Febbraio 2008 | Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792 Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni |
ABSTRACT
Dopo aver tratteggiato brevemente un quadro dell’emigrazione italiana verso gli Stati Uniti, questo saggio si sofferma sugli scritti di due autori italiani americani di seconda generazione - Robert Viscusi e Maria Mazziotti Gillan – nei quali si riflette il rapporto conflittuale che i figli di immigrati hanno avuto con le proprie origini etniche, spesso avvertite come un ostacolo e quindi avvolte nel silenzio, per favorire la fusione nel melting pot. La faticosa riscoperta della lingua e della cultura italiana da parte dei due scrittori - dopo una lunga fase di oblio, a volte imposto, altre volte desiderato – e la loro produzione di tipo “psicanalitico”, avente per oggetto il cammino travagliato alla ricerca delle radici, sono testimonianza del dilemma che ha caratterizzato la seconda generazione, alla ricerca della propria identità, e della possibile soluzione.
1. UNA BREVE PANORAMICA SULL’EMIGRAZIONE ITALIANA IN AMERICA
L’emigrazione italiana negli Stati Uniti, che pure aveva avuto un impulso consistente già nei decenni conclusivi dell’Ottocento, raggiunse un’intensità ancora maggiore durante la prima metà del secolo seguente, in particolare negli anni compresi tra il 1900 e l’inizio del primo conflitto mondiale. Fu allora che si verificò un fenomeno di migrazione di massa che vide protagonisti inizialmente uomini in età da lavoro (dai 15 ai 45 anni) e in seguito intere famiglie provenienti in prevalenza dal sud Italia, spinte dalla miseria, dalla malaria, da cataclismi come il terremoto del 1908 a Messina e dall’arretratezza dei mezzi di produzione a cercare un destino più felice nelle terre d’oltremare. Centri urbani importanti come New York, Chicago o San Francisco videro fiorire singolari “Little Italy”, autentiche nicchie etniche dove gli immigrati, che comunque offrivano un contributo significativo alla società estesa attraverso le loro attività (principalmente nei settori delle opere pubbliche e manifatturiero), tendevano a riprodurre un ambiente familiare e protettivo che, pur nella consapevolezza della sua natura effimera e illusoria, potesse lenire il dolore legato alla lontananza, allo sradicamento, alla perdita di una terra tanto amata quanto oramai lontana.
Ben presto le “Little Italy” mutarono fisionomia e il loro significato venne risemantizzato dalla Storia. Dall’essere un rifugio sicuro, dove spesso si comunicava nel dialetto della regione di provenienza e si condividevano ricordi oltre a nuove esperienze, si trasformarono in luoghi di confino dalle pareti invisibili ma spesse, manifestazione tangibile della discriminazione che interessò le comunità degli italiani d’America nella prima metà del Novecento. Tale discriminazione venne alimentata dall’accusa di aver abbassato il tenore generale di vita negli Stati Uniti (gli immigrati accettavano di lavorare per paghe anche irrisorie), ma principalmente dal sospetto nei confronti di chi veniva ritenuto responsabile di molte delle attività di criminalità organizzata: i “gangster mafiosi”.
2. RICADUTE SULLA LINGUA
Ricadute degne di nota di questo fenomeno si ebbero da un punto di vista linguistico: mentre gli italiani si sforzavano di esprimersi e comunicare, anche fondendo parole provenienti dai loro due mondi di appartenenza (dando vita al cosiddetto broken English), l’inglese introduceva neologismi atti a definire, in modo apertamente spregiativo, chi facesse parte del nuovo gruppo etnico stanziale. Nacque così l’epiteto dago, probabile storpiatura del nome “Diego” oppure della parola inglese per pugnale, dagger, dal momento che si era diffuso lo stereotipo secondo il quale gli italiani fossero gente rissosa e pronta a ricorrere alle vie di fatto, gente dalla quale era meglio rimanere opportunamente separati. Altri appellativi negativi tristemente noti furono wop (forse da “guappo”, o più probabilmente da “WithOut Passport”, per indicare chi si recava alle porte degli Stati Uniti, a Ellis Island, senza i requisiti burocratici per essere legalmente ammessi), greaseball (dall’uso ritenuto eccessivo di brillantina da parte di molti uomini italiani) e guinea, soprannome ingiurioso inizialmente applicato agli africani e poi esteso nell’uso a tutti coloro che, come i calabresi, pugliesi o siciliani, avevano la pelle olivastra o ambrata, presentando sui loro volti la sfumatura errata di bianco.
3. LA RIMOZIONE DELLE RADICI
Onde evitare che le nuove generazioni, nate e cresciute in America, venissero stigmatizzate per via delle loro origini, attorno agli anni ’30 e ’40 dello scorso secolo due divennero le pratiche comuni all’interno delle famiglie: cancellare progressivamente la memoria linguistica, evitando accuratamente l’uso dell’italiano, così da favorire l’integrazione dei giovani nella mainstream America, oppure incoraggiare un cambiamento nel codice linguistico e comportamentale di bambini e adolescenti a seconda che si trovassero all’interno o all’esterno delle “Little Italy”. In entrambi i casi, la rinuncia a parte della propria identità culturale e la frantumazione della personalità implicavano una grave perdita, quella mancanza di tasselli fondamentali alla conoscenza di sé che la letteratura prodotta dagli italiani d’America di seconda generazione ha ampiamente documentato. Si potrebbe affermare che la ricerca delle proprie origini, la ricostruzione amorevole di un prezioso tessuto familiare siano tra le tematiche principali delle loro opere. Come già ha osservato Lina Unali (Unali 2007: 71), ciò che colpisce nella narrativa di autrici figlie di immigrati, come Maria Fama, Toni Libro, Chickie Farella o Rachel Guido DeVries, è la presenza costante di figure familiari, l’insistere sul ruolo di “depositarie della tradizione” da loro ricoperto, con delle sfumature a volte quasi provocatorie, come se, attraverso la scrittura, si potesse elaborare una strategia per resistere alle pressioni del melting pot e mantenere in vita un passato degno di essere preservato.
In questo studio ci si soffermerà sulle opere di due autori coetanei tra i più importanti nel panorama della letteratura italiana americana contemporanea che, nei loro scritti, hanno affrontato il tema del silenzio che ha avvolto la memoria dell’Italia nella fase iniziale della loro vita, e della successiva scoperta della parola come cura, come strumento psicanalitico atto a recuperare quanto precedentemente rimosso, ricomponendo in questo modo il mosaico della propria identità: Robert Viscusi (poeta, critico e docente di letteratura inglese e americana al Brooklyn College, City University, New York), e Maria Mazziotti Gillan (artista, critico, direttore del programma di scrittura creativa al Binghamton University, State University of New York, e fondatrice del Poetry Center at Passaic County Community College, Paterson).
4. L’ESPERIENZA DI ROBERT VISCUSI
L’opera forse più significativa di Robert Viscusi è il suo romanzo intitolato Astoria (1996), vincitore dell’“American Book Award” nello stesso anno della sua pubblicazione. Il legame tra il testo e i processi di rimozione e successivo recupero del passato è posto in evidenza dall’autore stesso, quando afferma che Astoria è il suo “contribution to psychiatric literature” (Viscusi 1996: 15). Anche la tecnica narrativa adottata contribuisce a stringere tale legame: Viscusi sceglie il “flusso di coscienza”, la libera associazione di pensieri e, nel corso della narrazione, sembra quasi ricoprire il duplice ruolo di “paziente” che, attraverso il colloquio clinico tenta di dare corpo al vuoto, e di “analista” poiché, dal momento che la sua testimonianza costituisce lo specchio di una generazione, curando se stesso con la parola può contribuire alla guarigione di chi si rifletta nella sua esperienza. Proprio per questa sua peculiare natura risulta difficile delineare la trama del romanzo. La narrazione, che procede per continui balzi temporali, è concentrata sul protagonista, Robert Viscusi, che nel 1986, trovandosi a Parigi per tenere un ciclo di conferenze, riflette per la prima volta sulla morte della madre (evidente metafora della perdita della madre-patria) avvenuta due anni prima, mentre si trova di fronte alla tomba di Napoleone, scoprendo una singolare associazione tra le due figure, prima di allora mai sospettata. La sua recherche viene innescata dalla contemplazione dell’insegna di un negozio parigino che recita La Storia. Da lì, la sua mente comincia ad avvolgersi a ritroso, tornando ad Astoria, il quartiere di New York dove aveva trascorso l’infanzia al fianco di altre famiglie americane di origini italiane. Quanto detto fino a questo momento potrebbe sembrare di difficile intelligenza se non ci si sofferma su un particolare, svelato dall’autore nella parte finale del romanzo: nella famiglia di Viscusi non si parlava l’italiano; brevi frasi erano pronunciate solo dagli adulti, per comunicare velocemente tra di loro, ma ai bambini la lingua delle origini era interdetta poiché, come la madre non mancava di ripetere, “one only succeeds in America by forgetting” (Viscusi 1996: 70), il passato doveva essere avvolto nell’oblio. Nel racconto metaforico di Viscusi, la parola Astoria diventa quindi la negazione de la Storia, trasformandosi in una A-Storia letta con l’alfa privativo che tradisce il processo di rimozione. Anche l’associazione con Napoleone risulta più chiara alla luce della cancellazione linguistica. Come tanti immigrati, anche il corso di origine italiana Napoleone era riuscito ad emergere in Francia proprio rinnegando, occultando le proprie origini, trasformandosi così in insider dall’essere un outsider. Nelle parole di Viscusi, Napoleone era come gli italiani in America, un “parvenu, […] noveau riche” (Viscusi 1996: 114), disposto a qualsiasi sacrificio pur di emergere (“willing to do anything to get ahead”, ibidem). E’ interessante indagare anche il motivo per cui questo processo di recupero dei contenuti rimossi possa avvenire soltanto a Parigi: in primo luogo la capitale francese è posta quasi “a metà strada” tra l’America e l’Italia; inoltre, è solo quando anche il protagonista si trova in una situazione di straniamento, quando soggiorna in un territorio lontano da esperienze familiari, che può comprendere e rivivere la sensazione di spaesamento e alienazione avvertita dalla prima generazione di immigrati. Solo allora l’archeologia del ricordo può avere inizio. Alla fine del romanzo, Viscusi offre al lettore risultati tangibili del suo processo di guarigione: l’autore tiene a precisare che ha iniziato a studiare l’italiano; la struttura del romanzo si fa più lineare; inoltre il pronome soggetto che, all’inizio del testo, appariva frammentato nelle sue molteplici alternative (durante la narrazione Viscusi si riferiva a se stesso utilizzando variamente, “he”, “you”, “we”, “they”, come se nelle numerose sfaccettature del suo essere si potessero riflettere le esperienza e i traumi - diversamente articolati - dei suo lettori), viene sostituito in conclusione di storia da “I”, a significare che l’io diviso è stato finalmente ricomposto e che l’origine italiana e l’adesione alla American way of life possono di fatto convivere e compenetrarsi nella stessa identità.
5. IL CAMMINO DI MARIA MAZZIOTTI GILLAN
Il percorso di Maria Mazziotti Gillan presenta analoghe premesse e difficoltà. Nata nel 1940 a Paterson, New Jersey, da genitori originari della provincia di Salerno, la scrittrice ha fatto del suo vissuto familiare oggetto di produzione poetica soltanto in età matura, pubblicando quattro raccolte di poesie nell’arco di poco più di dieci anni: Where I Come From (1995), Things My Mother Told Me (1999), Italian Women in Black Dresses (2002), e All That Lies between Us (2007). Il titolo del primo volume è particolarmente significativo, sintomo del desiderio da parte dell’autrice di riconoscere ed esplorare origini in un primo tempo taciute, volutamente rimosse, a tratti quasi occultate. Non che Maria Mazziotti Gillan ignorasse l’italiano, ampiamente utilizzato nell’ambiente familiare, come si legge nel componimento dal titolo “Public School No. 18, Paterson, New Jersey”, dove la lingua diviene magica creatrice di una rassicurante atmosfera domestica (“At home, my words smooth in my mouth,/ I chatter and am proud”- Gillan 2007: 16). Ciò che si è innescato, nel suo caso, è stato un pericoloso processo di cancellazione – dapprima indotta, poi progressivamente voluta e consapevole - dell’identità etnica, processo che ha avuto il suo culmine nella fragile età adolescenziale, quando le pressioni del melting pot si sono fatte più cogenti. Come si legge nella poesia “Growing up Italian”, da piccola Maria percepiva l’italiano come una lingua ‘liscia e dolce’, “smooth and sweet” (Gillan 2007: 26), in netto contrasto con l’inglese, che le cadeva addosso ‘fitto e tagliente come grandine’, “thick and sharp as hail” (Ibidem), generando in lei un timore che si trasformava in silenzio, in assenza di linguaggio e incapacità d’espressione. Le figure delle insegnanti - rigide e spettrali creature, prive di sensibilità e di qualsiasi consapevolezza interculturale - la esortavano con il loro atteggiamento sprezzante a cancellare la sua “identità italiana”, a rimuovere ciò che la bambina amava, ma che era considerato fonte di diversità e di ridicolo, ostacolo a un futuro prospero d’integrazione (si veda, ad esempio, il componimento “Talismans”). Come Maria sottolinea in un suo saggio intitolato “Why I took back my name” (‘perché ho ripreso il mio nome’), sin dai tempi della scuola il nome Mazziotti, appesantito dalle doppie e dalle troppe vocali, veniva sempre storpiato nella pronuncia americana, suscitando in lei un notevole imbarazzo, un sentimento tanto opprimente quanto ingiustificato di vergogna. Dalla somma di tali fattori ha origine lo sforzo da parte dell’autrice di essere accettata, di omologarsi, di fondersi completamente nel tessuto americano; ed ecco che si moltiplicano i suoi tentativi di cambiare il nome di battesimo in Mary o Marie (pur rimanendo Maria nel contesto familiare), di domare la massa di capelli ricci che la distingueva dagli altri, di schiarire con il trucco la pelle olivastra, di ricorrere alla chirurgia plastica, per rendere meno evidente, “less obtrusive” (Gillan 1998: 31), il suo naso, quello che lei chiama il suo “big Italian nose” (Ibidem). Le poesie documentano come tale processo metamorfico si sia esteso, nella fervida immaginazione della scrittrice adolescente, anche alle figure familiari, alterando principalmente la fisionomia del padre, di quel capofamiglia che, con la sua gamba storpia, i denti radi e ingialliti, il broken English e soprattutto l’umiltà dei suoi numerosi e faticosi lavori, mal si adattava al sogno americano di successo e notorietà. Nel componimento “Arturo”, si legge di come la giovane Maria dicesse a tutti che il nome di suo padre era “Arthur”, di come mentalmente lo vestisse con un abito elegante e raffinato, trasformandolo nell’icona del genitore ideale, liberamente tratta da una commedia americana degli anni ’50 dai contenuti leggeri e privi di spessore. Anche la scelta del coniuge sembra essere stata influenzata da simili ragioni: con i suoi occhi azzurri, i capelli biondi e il cognome anglosassone Gillan, suo marito le avrebbe dato ‘bimbi biondi con occhi azzurri/ che si sarebbero amalgamati bene’, “blond, blue-eyed children/ who would blend right in” (Gillan 2007: 28).
Come nel caso di Robert Viscusi, comunque, l’esigenza di comporre in una immagine unitaria i frammenti della propria identità, il bisogno di sanare una condizione di malattia, ha fatto sì che il silenzio di Maria venisse interrotto dalla riscoperta del potere della propria voce individuale: da adulta, Maria inizia a scrivere e fa delle sue poesie il diario di una rinascita, della riappropriazione e ricostruzione dell’io. Ed ecco che poesie come la già citata “Arthur” si concludono con un monito, questa volta rivolto all’America, al silenzio e all’ascolto dell’altro da sé: “Listen, America/ this is my father, Arturo,/ and I am his daughter, Maria,/ Do not call me Marie” (Gillan 2007: 24), ‘Ascolta, America, / questo è mio padre, Arturo,/ e io sono sua figlia, Maria. Non chiamarmi Marie’. Una conclusione simile viene scelta anche per il componimento “Growing up Italian”, nel quale il discorso sembra ampliarsi abbracciando ogni etnia e, riecheggiando le parole di “Song of Myself” di Walt Whitman, si scioglie in un nuovo inno di accettazione e celebrazione del self, intonato da tutte le genti ‘nere/ scure/ rosse/ gialle/ e color d’oliva’ (“black/ brown/ red/ yellow/ olive skinned people” – 30), e nella orgogliosa affermazione del suo essere italiana americana: “I celebrate/ my Italian American self” (Gillan 2007: 30).
6. CONCLUSIONI
Gli scrittori delle generazioni più recenti stanno affrontando il problema dell’identità con approcci tra i più diversi, che ora esprimono analoghe difficoltà rispetto a quelle di Viscusi e Mazziotti Gillan, ora testimoniano tempi più maturi, in cui un artista di origine italiana può diventare mainstream e produrre opere di grande successo senza passare per il difficoltoso e intricato cammino delle radici. Fatto sta che gli autori di seconda generazione hanno aperto una breccia evidente in un muro che sembrava impenetrabile, contribuendo a riscoprire quella Storia degli italiani in America che presentava ancora troppe pagine da scrivere.
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