Febbraio 2008 | Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792 Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni |
ABSTRACT
Lo scopo di questo intervento è quello di presentare l’esperienza di alcuni autori americani di origine italiana che, attraverso il viaggio in Italia, si sono (ri)appropriati di una parte della cultura di origine. Attraverso loro esperienze si approfondirà un aspetto significativo del viaggio: il divario esistente tra le loro aspettative sull’Italia e la realtà sociale, economica e culturale con cui si devono confrontare al loro arrivo. Ciò ci consentirà di mettere in luce la natura controversa del viaggio che, da un lato, rappresenta uno strumento che permette di (ri)avvicinarsi alla propria identità culturale, ma dall’altro è anche responsabile della messa in moto di un meccanismo che instilla incertezze, frustrazione e disorientamento culturale negli eredi degli emigranti italiani.
1. DIFFERENZE GENERAZIONALI
Negli ultimi anni il panorama della letteratura italo americana si è arricchito dei resoconti di viaggio scritti da autori che hanno compiuto la traversata dell’Atlantico in senso opposto rispetto ai loro antenati. Le ragioni che li hanno indotti a visitare i luoghi di origine delle loro famiglie sono molteplici: ricostruire il passato della famiglia; capire le singole ragioni dell’emigrazione; liberarsi dal senso di inferiorità e dalla vergogna di appartenere ad una minoranza etnica; incontrare i parenti ancora in vita; visitare il paese abbandonato dagli antenati; sciogliere i dubbi sulla loro identità etnica e capire che cosa c’è di italiano in loro.
Non tutti gli italo americani hanno sentito la necessità di confrontarsi con l’Italia. La generazione che ha trovato più difficoltà nell’affrontare questo viaggio è stata la seconda. I figli degli immigranti nati in America o arrivati quando erano ancora dei bambini, hanno vissuto il disagio sociale e culturale di trovarsi a vivere tra due culture: quella americana, dominante; quella italiana, dominata e di minoranza. Se a questo si aggiunge la vergogna che hanno provato per la discriminazione subita e per il senso di inferiorità instillato dalla società americana, non sarà difficile comprendere le ragioni che li hanno spinti ad allontanarsi dall’ Italia. Alcuni hanno preferito non interrogarsi sulle proprie origini, sul passato dei loro antenati, sul paese di provenienza per non doversi confrontare con la realtà povera e scomoda.
I membri della terza e quarta generazione, sono quelli che traggono i maggiori vantaggi dal viaggio in Italia perché hanno vissuto in maniera diversa il rapporto con le origini. Sono arrivati ad affrontare il viaggio in Italia con meno tensioni, forse meno preparati dal punto di vista linguistico, ma sicuramente più forti da quello emotivo. Sebbene le loro esperienze non siano prive di delusioni ed amarezze, rappresentano un’occasione unica e preziosa per riscoprire una parte della loro “italianità”. Il viaggio gli permette di (ri)allacciare un rapporto col il loro passato e gli insegna ad accettare come propri alcuni tratti culturali che non appartengono alla società in cui sono nati.
2. IMPATTO CON L’ ITALIA
Nonostante i molti benefici di una tale esperienza, non vanno trascurati i momenti difficili e lo sconforto che colpiscono gli italo americani quando scoprono che non c’è sempre corrispondenza tra le loro aspettative e la realtà italiana, tra i valori che hanno ereditato in famiglia e quelli degli italiani, tra il loro bagaglio etnico e la cultura italiana. Alison D. Goeller sostiene che quando gli italo americani arrivano in Italia capiscono immediatamente di non avere molti tratti in comune con questo popolo (2003: 2). Un primo segno di alienazione è dato dalle difficoltà linguistiche che sono spesso una barriera insormontabile per tanti membri della terza e quarta generazione. La seconda generazione, pur essendo stata esposta al dialetto parlato dei genitori, ha rifiutato qualsiasi coinvolgimento linguistico considerandolo un ostacolo alla propria integrazione nella società americana e alla propria emancipazione culturale. Il dialetto parlato in casa era infatti fonte di vergogna per i figli degli emigranti (Paolicelli 2000: 38) che hanno così interrotto un passaggio fondamentale nel processo di conservazione della memoria storica del gruppo. La mancanza di una lingua comune tra gli emigranti (che parlavano un inglese molto stentato) e i propri figli, nipoti e pronipoti, ha portato ad una spaccatura profonda tra le varie generazioni. Ha inoltre indebolito il loro rapporto con l’Italia e reso difficile la loro identificazione con gli italiani (in Barolini ed. 1985: 52). Fred Gardaphé ritiene, infatti, che la mancata trasmissione della lingua sia il primo passo verso la perdita della memoria etnica degli italiani d’ America (in Janny & McLean 2004: 67)
Malgrado le difficoltà alcuni americani di origine italiana sono in grado di riconoscere termini e di capirne il significato (in Barolini ed. 1985: 51). A Napoli, tra gli invitati ad un matrimonio, Barbara Grizzuti Harrison riscopre i suoni e l’intonazione della lingua della sua famiglia: “The voices, the accents do me in” (1989: 365). C’è però una forte discordanza tra i ricordi che lei associa a questo dialetto—l’ambiente povero e semplice della sua infanzia—e la realtà sociale ed economica delle persone che lo parlano: “But this house had six floors, elevators, electronic devices to guard against burglary, a garden brightly lit […] Why do they speak in the dialect of poverty?” (358). La stonatura percepita dall’autrice conferma la confusione culturale che il viaggio in Italia provoca negli italo americani e la profonda spaccatura che c’è tra le loro aspettative e la realtà.
L’osservazione fatta da Harrison ci porta a riflettere anche sul problema dell’incongruenza tra la moderna realtà italiana e l’immagine antica e datata trasmessa dagli anziani. Questo rappresenta un ulteriore ostacolo per gli italo americani visto che gli immigrati hanno instillano nei loro discendenti un’immagine antiquata, arretrata e oramai datata dell’Italia: “Those of us who have traveled to Italy the past ten years have found a new country that has made us realize that the Italy of our grandparents is as impossible to find as the Land of Oz.” (Gardaphé in Janny & McLean 2004: 67) Gli americani discendenti degli emigranti che arrivano credono di trovare il paese nelle stesse condizioni in cui lo hanno lasciato i loro antenati: prevalentemente agricolo e poco contaminato dal progresso industriale. La realtà ha degli aspetti contrastanti e diversi. L’esperienza di Paul Paolicelli, nelle città d’arte dimostra che gli italo americani scoprono lati dell’Italia che conoscevano poco: il ricco patrimonio artistico la varietà del paesaggio, l’importanza di personaggi storici e letterari di cui forse avevano sentito parlare a scuola ma non certamente in casa (2000: 17). Spingendosi nell’entroterra alla ricerca del villaggio di origine dei parenti, molti scoprono le tracce del cambiamento: lo sviluppo dei piccoli centri, la presenza di vie di comunicazione e di strutture (scuole, abitazioni, impianti sportivi) che comparivano raramente nei racconti dei loro antenati. Si rendono conto che l’Italia ha fatto passi da gigante in tutti i campi diventando un paese in grado di competere con gli Stati Uniti e di garantire una sicurezza economica e sociale ai suoi abitanti attuali (2).
Se da un lato la presa di coscienza delle moderne condizioni della penisola libera gli italo americani dal senso di vergogna ed inferiorità che li attanagliava negli Stati Uniti, dall’altro è la causa di un disorientamento culturale dovuto alla mancata corrispondenza tra le loro aspettative e la nuova realtà. Gli italo americani non riconoscono i tratti economici e sociali del paese che gli è stato descritto da genitori, nonni e parenti; non sentono di condividere gli stessi ideali e gli stessi valori degli italiani che incontrano: per questo molti hanno difficoltà nell’identificarsi con loro. Questo turbamento è percepibile nel diario di viaggio di Barbara Grizzuti Harrison che da’ voce al senso di alienazione e di distanza che spesso complica la sua identificazione con gli italiani e con la loro cultura. Il suo soggiorno nelle città del centro-nord mostra chiaramente il disagio dell’autrice nei confronti di questi luoghi e dei loro abitanti (1989: 87). Il distacco con cui osserva e descrive le città d’arte corrisponde a quello di una straniera qualsiasi. In questo contesto Harrison si dimostra incapace a confrontarsi culturalmente ed emotivamente con una parte dell’Italia che non sente propria. Per questa ragione, la osserva e la descrivere ricorrendo alle idee e alle opinioni di altri autori: “My head is full of arguments derived from literature” (259). Il volto moderno, artistico e storico delle città del centro-nord non corrisponde all’immagine dell’Italia che le hanno trasmesso i parenti.
Anche Paul Paolicelli ha saputo mettere ben in luce questo aspetto nel suo resoconto di viaggio. Durante il suo lungo soggiorno si confronta culturalmente con l’Italia moderna e con gli italiani che non sembrano avere molti tratti in comune con lui (2000: 25). Nonostante il divario che Paolicelli percepisce tra sé e gli italiani di oggi, al termine del suo libro dichiara di sentirsi vicino a questo paese e ai suoi abitanti. Questo legame è cresciuto e si è rafforzato grazie alle relazioni personali che si è creato durante il viaggio e grazie all’apprendimento della lingua italiana (299). Questi due elementi costituiscono le fondamenta del suo rapporto con le origini e testimoniano la positiva riuscita del suo viaggio.
Attraverso il viaggio in Italia, la ricerca dei luoghi di origine e l’incontro con i parenti, gli italo americani sperano di trovare risposte alle loro domande sull’identità etnica. Helen Barolini, che ha accettato la sua condizione di americana con qualche sfumatura di italianità dopo aver visitato il paese di sua nonna in Calabria (Gardaphé 1996: 125), proietta la sua esperienza nel suo celebre romanzo Umbertina attraverso il personaggio di Tina. Tina non accetta di essere definita italo americana e si oppone tenacemente a questa etichetta (Barolini 1979: 299). La ricerca della propria definizione etnica attraverso la figura guida della bisnonna Umbertina la porta a compiere un viaggio in Calabria simile a quello di Barbara Grizzuti Harrison. Nell’immediato, questa esperienza non sembra illuminare il personaggio sulla sua appartenenza etnica (366) piuttosto, come spiega la voce narrante, la confonde ancora di più: “The trip to Castagna had not brought revelation. It was, in fact, the summary of all her trips: hapless.” (372).
10 Il personaggio ideato da Barolini traspone nella finzione romanzesca ciò che Barbara Grizzuti Harrison e Paul Paolicelli hanno vissuto nella realtà, ovvero essersi sentiti vicini ai luoghi di origine attraverso il contatto simbolico con la natura e con il paesaggio. Helen Barolini accenna questa sintonia tra il personaggio di Tina e il territorio calabrese: “In some primal way she felt connected to the place—even as if she had been there before, had experienced the landscape.” (1979: 367) La frase successiva sembra mettere in dubbio l’autenticità di questo avvicinamento spirituale suggerendo invece che la familiarità di Tina col paesaggio scaturisce dai suoi ricordi letterari e non dalla sua appartenenza etnica: “Or was it remembrance from some fourteenth-century Italian painting in the Uffizi?” (367) Il dubbio che sorge nella mente del personaggio può essere letto come la sua incapacità di sentirsi in comunione con i luoghi che visita. Nel caso romanzato di Tina come in quello reale di Harrison e Paolicelli, si tratta di situazioni spesso difficili da accettare perché mostrano la povertà e le miseria in cui vivevano i loro antenati.
La domanda che posta da Barolini attraverso il personaggio di Tina si presta ad un’interpretazione che va oltre i confini del romanzo perché potrebbe venir letta come una critica al modo un po’ superficiale e semplicistico con cui molti italo americani credono di stabilire un contatto con il paese di origine. Barolini sembra suggerire che la loro familiarità col paesaggio, con la cucina, le tradizioni potrebbe provenire da fonti diverse rispetto al loro vissuto etnico: dalla pittura, dai film o dalla letteratura di viaggio. In molti casi, gli italo americani si rendono conto che questi elementi, da soli, non sono sufficienti a farli sentire in contatto con il paese di origine. Barbara Grizzuti Harrison, riflettendo sulla propria esperienza e sul suo rapporto con la natura si domanda: “Does one carry landscape in one’s body, in one’s genes?” (1989: 404). Le sue perplessità la inducono a pensare che per riconoscersi veramente nel paese di origine degli antenati, ci sia bisogno di punti di contatto più solidi e sicuri quali: miglior conoscenza della lingua; un rapporto stabile e prolungato con i parenti italiani; l’accettazione delle proprie origini senza vergogna; l’assenza di pregiudizi nei confronti dei propri antenati.
3. CONCLUSIONI
Ogni viaggio di riconciliazione ha le proprie dinamiche e si conclude in maniera diversa. Paul Paolicelli, dopo diversi incontri con i parenti, riesce a colmare le lacune nella vita di suo nonno e capire quanto c’è di italiano in lui. Il personaggio di Tina, ispirato dall’esperienza personale di Helen Barolini, trova un compromesso con la sua parte italiana dedicandosi agli studi nel campo dell’italianistica. Barbara Grizzuti Harrison, per ottenere alcune certezze dalla sua esperienza in Italia, per scoprire i molteplici significati del suo viaggio ha bisogno di rielaborare i suoi pensieri attraverso la scrittura: “I did not know, when I went to Italy, the nature of my undertaking, nor did I anticipate the meaning of my journey. I lived every day as I found it. I know know—writing this book had tought me this—that it was a journey of reconcialiation.” (1989: xi)
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