d'ingresso per capire meglio il contesto socioculturale italiano. Il nostro intento è di fare capire che l’identità è un’elaborazione culturale e che dobbiamo iniziare a vedere la nostra identità culturale e nazionale come una delle tante, in modo da rendere più fluido e concreto l’approccio con gli stranieri. In effetti, il paesaggio urbano connotato dal fenomeno dell'immigrazione interroga l'Italia e gli Italiani sulle risposte da apportare per rispondere al contesto nuovo che si è venuto a creare nella penisola. Finora, è prevalso il sentimento della paura, causato soprattutto dalla fragilità della nostra identità culturale, religiosa e territoriale. Per ora si è privilegiato il tentativo di aggrapparsi a delle presunte identità rigide, causando dall’altra parte anche per chi è cosciente della propria migrazione, come momento di ridefinizione dell’identità o di identità in movimento, una necessaria chiusura nei propri modelli culturali.
All'interno di questa cornice di riferimento intendiamo compiere il cammino a ritroso tipico dello storico per iniziare a ricostruire e ritrovare le tracce della nostra identità universalistica, risultato delle sue radici nella cultura latina, cristiana e rinascimentale, le quali stanno alla base del nostro retaggio culturale e alle fondamenta di una cultura innatamente interculturale.
In consonanza con Galli Della Loggia (1998), possiamo sostenere che dalle coltivazioni alimentari al lessico, dalle forme architettoniche agli usi quotidiani, l’Italia ha ottenuto dalla sua singolare posizione geografica una vastissima molteplicità di apporti, godendo delle più varie forme di civilizzazioni provenienti dall’emisfero settentrionale, alla Grecia classica, bizantina, al mondo arabo-islamico. Questa pluralità di culture è stata secondo Della Loggia (1998) una delle ragioni dell’arrivo in Italia per primo del cristianesimo. Poi, con lo sviluppo industriale fu la vicinanza delle regioni italiane del nord ad alcuni epicentri di quello sviluppo e ai suoi mercati, si pensi alla Francia, Belgio o all’importanza di un mercato come Lione per la bachicoltura lombardo-veneta. Tale prossimità fu molto importante nel promuovere la crescita industriale in quelle regioni. L’Italia ha potuto ricevere una mole di stimoli e di saperi che valgono senz’altro per spiegarne il particolare attivismo storico e lo spessore di civiltà e cultura.
Questa molteplicità di contributi esterni è stata funzionante per via della molteplicità ambientale della penisola. Da tale frammentazione geografica, deriva anche la frammentazione antropologica, da intendere come fenomeno favorevole all’arricchimento culturale: si pensi solo alle diverse capacità lavorative e d’adattamento che tali diversità di clima e d’ambienti hanno richiesto, alle diverse forme di vita e di mentalità, d’oggetti d’uso quotidiano e di tipologie urbane. Tale diversità, frutto non soltanto dell’ambiente fisico ma anche culturale, è prevalentemente presente tra il Nord e il Sud. La facilità geografica con la Grecia così come con il mare ha favorito nel passato il Mezzogiorno ad entrare in contatto con altre culture.
Egualmente dal Sud, spingendosi sino al Lazio e alla Toscana, giunsero gli etruschi, i quali si unirono alla colonizzazione greca. Nacque questa “Koinè culturale”, la quale fece pronunciare queste parole sull’Italia da parte dello storico francese Michelet: “jetée au milieu de la Meditérranée, comme au proie aux éléments et à toutes les races d’hommes”. Tali stanziamenti urbani non hanno corrispettivo nell’Italia settentrionale, dove il processo di definizione etnica è più lento e si svolge quasi in isolamento. Addirittura, la romanizzazione al Nord avvenne dopo più di un secolo di ritardo dal resto dell’Italia peninsulare. Un dato spesso dimenticato ma di notevole importanza è l’inclinazione dell’asse longitudinale della Penisola, il sud è in realtà un sud-est. E dunque è anche un Oriente. Questo dato deve farci pensare per parlare con nuovi occhi della dominazione romana, la quale è stata meno lunga di quella greca e bizantina. Un altro elemento importante nella nostra identità geografica italiana è svolto dal ruolo divisorio della catena appenninica. La coscienza romana riteneva Italia il versante tirrenico mentre chiamava il lato adriatico “celti”o “greci”. Ebbene era solito vedere delle navi partire da Genova, Venezia per altre città del Mediterraneo, con la possibilità di scambiare merci con la parte balcanica ed iberica mentre era meno consueto lo scambio di merce tra la parte tirrenica e quell’adriatica. Il Mediterraneo non è stato un “legame” per la nostra identità, è stato utilizzato dalla politica solo durante le spinte colonialiste come richiamo ai miti del “Mare nostrum” e della “quarta sponda” come invito impellente ad uscire dal nostro continente e a spaziare tra Africa, Medio Oriente e Mare Rosso. Da qui era un modo di abbandonarsi alle spalle l’Europa e di recuperare il senso più vero della nostra storia. La stessa Italia, con la sua doppia struttura continentale e mediterranea, e con i suoi invasori stranieri molto diversi tra loro ( - marinai, gli spagnoli, nel mezzogiorno e continentali, i francesi ed austriaci, nel nord), ha vissuto una continua incomponibilità geopolitica e culturale. Dopo la caduta romana, le divisioni sono state evidenziate dall’arrivo al nord di popolazioni barbariche giunte dal nord oriente mentre il sud è restato nelle mani dell’impero di Bisanzio. Quindi abbiamo un nord terrestre e un sud marittimo. Il destino dell’Italia è poco diverso dalla storia delle altre penisole del mediterraneo, quale la iberica e la balcanica. Tutti e tre hanno subito le spinte civilizzatrici di altri popoli, con un particolare impatto compiuto dalla civiltà arabo-turco.
L’Italia ha vissuto la penetrabilità in modo intermedio se la confrontiamo alla storia spagnola, dove il duro centralismo castigliano con la sua intolleranza religiosa e razziale funzionò da riequilibrio. Oggi, la massima scissione si trova nella penisola dei Balcani, con una sua complessa frammentazione etnica e confessionale.
In Italia, la disponibilità umana e la permeabilità culturale, unendosi alle differenze geo-ambientali e all’immenso patrimonio storico-culturale, hanno prodotto una capacità d’adattamento, una plasmabilità e ricettività dei quadri mentali e dei modi espressivi, una propensione al sincretismo, una mobilità dello spirito, una disponibilità ad immaginare e a trovare( - e però subito dopo anche ad abbandonare ciò che si è appena trovato), che nel bene e nel male, nel molto bene e nel poco male, possono essere considerate tutt’insieme un tratto dell’identità del paese. È probabilmente grazie alla sua latinità e alla presenza del cristianesimo cattolico che l’Italia è riuscita a rimanere un unico paese, e ad avere un senso di sé come di un sostanziale tutto.
Altro punto di comunanza per tutto il territorio del paese sono la mancanza di materie prime e l'eccessivo sfruttamento dell'ambiente in un contesto di notevole dissesto geologico.
E per ironia della sorte, l’epicentro di tale situazione si trova nel Mezzogiorno, il luogo dove alla plebe contadina si aggiunge, nel cuore della sua maggior città Napoli, una massa urbana. Dalle viscere contadine nasce e prende forma l’immagine della povertà italiana. Tale immagine rafforza la contrapposizione Nord-Sud in uno stereotipo della coscienza nazionale: il Mezzogiorno, e quindi il Mediterraneo, come sorte negativa della vicenda italiana da fuggire. Dalla scarsità delle produzioni agricole e dalla durezza della proprietà, nascerà l’emergere di capacità manipolative, di conoscenze diffuse delle tecniche e dei materiali, d’inventiva, che sono all’origine dell’eccellenza italiana nell’artigianato e nella tutta italiana “arte di arrangiarsi”, in pratica la consapevolezza di dover contare al massimo grado, sulle proprie personali doti d’immaginazione e sulle proprie risorse.
Nasce nell’antica miseria contadina la celebre “furberia” italiana, corpo di tante maschere della penisola, altra faccia popolare del “machiavellismo” delle sue classi dirigenti. Da quest’Italia povera, contadina, umile nasce il mito dell’assonanza cristiana con il tema della sofferenza e della povertà; la quale vede nella figura di S.Francesco il “patrono dell’Italia”. Da qui l’idea di una nazione proletaria dei “poveri cristi” in cerca di una storica rivalsa contro “i signori”, cioè contro gli avidi e arroganti della piccola e media borghesia. Un ulteriore elemento unificante, secondo il sociologo Franco Cassano (1998), è la Bellezza del territorio costituito da tanti paesaggi diversi, dove il rapporto tra acqua e terra permette di raggiungere un impatto estetico capace di addolcire e umanizzare il territorio italiano.
2. LE MILLE ITALIE
Partendo dal nord osserviamo come l’Italia sia una terra di città, ognuna legata intimamente al proprio contado in un nodo di identità e di cultura civica comune, disposta ognuna a guardare sé come al centro del mondo. Questo tratto d’autonomia culturale, è presente anche nei centri urbani del sud, ma con una consistenza minore.
Il dialetto di una città segna l’opera incancellabile di quei primitivi gruppi, e col dialetto varia di provincia in provincia non solo l’indole e l’umore, ma la cultura, la capacità, l’industria e l’ordine intero delle ricchezze. Questo fa che gli uomini non si possono facilmente staccare da quei loro centri naturali. In verità la città con il proprio contado rappresenta il punto di riferimento storico e originale del raggruppamento socio-territoriale italiano. Forse quest’analisi può spiegarci meglio perché l’immigrazione di gruppi etnici, estranei nella comunità territoriale locale venga a costituire prevalentemente una condizione di tensione o addirittura di conflitto, e al tempo stesso anche una condizione caratterizzata da apparente tolleranza.
Possiamo sostenere che l’immigrazione viene, in un certo senso, ad aggravare una situazione già in sé problematica e a denunciare la precarietà e la fragilità del sentimento d’appartenenza socio-territoriale della popolazione residente. Di fatto, l’unificazione del 1861 fu realizzata prescindendo da ogni patria singolare: l’asse Torino-Napoli rendeva possibile l’alternativa storica all’Italia delle città, ovverosia queste due città potevano a modo loro considerarsi simili a quella delle grandi statalità europee.
Oggi sembra inutile parlare della giustizia di tale scelta, ma vorremmo far risaltare come tutti gli avvenimenti del 900’ italiano sono accaduti nel triangolo Ravenna-Venezia-Milano, le quali aree s’identificavano con la grande tradizione comunale. È legittimo leggere in ciò un segno della mancata unione tra Stato e Società, che ha rappresentato un tratto tipico della vicenda unitaria. Il venir meno di Roma e Milano in un loro possibile ruolo di saldatura tra asse tirrenico e triangolo padano-orientale ha contribuito a lasciare aperto nella vicenda italiana un vuoto assai ampio tra le sfere della statualità e quella della politica. Ancora a ciò si deve se nel nostro paese la politica, lungi dal diventare operosa, ha sempre mostrato la tendenza ad assumere una forte impronta ideologica. Altro elemento fondamentale nella vicenda storica ed identitaria italiana è stata la religione. Essa ha influenzato tanto sull’atteggiarsi dei costumi popolari, sulla più minuta quotidianità delle vaste masse, così come sui modelli di pensiero e di comportamenti dei nostri dirigenti. Il cattolicesimo ha indicato tratti decisivi della visione del mondo, del sentimento della vita, della sensibilità morale e del gusto. Ciò che sta al fondo di tutta questa religiosità è ancora e sempre la consapevolezza tutta italiana dell’instabilità del proprio stato, che la durezza dei rapporti sociali e la tradizionale lontananza delle istituzioni rende più acuta di quanto di per sé già non comporti la semplice condizione umana. È presente la consapevolezza che solo da se stessi e da chi c’è vicino,da chi ci conosce e che noi conosciamo, anche se in fieri, ci si può attendere qualcosa di buono. È il sentimento che unisce il villaggio con il suo Santo protettore e la sua Madonna.
3. ITALIANI: TRA FAMIGLIA E OLIGARCHIA
Partendo dalle parole di Jervis sull'’individualismo, ma anche sul radicato “familismo amorale” (Banfield, 1958) come premessa per capire il modo sociale d’essere degli italiani possiamo chiederci cos’è che ha prodotto individualismo e familismo nell'esperienza storica italiana? Cosa ci dicono della vicenda storica e culturale degli italiani? Per rispondere a tali domande, proverei a prendere le mosse da un’osservazione di Leopardi (1824), contenuto in un passo che rappresenta quasi l’architrave del suo Discorso sopra lo stato presente del costume degli italiani. Al centro della pagina leopardiana c’è la constatazione che manca la “società stretta”, vale a dire quell’insieme di rapporti tra le persone del ceto medio che le tenga unite in una trama capace di strapparle alla pura sfera individuale, immettendole, viceversa, in quell’”uso scambievole”, nel quale “ gli uomini naturalmente e immancabilmente prendono stima gli uni degli altri”. Si tratta, naturalmente, di rapporti che possono esistere realmente solo tra persone non occupate tutto il giorno a soddisfare i loro “bisogni primitivi” e alla fin fine tale “società stretta” non ha altro fine che il “diletto e il riempire il vuoto della vita”. In sostanza, secondo Leopardi, ciò che sorprende della situazione italiana è l’assenza di un tratto riguardante il modo d’essere e di vivere delle classi dirigenti. Egli dice che la base della “società stretta” è il “buon tuono”, come egli lo chiama, vale a dire l’insieme di regole e di comportamenti accettati dalla società stessa (Leopardi, 1824)
“dove il buon tuono della società non v’è o non si cura, quivi la morale manca d’ogni fondamento e la società d’ogni vincolo, fuor della forza, la quale non potrà mai produrre né i buoni costumi né bandire e tenere lontani i cattivi. Così la società stessa producendo il “buon tuono” produce la maggiore anzi l’unica garanzia per i costumi sia pubblici che privati, che si possa ora avere, e quindi è causa immediata della conservazione di sé medesima.”
Questa lacuna denuncia nella penisola il non avvenuto passaggio della socialità italiana dalla sfera che potremmo chiamare della naturalità premoderna a quella della convenzionalità, figlia dei tempi nuovi. C’è stata l’assenza di un decisivo denominatore per così dire formale nella produzione degli individui. Altrove in Europa, questi individui si formano e si muovono nel mondo, svincolati da ogni rapporto sia con la trascendenza sia con le appartenenze tradizionali come la famiglia o l’attività lavorativa. Non è più nella casa del padre, nella corporazione di mestiere, nella contrada, nella confraternita che si formano le personalità individuali, la morale e le opinioni collettive. È nella società del “buon tuono”, della convenzionalità che si sviluppa l’uomo moderno europeo. Anche a Leopardi non sfugge la “miseria” del restringimento delle opinioni al semplice “buon tuono”, tuttavia è costretto ad ammettere che tale “miseria” funziona nella produzione dell’uomo moderno. Tale fenomeno, in una nazione senza centro, e dove non c’è veramente un pubblico italiano, non ha visto la nascita di una vera società, di un’opinione pubblica e la cura della propria rispettabilità che si ritrovano in altri paesi.
Nella penisola, anche nei ceti abbienti, la formazione dell’individuo è rimasta legata all’ambito della tradizionalità a base naturale, inserita per intera in aggregati organici, o in quelli sociali fortemente dominati dal localismo. L’immediatezza da un lato e il formalismo dall’altro, la spontaneità e l’etichetta, sono i due estremi entro i quali sembra destinato ad oscillare l’italiano tipo e la sua socialità. Questo italiano sarà dunque individualista perché l’individualismo è per l’appunto l’espressione più ovvia dell’immediatezza e della spontaneità, ma al tempo stesso amante del gruppo chiuso (della famiglia, del ceto, della corporazione) dominato da regole antiche. Questi punti devono essere nastri di partenza per porci delle domande sul prezzo ambiguo che il modo sociale d’essere degli italiani è stato chiamato a pagare per la mancata conquista dell’ “artificialità” moderna, priva per sua natura d’alcun legame significativo con la famiglia e con il territorio, dove gli uomini vengono sagomati in un ambiente che ha rotto con gli orizzonti chiusi precedenti, all’interno di un ampia generalità di esseri e di idee in movimento e accostamenti continui, con un vasto “uso scambievole” gli uni degli altri. Da questa constatazione, dobbiamo cercare di ritagliare le ragioni specifiche, per capire cosa di propriamente moderno ha fatto difetto in Italia.
Una prima risposta si può trovare nell’opera di Machiavelli, il quale sostiene che la mancanza più importante è il “vivere politico”, in altre parole l’ingresso degli individui nella sfera della cosa pubblica. In breve, è il mancato interesse da parte dei “Gentiluomini” per la politica, nel senso originario e classico del termine “polis”, la cui assenza darà conto in non poca misura della mancata formazione dell’individuo e della socialità moderna. Machiavelli ci spiega perché questo “vivere politico” si è staccato, fino a scomparire, dall’esperienza storica di larga parte della penisola. Infatti, con l’inizio della prevalenza spagnola nel paese, l’irrigidimento controriformistico, il decadere delle attività mercantili e la conseguente riconversione della ricchezza alla proprietà terriera, il potere italiano si riduce e si concentra, la vecchia tradizione oligarchica si fortifica, viene cancellata ogni residua presenza “popolare” negli ordinamenti cittadini. L’ascendente, il prestigio, le prerogative sociali si sistemano nelle mani dei “gentiluomini”, i quali vengono monopolizzati dal loro universo ideologico e stilistico di tipo signorile-feudale. Proprio in conseguenza di essi, la politica in Italia si lega sempre di più ad una dimensione di esclusivo potere, viene considerata e praticata come puro esercizio di autorità e come appropriazione-distribuzione di risorse pubbliche. La decadenza economica e la sostanziale perdita d’indipendenza degli Stati italiani, spingono i patriziati urbani, l’aristocrazia terriera sempre più numerosa, i gruppi burocratici-militari a cercare con il sostegno della Spagna di allargare sempre di più il proprio comando, per allargare il proprio reddito e prestigio sociale. E da questi moventi e fini, che si fissano nell’anima della società italiana, la prassi ovvia ed abitudinale della classe dirigente italiana. Questo modo di intendere la politica è l’esatto opposto del “vivere politico” concepito da Machiavelli, dove la politica è pensata ed agita come realizzazione dell’interesse collettivo, naturalmente attraverso la composizione di interessi particolari. A causa della debolezza dello Stato, ciò che viene meno nella vita collettiva italiana sono - come avrebbe detto Pietro Verri- le “idee comuni dei comuni interessi”. Viene a far difetto in Italia, per conseguenza, il retroterra di socialità, le esigenze di nobiltà, di studio, di scambio, che rappresentano il corollario del “vivere politico”. In Italia, invece, la famiglia, il rango sociale, continuano in tal modo ad esercitare tutto il proprio ruolo, schiacciando la libera formazione dell’individuo e la fioritura della “società” fondata sulle qualità personali, sul merito, sulla stima, sull’ambizione del singolo e sul giudizio dell’opinione.
Insieme all’assenza della politica, l’assenza di un secondo fattore è decisivo: la Cultura, intesa come acculturazione delle persone.
L’ “uso scambievole” non prende piede in Italia perché da noi tale uso non dispone in modo sufficiente di un ambito culturale; infatti, pochi fenomeni sociali come la cultura, appaiono dotati di tanta capacità aggregante. A metà del 800’in Italia, tra il 70 e 80 % della popolazione era analfabeta ed era la percentuale più alta d’Europa dopo quella della Russia (90%).
Da non dimenticare, inoltre, l’attacco della Chiesa Controriformista, la quale esercitò per ben due secoli e mezzo dal 1564, un controllo minuzioso degli intellettuali e dell’editoria. In effetti, bisogna partire dalla fine del 500’ in avanti, con la restrizione di libertà e originalità, per capire il perché della scarsissima capacità delle lettere e delle idee di destare interesse sociale, d’alimentare discussioni non formali e non convenzionali. L’Italia preunitaria, era questo paese con due storiche assenze: quella della politica e quella della cultura. Proprio la politica e la cultura, costituiscono i due formidabili principi di movimento, di mobilità che consentono di porre fine alla staticità “naturale” dello status, che si oppone alla nascita della socialità a base individuale. Questi elementi di non modernità sono destinati a contrassegnare l’identità italiana, nella quale l’evoluzione storica, lungi dal liberare gli individui, li lascia imprigionati in due strutture tipiche del paesaggio sociale italiano: l’oligarchia e la famiglia. Il rilievo dell’oligarchia in Italia risale all’unificazione della Penisola sotto Roma, dove il rapporto tra città e oligarchia è stato una costante della nostra storia. Tale sistema analogo d’aristocrazie familiari locali costituì la spina dorsale dell’ordinamento comunale, la cui base cosiddetta di massa, è bene non dimenticarlo, fu sempre assai piccola. È proprio nell’ambito municipale, che ha modo di manifestarsi quella che può essere considerata l’altra faccia della vita italiana: la situazione fazionale, che ha nei Guelfi e Ghibellini una sorte di paradigma permanente. Una situazione di questo tipo, con la sovranità straniera, con un’estrema mobilità delle alleanze e dei partiti, portò i meno forti ad aiutarsi “contro i più forti”, fino al punto che “nelle città libere le famiglie Guelfe, se vi trovavano miglior conto passavano alla parte Ghibellina, e viceversa” ( Grassi, 1997).
È difficile non vedere in queste riflessioni un altro fenomeno legato a quello oligarchico e a quello fazionale: il trasformismo. In una situazione di permanenza del potere nelle mani di gruppi sociali ristretti che tendono ad autoperpetuarsi, in cui la partita è tra pochi e la tentazione fazionale diventa fisiologica, la ricomposizione trasformistica dei contrasti e lo schierarsi generale con il vincitore del momento assumono l’aspetto di comportamenti in fin dei conti razionali. Il trasformismo, insomma, si presenta come la conseguenza ma insieme anche come il cemento delle oligarchie. L’oligarchia italiana, è sempre un’oligarchia di famiglie, fa corpo con la struttura familiare, confermandone la centralità nella vita sociale del paese.
Nel peso della famiglia in Italia è facile notare il sovrapporsi della duplice eredità romana e cristiana: il familismo latino, con la teorizzazione dell’autorità giuridica del Pater Familias, fu fortificato sul piano evangelico, articolato quest’ultimo sulle figure del padre, dei figli e dei fratelli, con il relativo obbligo dell’amore reciproco. Ciò che dobbiamo aver presente della famiglia romana, è il modello di molte persone soggette in forza da un vincolo naturale o giuridico alla potestà di uno solo. Quindi, i membri di questo tipo di famiglia, sono legati tra loro e riuniti sotto l’autorità di un Capo. In una situazione resa tradizionalmente incerta dalla latitanza di una forte autorità statale, la famiglia si rivela per l’individuo, una struttura di servizio “tutto fare” d’enorme valore e conserverà tale caratteristica negli ambienti più diversi e fino ai giorni nostri.
Nel quadro italiano, la famiglia dà le massime prove di sé nel campo economico. La struttura familiar-parentale sembra costituire la dimensione nella quale l’estro, lo spirito d’impresa degli italiani, sono capaci di dare i migliori risultati. La famiglia è definibile come universo vocazionale dell’agire collettivo italiano, che in questo si adegua certo ad un modello diffuso in tutto il Mediterraneo. È in questa dimensione della famiglia, protetto dall’astrattezza dei rapporti formali, che gli italiani trovano quell’equilibrio più congeniale tra il principio gerarchico da un lato e la preservazione dell’individualità dall’altro. Non dimentichiamoci, che la società italiana è spesso attraversata da incertezza politica, e che solo la piccola dimensione si rivela in grado di assicurare la riservatezza e la fiducia. Riservatezza e fiducia a base personale, che il sistema Italia ha trovato in altre due strutture di tipo associativo, l’oligarchia e la corporazione, naturalmente predisposti allo spirito della famiglia. Famiglia, oligarchia e corporazione hanno in comune la particolarità di costituire fonti normative autonome, in grado di definire valori e comportamenti individuali. Nulla a che fare, con quella fonte normativa d’ambito generalissimo che è la Legge, traente la propria legittimità dall’autorità dello Stato.
In altre parole, sembra esservi nella società italiana una riluttanza, nella mentalità collettiva, ad approvare come vincolante tutto ciò che non sia specificamente fondato nell’orizzonte di vita degli individui, nei loro legami, nei loro sentimenti e nel loro territorio.
Proprio da quel territorio, avviene che il localismo, già tanto presente e fiorente nel paese, allarghi e rafforzi i suoi effetti grazie al potenziamento della frammentazione geografica-territoriale, dovuta alla ancor più penetrante frammentazione sociale e diremmo quasi morale che opera la struttura familiare-oligarchica-corporativa, come se ogni singolo divenisse quasi un luogo a parte, con valori e norme fatte valide per lui solo. In conseguenza di ciò l’Italia, diventa terra d’individui, che avranno grandi difficoltà a diventare cittadini, in altre parole a conquistare quella dimensione della modernità fatta d’eguaglianza delle occasioni e delle opportunità, di libera contesa delle opinioni, di dipendenza dalla stima disinteressata altrui, da cui nasce la “società”. Siamo convinti che questo punto sia di vitale importanza nel discorso sulla cittadinanza da concedere agli immigrati, giacché in primis la nostra popolazione, dovrà apprendere a diventare “cittadini”con percorsi di educazione alla democrazia e alla partecipazione, così importanti per il far nascere questa società dall’ “uso scambievole” per dirla alla Leopardi.
Il fatto è che, perché ciò accada, affinché l’individuo diventi cittadino, è necessaria la presenza dello Stato. È necessaria la presenza del referente naturale ed obbligato della cittadinanza, nonché l’unica Istituzione che grazie ai propri mezzi sia in grado di fornire una garanzia degli interessi dei singoli e della sicurezza cui essi aspirano, completando le garanzie assicurate dalla struttura familiare-oligarchica-corporativa. Anche se le domande sono numerose sul perché lo Stato è stato assente e perché continua ad esserlo, tale situazione non deve spingerci nel compiere l’errore di vedere in modo meccanico nel familismo e nel particolarismo le cause dei ritardi storici del paese. Il nodo della questione è che in Italia, oggi, si può benissimo essere familisti e moderni, localisti e globalisti, tuttavia è anche vero che si può essere moderni e dotati di civismo, senza tuttavia sentirsi per nulla italiani, vale a dire senza provare la minima identificazione con le istituzioni e con il sistema politico del paese.
E pur vero, ad ogni modo, che nell’ambito dei cento orizzonti cittadini, aristocrazia e borghesia italiana si sono inserite e compattate pressoché perfettamente nella dimensione oligarchico-notabiliare, facente corpo con la centralità della famiglia. Chi conosce l’Italia, sa che l’organizzazione di tipo sostanzialmente notabiliare della classe dirigente non è certo venuta meno. Ancora oggi in Italia i partiti ed i sindacati, l’industria, la cultura, l’informazione, presentano in genere, ai propri vertici, gruppi di comando di tipo notabiliare, vale a dire cooptati assai più che eletti o designati per merito, spesso in legame familiari tra loro. In Italia, perfino un partito che si diceva comunista è stato un partito di “Grandi famiglie”. Questo insieme di cause, che vede l’Italia un paese con un tasso d’immobilità di carriera, non ha confronto fuori dai nostri confini. Del resto, dove l’individuo appare così strettamente inserito in strutture superindividuali, è difficile far prendere piede a idee e prassi di tipo realmente competitivo. Ciò che è certo è che, per il passato, l’identità italiana ha rifiutato tali idee e prassi, la vocazione maturata nel paese è un’altra: è quella dello scambio e dell’accordo, anche come necessario contrappeso al potenziale distruttivo contenuto nello spirito di fazione. Da tale vocazione è difficilissimo ottenere moltissimo ma in compenso è ancora più difficile perdere tutto. Al fondo di questa concezione secondo la quale, in sostanza, si vince e si perde solo in gruppo, non è forse possibile scorgere un’antica umanità?
Secondo il già citato Della Loggia (1998), è più fondato vedervi l’effetto di una società dalle occasioni limitate, volte ad impedire che la dura lotta per conquistarle vada a danno del bene supremo della sicurezza, del prestigio e del rango. Proprio da queste strutture sociali, vediamo evidente il mancato ruolo della politica ai fini di un’autoidentificazione sociale alternativa a quelle tradizionali. Di fatto, nel nostro paese la politica è servita spesso come chiave d’accesso al conferimento di status sociali tradizionali ( diventare aristocratico, borghese, ricco o proprietario).
4. IL TRAVAGLIO DELLA MODERNITA' ITALIANA E IL PROBLEMA DELL'IDENTITA' NAZIONALE
Partendo dalla citazione di Pasolini (1963): “ Sai cosa mi sembra l’Italia? Un tugurio i cui proprietari sono riusciti a comprarsi la televisione” possiamo osservare nelle sue parole due temi: un tema tradizionale fondato sull’invettiva contro l’Italia, dalle condizioni negative spesso ritrovate nel giudizio dell’intellettuale-letterato, almeno a partire da Dante, ma poi anche un tema nuovo costruito sull’impossibilità per l’Italia di essere un paese davvero moderno. La modernità italiana, infatti, non riesce a sopprimere l’antimodernità, non è capace né di superare né di risolvere in sé il suo passato, ma si sovrappone semplicemente ad esso, vi si mischia producendo solo controsensi e inefficienze. Questa novità non è comune ma è quella del fallimento di un “Italia Nuova” di un’Italia che, si mostrasse in grado di “convertire il mondo moderno in mondo nostro”. Quanto diceva Pasolini era la punta di un iceberg in quanto la sua posizione era condivisa dall’opinione colta del paese, con all’interno due distinte direzioni: da un lato, la prima a lamentare la mancata modernità, e l’altra a mettere in luce sugli effetti causati da questa modernità non reale nel paese. Non abbastanza moderna, l’Italia, incapace di esserlo, ma al tempo stesso moderna in modo cieco e perciò radicale e assoluto. Quindi, un rapporto con la modernità che la fa sembrare qualcosa di “non nostro” e “non fatto per noi”, qualcosa d’importato, che dall’esterno imporrebbe dei doveri troppo difficili, cui non si riesce ad adempiere, o a cui adempiremmo fuori misura, in modo sempre maldestro e distruttivo. Il traguardo dello Stato Unitario non portò alla risoluzione dei problemi peculiari della penisola, ponendola in posizione d’inferiorità rispetto a tanti paesi nel contesto europeo. Inoltre, dopo un secolo e mezzo di storia d’Italia, gli storici ci parlano di un paese con “un costume civico debole e incerto” , rendendo impossibile la soglia di paese “NORMALE”. Il termine “normale” viene ripreso in quanto obbiettivo da raggiungere per assomigliare agli altri partner europei. Ancora oggi, la domanda posta all’inizio del 900’ da Antonio Labriola rimane valida, vale a dire: Quante garanzie di Stato moderno offre ora l’Italia in quanto a mantenere un posto di utile ed efficace concorrente nella gara internazionale?
Secondo le varie culture politiche presenti in Italia, il processo Risorgimentale e Unitario è stato debole e la faticosa modernità italiana si spiegherebbe innanzitutto con la scarsa democrazia. E dunque ogni progresso in tal senso, ogni allargamento della struttura sociale-politica ai “cittadini”, ai “lavoratori”, si risolverebbe in una spinta decisa verso un paese più “moderno” , vale a dire più giusto, più efficiente, più democratico. Il nodo stesso della nascita dello Stato vede una mancanza storiografica di modelli e quindi è la politica a sopperire alle lacune della storia. In realtà, per motivi politici e non storici, l’articolazione dello Stato Moderno fu importata da fuori: dallo Statuto Albertino, al modello d’amministrazione centrale, al sistema dei prefetti a quell’universitario, tutto fu ripreso dall’esperienza belga, francese o da qualche altro paese europeo, per volontà della politica.
Il punto è che in realtà, se si prescinde dalla politica, la statualità italiana non ha mai avuto alcuna base propria e autonoma su cui poggiare. La politica avendo portato il paese alla sua unità statale, ha avuto un ruolo così grande, da diventare responsabile di non poche patologie. Il potere, il prestigio del comando, hanno fatto sì che spesso i singoli, che di volta in volta s’identificavano con quel comando, si curassero poco o nulla di avere un adeguato bagaglio di cultura istituzionale, di studiare gli strumenti giuridici ed organizzativi dei loro programmi, di valutarne le implicazioni, i costi e gli effetti. L’enorme rilievo della politica ha prodotto una politica troppo fissata su se stessa, in un certo senso abbagliata dal proprio potere autoreferenziale, e per conseguenza digiuna d’amministrazione e quindi incurante d’ogni autonomo sapere della statualità, nonché dei suoi valori. Molta politica e poco Stato, dunque molta ideologia e poca cultura dello Stato. Inoltre, il nostro Stato ha visto crescere le sue funzioni e attribuzioni attraverso la mobilitazione del principale strumento che da sempre la politica ha a disposizione, ossia lo Stato. Davanti ad un paese con tante richieste, dovute alla povertà delle risorse, e con un profondo divario tra le regioni, il ceto politico ha fatto sì che la politica diventasse una grossa risorsa decisiva. Sta di fatto che invocare lo Stato per mettere dazi, rilasciare licenze, autorizzare attività, tutelare professioni con appositi albi, elargire pensioni, finanziare partiti, ha rappresentato una tentazione e una necessità che hanno finito per esercitare una pressione cui finora nessun regime politico della penisola è riuscito in sostanza a sottrarsi, né forse poteva. Da qui, l’identità italiana è costruita, è stata costruita con la pietra della politica, animatrice di passione ed erogatrice di risorse; tale modo ha rappresentato per molti italiani, il nodo d’accesso alla modernità. Caratteristica italiana è stata la netta separazione tra la sfera politica e quella dello Stato. Spesso l’impegno politico dei singoli ha poche volte voluto dire cultura civica, immedesimazione consapevole con le esigenze di vita e di governo della collettività, attenzione alle regole e alle procedure, ai diritti. La politica non è riuscita fino ad ora a riempire quel vuoto storico di statualità e di civismo, a causa dell’assenza d’assolutismo e di anelito religioso nel pensiero sulla società. Lo Stato, le istituzioni e il loro ethos, sono rimasti estranei, calati dall’alto, portando a mantenere uno dei tratti più spiccati dell’antropologia italiana: appartenenze ristrette, al gruppo, al clan, alla fazione. Da tale situazione può essere ricondotto il debole sentimento nazionale italiano, questo dato così centrale della moderna identità italiana è il frutto combinato dei due principali elementi su cui ci siamo soffermati poco prima. Quindi, la fragile fabbricazione statale-unitario anche a dispetto della stessa società italiana, rende l’identità nazionale e il suo sentimento, un fenomeno quasi inesistente. L’una e l’altro sono il prodotto di élite ideologico-culturali, in genere inserite nelle istituzioni dello Stato. Per esempio, pensiamo alle difficoltà di nazionalizzare il paese attraverso la scuola e l’esercito (lentezza nel processo d’istruzione obbligatoria). Tutta la vita del paese passa attraverso il ruolo amplissimo della politica, la quale si presenta come religione secolare di salvezza collettiva, ma che poi, nella pratica, è diventata ogni volta appartenenza particolare e risorsa individuale. Questo ha voluto dire forte prerogativa in senso politicopartitico dell’identità e del sentimento nazionale. In complesso, né lo Stato e le sue istituzioni né la politica sono riusciti a rappresentare i presupposti adeguati per la crescita nei cittadini dell’identità nazionale e del relativo sentimento d’appartenenza come fatto positivo in sé.
Neppure l’azione della cultura e degli intellettuali letterati ha alimentato la nascita di questa nazionalizzazione del paese. Anzi è nota la loro divisione e la loro permanente propensione al compiacimento “anti-italiano”. Dal suo risorgimento, la cultura italiana postunitaria ha fornito spesso un’immagine del paese come di due nazioni tra loro incompatibili: l’una abitata da italiani “buoni”, ossia gli onesti e responsabili, e l’altra da italiani “cattivi”, ossia i furbi e disonesti (dipinti come la maggioranza del paese). Da quest’immagine del passato italiano è difficile trarre la nascita di un passato da condividere, dedurre un’idea in qualche modo unitaria del paese, dargli consapevolezza e sicurezza di sé. Quindi, partendo dall’idea che gli intellettuali siano i critici per eccellenza della modernità, essi hanno dato una dimensione del moderno in Italia molto fragile, che ci rimanda all’immagine inconsistente della dimensione statale. Questa identità è debole a causa della storica debolezza dello Stato, alla scarsa efficienza delle sue strutture amministrative, all’aspetto confuso e disorganizzato che la sua immagine e realtà sempre si portano dietro, all’assenza diffusa di cultura e valori che assegnino all’interesse generale, alla legge, al servizio pubblico un ruolo eminente. Infine all’assenza e all’esiguità di élite amministrative e statali dotate d’autorevolezza e prestigio. Tutto queste mancanze in Italia hanno avuto una conseguenza decisiva sull’identità nazionale: l’impossibilità o incapacità di trasfondere in forma nuova e sintetica i vecchi contenuti dell’identità italiana.
5. ITALIA: PAESE CON-FINE ALL'INTERCULTURA
La storia d’Italia è molto diversa dalla nascita di Stati-Nazioni come la Francia, dove con la prise di pouvoir di Luigi XIV e con la rivoluzione del 1789, diventa un centro dell’immaginario politico dell’intero pianeta, oppure come l’Inghilterra, a lungo marginale nella storia mediterranea dell’Europa, lentamente con la modernità avvierà il dominio sul mare, la rivoluzione industriale e costruirà un impero planetario.
L’Italia, invece, viene da una storia che ha avuto le sue punte più alte molto prima della modernità, con l’Impero romano e con la Chiesa cristiana, oppure proprio nei suoi avvii con l’Umanesimo e il Rinascimento, fase destinata a diventare fondamentale per tutta la cultura europea. In seguito, l’Italia giunge in ritardo all’appuntamento con la modernità perché il nostro paese non conosce una forma politica come lo Stato-nazione. A partire da questo ritardo, l’Italia vivrà perennemente quest’affannosa corsa per colmare il ritardo con gli altri paesi europei, molto più avanti nella modernità. Anche la retorica fascista nasce paradossalmente da un desiderio di modernità, dalla volontà di rifarsi ai paesi i più forti e più progrediti.
Tale ritardo sembra incolmabile: il centro del mondo si è allontanato e per essere all’avanguardia sono necessarie qualità diverse da quelle che distinguono la nostra civiltà.
Infatti, l’Italia subisce un notevole declassamento con l’emarginazione del Mediterraneo a spese del Nord-ovest, vale a dire verso il mare delle rotte oceaniche.
Gli italiani sembrano inevitabilmente condannati ad un presente minore e alla nostalgia della grandezza perduta. Questo sentimento d’emarginazione e di sconfitta, si riflettono in un atteggiamento caratteristico e molto diffuso: la perenne auto-denigrazione, in altre parole la critica preventiva e sistematica degli italiani per opera degli italiani stessi. Tale risultato è presente nell’italiano medio e anche tra gli intellettuali, dove la “differenza italiana” è il luogo dei difetti e dei ritardi dell’Italia. Accade così che gli italiani, allorché s’imbattono in stranieri che amano l’Italia ed esaltano le doti e le qualità dei suoi abitanti, quasi non credono a quanto ascoltano e preferiscono pensare che chi si esprime benevolmente lo può fare solo perché non ha ancora avuto modo di comprendere veramente il nostro paese e i suoi abitanti. Questa raffigurazione del carattere nazionale ha il torto di non dare speranza, di chiudere il futuro nella pura continuazione del passato e della sua marginalità, di partire dal presupposto che la nostra identità è un insieme di vizi e di ritardi. Oggi, con i nuovi scenari proposti dalla contemporaneità, la “differenza italiana” può offrire la struttura dell’occasione, soprattutto in campo europeo e migratorio.
Quali sono i mutamenti che ci consentono ragionevolmente di affermare che oggi si offre l’opportunità di interrogare in un altro modo la nostra storia identitaria e che sarebbe colpevole non percepire le nuove strade e nuove possibilità? Esistono almeno tre novità storiche: la prima è il declino degli Stati nazionali, processo lento, ma frutto di un progetto politico, la costruzione dell’Unione Europea. Da una simile ottica è possibile accertare nella nostra tradizione italiana, un orizzonte diverso da quello dello Stato nazionale, l’orizzonte cosmopolitico ed universalistico, proprio dell’Impero romano, della Chiesa cattolica e della grande stagione rinascimentale. Se questi elementi sono stati per tanti anni impedimenti alla nascita di uno stato moderno, oggi questo mutamento sulla scena europea, deve portare il nostro paese a giocare un ruolo molto diverso. Come ha osservato Padoa Tommaso Padoa Schioppa ( 1998) :
“La vocazione europea dell’Italia è del tutto coerente con la nostra identità culturale: con l’universalismo classico romano, con l’universalismo religioso cattolico, con la nascita della letteratura di lingua italiana molti secoli prima dell’unificazione statuale, con le aperture europee che ne percorrono tutta la storia, fino al Risorgimento. Per un italiano pensare europeo significa collocarsi nel solco della migliore tradizione nazionale.”
Paradossalmente l’avvio della fase più delicata e complessa della costruzione dell’Unione Europea dà agli italiani una grand’occasione, quella di commutare il loro “nazionalismo debole” in una virtù civica cosmopolitica ed interculturale, di trasformarsi in costruttori e cittadini della nuova Europa ad una velocità superiore rispetto ai cittadini di Stati nazionali di lunga tradizione. Paesi come la Francia, incontreranno grosse difficoltà a liberarsi da una struttura a cui devono la loro identità. Un’occasione unica ci viene proposta da un nuovo contenitore che si chiama “cittadinanza europea”, la quale dovrà divenire quel grande contenitore e regolatore di storie e culture nazionali da una parte, e dall’altra fare emergere le culture extraeuropee con le loro esigenze di autonomia. Quindi un modo per mettere alla prova il confronto e lo scambio tra le culture sarà quello di sperimentare regole di partecipazione alla vita pubblica locale per tutti quelli che si riconoscono lealmente “membri della stessa comunità” e per i quali la parola integrazione, non vorrà significare “fusione” dello straniero nel corpo sociale, ma dovrà fare nascere una dinamica che fa evolvere tutti i sistemi culturali, quello delle popolazioni autoctoni così come quello dei newcomers.
Insomma, quanto più l’Unità europea compirà dei veri passi in avanti, tanto più si fornirà l’occasione a chi viene da una tradizione universalistica di giocare un ruolo di avanguardia, di reinventare il lato migliore della nostra tradizione.
Un altro aspetto che dà facoltà di rovesciare la situazione storica italiana, è evidenziato dalla globalizzazione, la quale rilancia la dimensione strategica del locale, dimensione capace di reagire tempestivamente e in modo differente alle sollecitazioni e al dinamismo del mercato globale. L’idea che siamo entrati nell’era del “glocale”, è del resto anche alla base delle nuove aspirazioni federaliste che attraversano l’Europa. L’Italia è probabilmente, tra i paesi europei, quello che ha la tradizione più fortemente policentrica. Roma, infatti, è solo una delle tante capitali del nostro paese, da aggiungere a vario titolo con Milano e Torino, ma anche Venezia, Bologna e Firenze, e al sud Napoli e Palermo. Del resto il nostro è un paese in cui la vitalità provinciale, è sempre stata la risorsa cruciale, quella che ha permesso di raggiungere posizioni insperate nel mercato mondiale. La globalizzazione potrebbe consentire di evidenziare questa “differenza italiana”, convertendo ancora di più il particolarismo in una risorsa. Al fondo una delle caratteristiche di lungo periodo della storia italiana è stata la convivenza di cosmopolitismo e particolarismo, di riferimenti universalistici e autonomie comunali talvolta estremamente vitali.
Insomma, si tratta di riscoprire la nostra tradizione universalistica come suggerimento per il futuro, di capire come si possano intrecciare il municipio (ciò che è vicino e conosciuto) e il mondo, l’amore per la propria terra e la fraternità con tutti gli uomini, una fraternità che non si lascia fermare dalle differenze linguistiche, culturali e religiose. Inoltre, l’immigrazione riporta in primo piano il tema dell’uguaglianza, il quale diventa principio centrale nella costruzione di una cittadinanza civile e sociale.
La terza circostanza che nasce dalla fine della divisione del mondo in due sfere d’influenza, apre al nostro paese nuovi spazi d’iniziativa politica, culturale ed economica nel bacino del Mediterraneo. Finché si guarda all’Italia solo come ad un’appendice secondaria e minore dell’Europa si rimane imprigionati da una rappresentazione che appartiene al passato e non si riesce neanche a capire con quale voce il nostro paese potrà parlare nel nuovo concerto continentale. L’Italia non è pensabile senza il Mediterraneo e senza la sua posizione al centro di questo mare. Anche questa riforma dello sguardo, questo tornare a vedere il Mediterraneo come terreno fecondo d’iniziativa, spinge verso una riscoperta del nostro passato. L’Italia ha vissuto negli ultimi cinquant’anni la propria dimensione mediterranea come una disgrazia, come un pericolo da cui fuggire per non essere risucchiata dal sottosviluppo. Si tratta di rovesciare totalmente quell’immagine e di vedere quella dimensione come la carta del futuro. È impossibile guidare il nostro paese senza un minimo di “intelligenza geografica”( Savinio, 1991). La funzione di ponte tra i continenti che la geografia assegna all’Italia può, nelle nuove condizioni storiche, diventare un trampolino per la costruzione di una nuova area di pace e di sviluppo, per una nuova “civiltà degli scambi”, che autorizzi il nostro paese ad avere una funzione precisa e una voce originale in Europa. Lo stesso sincretismo italiano e l’antica destinazione della nostra penisola a luogo d’incrocio tra le genti possono diventare oggi il terreno per la sperimentazione di un’idea d’Europa non confinata sul suo Nord e sul suo cuore continentale, ma capace di aprirsi a quelli che Camus amava chiamare “i diritti del giorno” ( Camus, 1965), alla voce del sud. Il Mediterraneo non più come terreno da bonificare, ma bensì come impronta di un’identità pluralistica ed interculturale da riscoprire per tutta l’Europa.
L’Italia è, per vocazione geografica, una terra di con-fine, di frontiera, una lunga penisola con una lunghissima costa da Nord al Sud. La frontiera per sua natura è aperta a due possibilità: può aprirsi, abbattere gli steccati e diventare incrocio, scambio e sviluppo, oppure può chiudersi, diventare un fossato, un valium, il luogo dell’estraneità e della contrapposizione.
Oggi, il progetto identitario del nostro paese deve compiere la decisione, occorrerà abbandonare la visione essenzialista e fissista dell’identità tipica produzione culturale dei mass media e della politica, per scegliere un’identità senza con-fini, che scelga la dimensione del flusso e del mutamento. Questo comporta la capacità di valorizzare e di dare un significato culturale e politico alla propria collocazione geografica di ponte tra i continenti. L’Italia potrebbe diventare una protagonista nella costruzione della pace. Una delle buone ragioni per cui gli italiani hanno perso l’ultima guerra mondiale, stava anche nel loro “nazionalismo debole”, nella loro scarsa disponibilità ad assecondare quella che Gramsci (1964) chiamava “boria delle nazioni”.
Non si dovrebbe mai dimenticare che il nostro paese è stato tra i primi a cancellare la pena di morte e che questa decisione, dovrebbe essere un vanto. La pace come vocazione, la capacità di mediazione tra i popoli sono risorse di cui molti popoli hanno bisogno. Da qui deve partire l’iniziativa italiana nella costruzione di un’area forte euro-mediterranea, con collaborazioni strette tra paesi diversi, ma interessati ad associarsi e progredire insieme. Se la frontiera si chiudesse noi saremmo solo, come siamo, il paese degli sbarchi dei clandestini, la porta d’ingresso in Europa. Se lavorassimo ad aprire veramente e con preveggenza quella frontiera, potremmo diventare un’avanguardia dello sviluppo europeo, una testa di ponte per nuovi legami inter-culturali che staccherebbero l’Europa dal suo centro di gravità renano. L’Italia potrebbe essere anche la forza essenziale per un’idea dell’Europa veramente plurale, un’Europa in cui non esiste soltanto il tempo in funzione economica, ma anche quello della cultura, il tempo in cui ci s’interroga anche su quali siano i fini dello sviluppo, ci si chiede per che cosa si deve lavorare. D’altronde, anche l’immagine in Europa dell’Italia, quando riesce a superare gli stereotipi e i pregiudizi, c’indicano come il paese dell’arte, delle cento città, paese dell’accoglienza, dell’ingegno, della passione e il gusto per la vita. Proponiamo quindi di prendere in parola questa visione Alta di noi, per rimanere fedeli a ciò che siamo al meglio, ossia un lungo ponte tra i continenti e le sensibilità, tra il rigore e la fantasia, il lavoro e il piacere, tra la serietà e l’allegria. Come ci si può dimenticare che, quando sono allegri, gli uomini hanno da fare ben altro che uccidersi?
6. CONCLUSIONI
La mia conclusione vuole portare sulla necessità di porre in interazione costante il concetto di identità all'interno del progetto di nazione scaturito all'interno di questo nuovo contesto per l'Italia. Dopo 150 anni, la nuova Italia, con i suoi nuovi cittadini deve porsi a riscatto della demograficamente vecchia Italia.
Questa identità di natura “interazionale”, è da far uscire, in modo da creare i presupposti per fare venire alla luce la richiesta di impellente urgenza di “quale paese noi vogliamo?”. La mia conclusione vede nella riflessione su di in un concetto teorico come l’identità italiana un giovamento sia per gli Italiani così come per gli immigrati nel nostro tessuto sociale, culturale e territoriale. In altri termini, ciascuno di noi deve essere incoraggiato ad assumere la propria diversità per concepire la propria identità come la somma delle sue diverse appartenenze, invece di confonderla con una sola, eretta ad appartenenza suprema e a strumento di esclusione.
Brutalmente, potremmo usare le parole di Amin Maalouf, il quale dice che la nostra era ha bisogno di “domare la pantera”, questa pantera si chiama identità.
BIBLIOGRAFIA
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CAMUS, A, 1965, Essais, Gallimard, Parigi.
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PADOA SCHIOPPA, T.,1998, Che cosa ci ha insegnato l’avventura europea, Il Mulino, Bologna.
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