Apprendere insieme una lingua e contenuti non linguistici
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Questo testo è rivolto agli insegnanti curiosi di sperimentare percorsi didattici in cui la lingua viene usata come veicolo per l’acquisizione di altre discipline. Si tratta di una realtà in cui già molti colleghi si trovano ad operare: nella nostra scuola, infatti, l’italiano è per l’alunno immigrato lingua oggetto di studio e lingua per lo studio –in un’integrazione tanto più evidente quanto più lo studente è in grado di padroneggiare le abilità di base e può quindi usare la lingua in maniera sempre più agevole a autonoma. Il contributo di Serragiotto si muove nel tentativo di offrire coordinate precise attraverso le quali tanto l’insegnante che inconsapevolmente promuove una didattica veicolare quanto quello che si accinge per la prima volta a operare secondo una prospettiva C.L.I.L., riescono a cogliere potenzialità insite nella metodologia, risolvendo al tempo stesso alcune delicate questioni. In effetti, è riconosciuto da tempo che un percorso veicolare induce un maggior coinvolgimento degli alunni (la lingua non è fine a se stessa, ma è calata in un contesto in cui è il contenuto della materia a costituire il focus dell’apprendimento) nonché un aumento quantitativo e qualitativo di esposizione alla materia (nel senso che la lingua diventa trasversale alle materie e sono richieste elaborazioni e negoziazioni che in genere non si hanno nell’insegnamento tradizionale), è altrettanto evidente però che, allo stato attuale delle ricerche, rimangono alcuni nervi scoperti, quali: la valutazione (ovvero la necessità di distinguere la competenza disciplinare da quella linguistica), la formazione (per la quale ci si auspica una certificazione adeguata che riconosca le competenze acquisite dagli insegnanti che operano in ambito C.L.I.L) e uno studio mirato delle strategie didattiche da adottare al variare dell’età degli studenti. Sullo sfondo di queste considerazioni, Serragiotto definisce il quadro dell’uso veicolare delle lingue in Europa e più in particolare in Italia. Dati alla mano, il lettore può facilmente intuire come il cantiere aperto sia promettente: alcune istituzioni universitarie promuovono spazi di ricerca e di progettualità (come il laboratorio C.L.I.L dell’Università Ca’ Foscari), si moltiplicano le iniziative editoriali, se ne parla sempre più ai convegni e ai corsi di aggiornamento. Dalla lettura del saggio esce quindi un affresco a tinte vivaci: la metodologia può vivificare la prassi didattica e rendere lo studio della lingua più elastico ed aperto al futuro. Un ambito del tutto particolare che comunque meriterebbe maggiore attenzione è quello che riguarda esperienze formative extrascolastiche, come i corsi di lingua promossi dagli enti e dalle associazioni a favore dei migranti (Comuni, sindacati, associazioni di categoria, ecc.). Se pensate in una prospettiva C.L.I.L –per cui la lingua verrebbe assimilata mediante un corso di informatica, tanto per fare un esempio- queste iniziative risponderebbero a bisogni e interessi reali e risolverebbero problemi di fronte ai quali spesso l’insegnante si sente disarmato, come il classico calo di presenze a corso avviato.
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