Questo testo è un capitolo di P.E. BALBONI, Prole comuni, Culture diverse. Guida alla comunicazione interculturale, Venezia, Marsilio Editore, 1999, pubblicato per concessione dell’autore. Vi si tratta l’organizzazione di corsi di formazione su questo tema, secondo modelli che possono essere utili per formare le famiglie italiane; ma soprattutto si danno alcune griglie di osservazione della propria cultura e di quella altrui, per un processo di autoformazione continua. |
Apprendere e insegnare la comunicazione interculturale |
|
“L’acquisizione delle abilità di comunicazione interculturale passa attraverso tre fasi: consapevolezza, conoscenza e abilità. Tutto comincia con la consapevolezza: il riconoscere che ciascuno porta con sé un particolare software mentale che deriva dal modo in cui è cresciuto, e che coloro che sono cresciuti in altre condizioni hanno, per le stesse ottime ragioni, un diverso software mentale. [...]
Poi dovrebbe venire la conoscenza: se dobbiamo interagire con altre culture, dobbiamo imparare come sono queste culture, quali sono i loro simboli, i loro eroi, i loro riti [...].
L’abilità di comunicare tra culture deriva dalla consapevolezza, dalla conoscenza e dall’esperienza personale”
(Hofstede 1991: 230-231).
Crediamo che questa citazione, tratta da uno dei padri della ricerca sulla comunicazione interculturale, sia illuminante sul piano didattico. Riprendiamo le tre nozioni evidenziate da Hofstede: consapevolezza, esperienza ed abilità.
Il presente volume ha come scopo quello di portare alla consapevolezza della varietà del mondo e di come questa influisca sull’interazione tra persone che appartengono a culture differenti. Nel complesso del volume, questo ultimo capitolo, specificamente didattico, illustrerà come ogni persona, in maniera autonoma o in contesti di formazione, possa trarre vantaggio dalla propria esperienza di comunicazione interculturale, come possa continuare ad imparare dalla propria interazione con membri di altre culture, costruendo giorno dopo giorno la propria abilità, che nel nostro linguaggio specifico abbiamo sempre definito “competenza comunicativa interculturale”.
Riprendiamo ora la “filosofia” interculturale che abbiamo esposto nel paragrafo 0.3 per costruire su quelle basi una proposta didattica coerente con tutta l’impostazione del volume. Se è vero che entrare in una prospettiva interculturale non significa abbandonare i propri valori ma (a) conoscere gli altri, (b) tollerare le differenze almeno fino a quando non entrano nella sfera dell’immoralità che, secondo i nostri standard, non intendiamo accettare, (c) rispettare le differenze che non ci pongono problemi morali ma che rimandano solo alle diverse culture, (d) accettare il fatto che alcuni modelli culturali degli altri possono essere migliori dei nostri e, in questo caso, (e) mettere in discussione i modelli culturali con cui siamo cresciuti; e se è vero che l’interculturalità come l’abbiamo definita noi è un atteggiamento di fondo, che prende atto della ricchezza insita nella varietà, che non si propone l’omogenizzazione ma mira soltanto di permettere un’interazione il più piena e fluida possibile tra le diverse culture, ne consegue che formare alla comunicazione (e, più in generale, ad un atteggiamento) interculturale significa formare:
a) persone che consapevolmente scelgono quali modelli comunicativi e culturali accettare, tollerare, rifiutare nelle varie situazioni in cui si trovano ad operare
b) operatori che sanno evitare i conflitti involontari dovuti alle differenze culturali
c) protagonisti di un mondo che alle pulizie etniche sostituiscono la curiosità, il rispetto, l’interesse per soluzioni diverse da quelle proprie.
Con queste finalità un corso di formazione alla comunicazione interculturale non è più un semplice “addestramento”, un training finalizzato ad un bisogno immediato, ma si colloca nella sfera dell’educazione, che cambia la natura delle persone e, indirettamente, quella della società in cui viviamo.
Proporremo anzitutto, nei paragrafi 7.1 e 7.2, due strumenti che chiunque (un formatore di personale oppure una persona che vuole migliorare la propria competenza comunicativa interculturale) può portare con sé vita natural durante e continuare a compilare, raccogliendovi il frutto delle sue osservazioni.
In 7.3 daremo infine alcune indicazioni sulla metodologia della formazione in questo settore.
7.1 Uno strumento per l’osservazione culturale
Una “cultura” è l’insieme dei “modelli culturali” messi in atto da un popolo per rispondere a bisogni di “natura”: nutrirsi, procreare, proteggersi dal freddo, vivere in gruppo, ecc.
Poiché siamo cresciuti all’interno dei modelli della nostra cultura, ne siamo generalmente inconsapevoli: ci sembra ad esempio “naturale”, mentre è “culturale”, che ci sia un capofamiglia e non una capofamiglia, che non si debba picchiare chi ha idee diverse dalle nostre (ma sono passati pochi decenni dal fascismo, dagli anni di piombo... e negli stadi di calcio ci si picchia oggi per tifo, neppure per idee), che la gerarchia sia fatta in un certo modo, che nelle scuole e nelle università un docente faccia domande di cui sa già la risposta, e così via.
E’ quindi necessario saper osservare la propria cultura mentre si osserva quella altrui. Gli antropologi hanno individuato parametri e metodiche di osservazione sofisticatissimi; ma per i nostri fini è meglio ricorrere ad una nozione sociolinguistica più semplice ma più maneggevole, cioè quella di “ambito” situazionale. Per ogni ambito vengono indicati alcuni modelli culturali che si possono osservare per comprendere come davvero funziona la nostra cultura, per osservarci dall’esterno, così come ci vedono membri di altre culture con i quali vogliamo comunicare.
Il modello che proponiamo qui di seguito è basato su Balboni 1996a, a cui si rimanda per approfondimenti. Si può usare questa tassonomia creando un file di banca dati in computer oppure in un normale quaderno a fogli mobili con una voce per ogni pagina: in questa griglia si può possono poi registrare
a. le riflessioni sui modelli culturali del nostro paese
b. le osservazioni che si fanno mano a mano le vicende professionali o i momenti di vacanza ci portano in contatto con altre culture.
Il fatto di avere delle voci da osservare porta a “vedere” degli atteggiamenti, dei gesti, dei valori della nostra cultura che prima passavano inosservati, quasi fossero naturali e non culturali, e che nella stessa scheda queste osservazioni si mescolino con quelle relative ad altre culture, mettendo le basi per un comparazione interculturale.
Che sia realizzata su computer o su carta, questa tassonomia rappresenta uno strumento semplice ma efficace per uscire dagli stereotipi e creare, se possibile, dei sociotipi.
I domini che abbiamo selezionato, e che abbiamo articolato in una serie di voci che ciascuno può modificare o integrare a seconda dei propri interessi, sono i seguenti:
DOMINIO 1: LE RELAZIONI SOCIALI
a) Rapporto con uno straniero b) Rapporto giovani / adulti c) Rapporto con i superiori d) Corteggiamento, relazione amorosa e) Relazioni omosessuali f) Uso di offrire sigarette, bevande, ecc. g) Modo di riparare ad errori, scusarsi eccetera |
DOMINIO 2: L'ORGANIZZAZIONE SOCIALE
a) Sistema istituzionale ed elettorale b) Sistema giudiziario c) Sistema bancario e finanziario d) L'industria e) L'agricoltura f) Il terziario g) Le tele-comunicazioni h) I trasporti i) I mass media j) La criminalità k) La/e religione/i eccetera |
DOMINIO 3: LA CASA E LA FAMIGLIA
a) Dimensione della famiglia b) Ruoli nella famiglia c) Rapporto genitori-figli d) Autonomia dei figli da ragazzini, età dell’uscita da casa e) Tipologia della casa f) Tradizione e innovazione nelle case g) Proprietà e affitto di abitazioni h) Pulizia della casa i) La casa di città j) La casa di paese k) La casa in campagna l) Interesse della famiglia per la casa: pulizia, restauro, ecc. eccetera |
DOMINIO 4: LA CITTA'
a) Rapporto città-cittadina-paese-campagna b) Rapporto centro-periferia c) Traffico privato e traffico pubblico d) Strutture produttive e città e) Divertimento, sport e città f) Città e cultura g) Il governo della città h) La città e gli abitanti: come questi si sentono “cittadini”, padroni della città i) Città e sostegno alle famiglie: asili, ricoveri, ecc. j) Città e scuole k) I problemi della droga eccetera |
DOMINIO 5: LA SCUOLA
a) Scuola privata e pubblica b) Livelli scolastici c) Prestigio sociale della scuola, degli insegnanti d) Rapporto scuola-mondo del lavoro e) Tradizione e innovazione nella scuola f) Ruolo delle famiglie nella scuola g) Le lingue straniere h) Scuola come formazione personale e/o professionale eccetera |
DOMINIO 6: I MASS MEDIA
a) MM pubblici e privati b) Autonomia dei MM, MM e politica c) I giornali quotidiani d) I settimanali politici e culturali e) I settimanali per pubblici speciali (donne, sport, ecc.) f) La pornografia g) Televisione: informazione e intrattenimento h) La radio i) Il cinema d'autore e quello popolare j) Presenza di mass media stranieri k) Letteratura d'autore e d'evasione eccetera. |
7.2 Uno strumento per l’osservazione della comunicazione interculturale
Molti esempi contenuti contenuti in questo libro, così come le raccolte aneddotiche della letteratura sulla comunicazione interculturale in azienda e come i siti Internet sulla comunicazione interculturale (cfr. 8.1) sono obsoleti nel momento in cui vengono pubblicati: la rapidità degli scambi internazionali che portano le persone e le immagini televisive e multimediali in giro per il mondo fanno sì che l’interscambio di modelli culturali e di modelli di comunicazione interculturale sia fluidissimo, costante, inarrestabile e non descrivibile in tempo reale.
Al contrario, la struttura concettuale che abbiamo posto alla base di questo volume non si modifica con il tempo: il concetto di competenza comunicativa interculturale collocata sullo sfondo di alcuni valori culturali e di alcuni fattori di particolare rischio comunicativo (essenzialmente, quanto discusso nei paragrafi 1.6, 1.7 e nel capitolo 2) ci pare un modello universale, almeno allo stato attuale della ricerca, ci pare cioè in grado di descrivere il fenomeno indipendentemente dal luogo e ieri come oggi o domani – fatto salvo il cambiamento indotto dalla comparsa di strumenti comunicativi di massa, del computer, ecc.
Se è vero che il modello di descrizione della competenza comunicativa interculturale è affidabile, allora chi opera in ambiente internazionale può creare, come abbiamo detto già per la griglia presentata in 7.1, un file oppure impostare un quaderno a fogli mobili indicando gli elementi della competenza comunicativa interculturale da tenere sotto osservazione quando si interagisce con stranieri, quando si va all’estero, quando si raccontano aneddoti a tavola, quando si guardano film stranieri.
L’elenco è implicito nell’indice di questo volume e può essere arricchito, specialmente per quanto riguarda i valori culturali, da alcune voci riprese dalla griglia del paragrafo precedente. I modelli culturali e comunicativi da osservare sono:
Valori culturali di fondo
a) Il tempo b) La gerarchia e il potere c) Il rispetto sociale e la “correttezza politica” d) Attribuzione e mantenimento dello status: la necessità di salvare la faccia |
Uso del corpo per fini comunicativi
a) Sorriso b) Occhi c) Espressioni del viso d) Braccia e mani e) Gambe e piedi f) Sudore (e profumo) g) Rumori corporei h) Toccarsi i genitali i) Distanza frontale tra corpi j) Contatto laterale k) Il bacio l) Lo spazio personale nel luogo di lavoro |
Uso di oggetti per fini comunicativi
a) Vestiario b) Status symbol c) Oggetti che si offrono: sigarette, liquori, ecc. d) Regali e) Danaro f) Biglietti da visita |
La lingua
a) Tono di voce b) Velocità c) Sovrapposizione di voci d) Superlativi e comparativi e) Forme interrogativa e negativa f) Altri aspetti grammaticali g) Titoli e appellativi h) Registro formale/informale i) Struttura del testo |
Mosse comunicative
a) Abbandonare b) Attaccare c) Cambiare argomento d) Concordare e) Costruire f) Difendersi g) Dissentire h) Domandare i) Esporsi j) Incoraggiare k) Interrompere |
l) Ironizzare m) Lamentarsi n) Ordinare o) Proporre p) Riassumere q) Rimandare r) Rimproverare s) Scusarsi t) Sdrammatizzare u) Tacere v) Verificare la comprensione |
Situazioni comunicative
a) Dialogo b) Telefonata c) Conferenza d) Presentazione della propria azienda, dei propri prodotti e) Partecipazione a cocktail party, pranzo o cena f) Riunione, lavoro di gruppo |
7.3 Insegnare comunicazione interculturale
I due paragrafi precedenti si basano su un’idea di apprendimento auto-diretto e continuo che, a nostro avviso, rappresenta la modalità formativa naturale per una persona impegnata nel fare quotidiano.
Tuttavia, riprendendo la metafora informatica, per imparare ad imparare è necessario essere “formattati” in maniera giusta. La formattazione è costituita dall’esperienza di apprendimento. La maggior parte delle persone che operano in aziende, università e istituzioni diplomatiche hanno nella propria storia di formazione due tipi di esperienze:
a) insegnamento frontale in aula
Dalla scuola all’università, alla maggior parte dei corsi di formazione aziendali la modalità di formazione ritenuta naturale è quella per cui chi “sa” veicola la propria conoscenza a chi “non sa” verbalmente o con il supporto di qualche lucido o video
In realtà non è possibile parlare frontalmente della comunicazione interculturale, non è possibile “insegnarla”, se non nei termini che abbiamo cercato di proporre in questo studio: intendendo cioè l’insegnamento frontale come sensibilizzazione al problema e fornendo strumenti di analisi e catalogazione.
Ma se non sono condotte con una metodologia precisa (vedi sotto), le lezioni frontali servono esattamene come le dimostrazioni di tecnici informatici che montano un programma e, cliccando a velocità inumana su icone e bottoni e cartelle e quant’altro, “spiegano” al povero utente come funziona il programma: sul momento gli pare anche di aver capito ma, uscito il tecnico, non è più neppure capace di avviare il programma;
b) simulazioni più o meno strutturate e controllate
Le simulazioni rappresentano la modalità “alla moda” nei corsi di formazione aziendale, dove sono stati importati dalla tradizione americana che, a differenza di quella italiana, utilizza moltissimo la simulazione dalla scuola primaria al college. Di fronte a questa importazione dal fascinoso nome inglese di roleplay gli adulti italiani si rassegnano, ma lo fanno malvolentieri.
D’altro canto non si possono impostare giochi di ruolo interculturali perché sono irrimediabilmente falsi: i problemi interculturali sono di software di sistema, cioè di cultura profonda e inconscia, di meccanismi di cui non siamo consapevoli, e nelle simulazioni si lavora solo su ciò di cui si è consci e consapevole [1] .
Nessuna delle due modalità, né quella tradizionale né quella innovativa, è quindi funzionale all’insegnamento della competenza comunicativa interculturale. Non lo è perché, parafrasando il discorso di Wilhem Von Humboldt sull’insegnamento delle lingue straniere: “non si può insegnare [la comunicazione interculturale], si può al massimo creare le condizioni perché qualcuno l’apprenda”.
Per individuare una metodologia, un “come”, dobbiamo dunque partire da una riflessione sui fini, sul “perché”. In questa prospettiva dunque possiamo dire che la formazione del personale aziendale, accademico e diplomatico impegnato in ambiente multiculturale può aver senso, a nostro avviso, solo se essa
a) mira a rendere consapevoli le persone dei problemi della comunicazione interculturale
b) le rende consapevoli del fatto che non si tratta di differenze esotiche, di superficie, del tipo “il mondo è bello perché è vario”, ma che si tratta di diversi software mentali, che operano cioè alla radice stessa dell’interazione in un evento comunicativo
c) offre alle persone degli strumenti concettuali, semplici e chiari (ma non per questo banalizzati, anche se dai cenni si può cogliere che i problemi della competenza comunicativa interculturale sono più sofisticati di quelli che abbiamo scelto di trattare esplicitamente) quali quelli che abbiamo esposto nel capitolo 1, relativamente alle nozioni di comunicazione, di competenza comunicativa e di parametri di valutazione, nonché quelli esposti nel capitolo 2 relativo ai valori culturali che fanno da sfondo agli eventi comunicativi
d) offre alle persone degli strumenti operativi, quali le liste di punti da osservare che abbiamo presentato nei due paragrafi precedenti, in questo capitolo; qualunque azienda o università può facilmente trasformare quegli elenchi in un software, basato su un programma di data base, da dare in dotazione al proprio personale per l’osservazione continua - e la condivisione delle osservazioni con il resto dell’azienda attraverso una banca dati aziendale che raccolga le esperienze individuali
e) soprattutto, convince le persone che la realtà muta ogni giorno, per cui le varie culture - sempre più interrelate - si modificano, si integrano, per altri versi si ri-differenziano, per cui è necessario continuare ad osservare giorno dopo giorno, anno dopo anno, con l’occhio dello scienziato che osserva, cataloga e interpreta ciò che avviene (sulla base delle chiavi che ha avuto nei corsi di formazione o in volumi come questo)
f) fa scoprire che la comunicazione interculturale è certo complessa, crea problemi, rallenta le operazioni, ma che l’alternativa è una società omologata che costringe tutti a rinunciare alle proprie radici e ai propri valori in nome di valori più universali - scelti da chi? Fa scoprire, in altre parole, concludendo la metafora informatica, che il mondo perfetto non è quello in cui tutti hanno Windows o Macintosh o Unix, ma in cui ciascuno ha il sistema operativo che preferisce o che si è trovato nel suo computer e che questo non gli crea difficoltà nel collegarsi con altri.
Su queste premesse, nell’organizzazione di corsi di formazione la metodologia non potrà che essere quella che
a) parte dalla condivisione delle esperienze di comunicazione interculturali effettivamente vissute dai partecipanti al corso, esperienze, aneddoti, incidenti, impressioni che vengono elicitate dal formatore fin dall’inizio della sessione;
b) prosegue fornendo la griglia di analisi, quale ad esempio quella indicata in 7.2
c) insegna ai corsisti ad osservare spezzoni di video:
- film, in cui attori e registi si sforzano di essere “naturali” e quindi di imitare consapevolmente gesti, distanze, mosse della vita quotidiana, rendendole però facilmente osservabili proprio perché arte-fatte
- talk show e spettacoli di varietà in cui ci sono interazioni spontanee
- telegiornali, tribune politiche, ecc., in cui abbiamo monologhi che si alternano a dialoghi
- registrazioni autentiche di lavori di gruppo, di presentazioni aziendali, di conferenze, di negoziazioni e trattative.
Non importa, in molti di questi casi, se non si capisce la lingua: la massa di informazioni non-verbali e relazionali che si può ricavare è immensa e il fatto di non poter contare sull’input verbale costringe, finalmente, ad osservare tutto il restante meccanismo di comunicazione.
Lo scopo di questa attività non è quello di istruire sui contenuti ma piuttosto di far apprendere un metodo di osservazione, e quindi la sintesi conclusiva dell’incontro non sarà basata sulle informazioni che si sono date e che sono servite da esemplificazione, ma sul modo in cui i partecipanti al corso sono riusciti ad osservare i personaggi dei video, ad osservare se stessi “in differita”, richiamando alla mente episodi del proprio vissuto che a questo punto assumono una luce nuova e vengono interpretati in maniera diversa.
Come si nota, dunque, l’esperienza personale dei soggetti i formazione rappresenta il punto di partenza e quello conclusivo di un percorso che, dovendo solo rendere consapevoli e dare strumenti, non richiede più di due giornate di lavoro e che può essere svolto anche con gruppi relativamente numerosi: condividere le esperienze di 20 persone arricchisce molto di più di quello che è possibile in un gruppo elitario di 5 partecipanti.
Quanto detto finora si riferisce a corsi specificamente organizzati per la formazione interculturale di quadri, funzionari, tecnici, dirigenti, ecc. Un caso diverso è rappresentato dall’introduzione di tematiche interculturali all’interno dei normali corsi di formazione linguistica, sia nelle scuole superiori che nelle università e nelle aziende.
Esiste una letteratura ormai consolidata sul tema, che abbiamo cercato di riorganizzare in maniera innovativa in Balboni 1996 [2] , ma è una letteratura spesso basata sugli stereotipi anziché sui sociotipi. Inoltre, nell’insegnamento linguistico l’attenzione è e rimane ancor oggi eccessivamente concentrata sull’aspetto verbale e ignora di fatto le componenti non verbali: la correttezza morfosintattica e la fluidità rappresentano i valori positivi, dimenticando che si può essere corretti e fluent fin che si vuole ma se non si raggiungono i propri scopi socio-pragmatici, che possono essere raggiunti solo se si comunica anche sul piano socio-culturale, non si sa usare la lingua straniera.
In sintesi, diremo che non si può relegare l’aspetto culturale solo ad un momento dell’Unità Didattica, ma che la riflessione (inter)culturale deve pervadere tutto l’insegnamento, deve sgorgare ogni volta che i testi e i materiali didattici usati ne offrono lo spunto.
1 L’opinione opposta è sostenuta – in maniera non sufficientemente convincente, a nostro avviso – in alcuni saggi e relazioni di esperienze da Dietmar Larcher e Helga Moser Rabenstein in un volume molto interessante, Baur-Montali 1994. Il “vizio” di fondo di questi approcci basati sulla simulazione di scambi comunicativi in ambiente interculturale è che essi tendono ad applicare il principio “ti butto in acqua: adesso nuota”, che sul piano didattico può funzionare con bambini ma non è adatto ad adulti che hanno poco tempo, sono fortemente razionali nel loro approccio ai problemi, non amano sbagliare di fronte a colleghi.
2 Tra i volumi più interessanti: Attard 1996, Baur-Montali 1994, Byram-Zarate 1994, Cain 1994, Garcia 1994, Nalesso 1997, Prodomou 1992, Valdes 1986