Giugno 2013  Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792
Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni
Vygotskij: apprendimento di una lingua seconda e stratificazione del compito linguistico di Martina Brazzolotto

ABSTRACT

In questo articolo si vogliono mettere in evidenza i contributi di Vigotskij rispetto l’apprendimento di una lingua seconda, proponendo collegamenti con i principi glottodidattici e le recenti scoperte neurolinguistiche. A partire dalla sua più importante intuizione di Zona di Sviluppo Prossimale, vogliamo sostenere l’importanza di stratificare il compito linguistico, con la consapevolezza che l’apprendimento non è un processo meccanico, ma una transizione che avviene grazie il supporto dell’insegnante e dei pari esperti.

 

1. INTRODUZIONE

Lev Semenovic Vygotskij nacque il 5 novembre del 1896 nella città di Orsha, in Bielorussia. Terminati gli studi di giurisprudenza e di filosofia, nel 1917 iniziò la sua carriera letteraria, insegnando fino al 1923. In questi anni Vygotskij fondò il giornale letterario “Verask” dove pubblicò la sua prima ricerca “La psicologia dell’arte”. Fu fondatore anche di un laboratorio psicologico presso l’Istituto per la formazione degli insegnanti, dove tenne un corso di psicologia.

Ricordiamo che fino la metà del diciannovesimo secolo la natura umana, in modo particolare il pensiero e la mente vennero studiati dalla filosofia. Fra i principali filosofi che hanno influito sul pensiero di Vygotskij ricordiamo gli alunni di John Locke in Inghilterra, i quali sostenevano che le idee provengono dalle sensazioni causate dall’ambiente. Nel resto d’Europa invece i seguaci di Immanuel Kant dimostravano che le idee avevano origine nella mente. Contemporaneamente nel 1860 esce “L’Origine della specie” di Darwin che asseriva la continuità tra uomo e animali, ricorrendo a un metodo più scientifico che filosofico.

I principali psicologi da cui Vygotsij trasse il suo metodo di ricerca sperimentale furono Ivan Pavlov, Vladimir Bechterev e John Watson che usarono stimoli esterni per ideare le teorie comportamentiste dello stimolo-risposta. Altri autori importanti che condizionarono il concetto di percezione in Vygotskij furono Wertheimer, Köhler, Koffka e Lewin che fondarono il movimento della psicologia della Getsalt. Infine anche gli studi di William Wundt (1880) contribuirono a realizzare le teorie vygotskijane, come continuum tra i contenuti della conoscenza umana e gli stimoli esterni.

L’interesse per lo sviluppo infantile, derivato dagli studi di Piaget, e quello della psicologia del linguaggio, rendono Vygotskij un importante punto di riferimento per linguisti e didatti, che ritrovano i precursori di teorie contemporanee, apprezzandone la validità attuale. Lo psicologo russo, infatti ha integrato simultaneamente più teorie, provenienti da studi diversi, creandone altre nuove, che aiutano ancor oggi molti insegnanti ad adottare delle buone pratiche didattiche. Nei suoi studi di grande importanze è l’ambiente di sviluppo del bambino e le risposte, analizzate in termini comunicativi, che il bambino fornisce in presenza di un adulto significativo, per questo riteniamo che molte indicazioni possano essere utili a migliorare la qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento nel contesto scolastico.

 

2. LO STRUMENTO E IL SEGNO NELL’APPRENDIMENTO LINGUISTICO

In opposizione a Pavlov, che studia le risposte dei soggetti dopo aver ricevuto uno stimolo, Vygotskij ambisce ad indagare il processo che avviene durante l’elaborazione dell’input, prendendo come oggetto del suo studio il linguaggio. Per definire la facoltà dell’uomo di esprimersi, l’autore russo parte da alcune metafore, secondo lui banali, che alcuni psicologi, suoi contemporanei, forniscono come per esempio “la lingua è lo strumento del pensiero”. E’ importante sottolineare che il linguaggio parlato non è sottomesso a quello mentale, non è conseguenza e neppure solo uno strumento (Vygotskij 1987: 82):

L’invenzione e l’uso dei segni come strumenti ausiliari per risolvere un problema psicologico dato (ricordare, confrontare qualcosa, riferire, scegliere e così via) è analoga all’invenzione e all’uso di strumenti in un ambito psicologico. Il segno agisce come uno strumento dell’attività psicologica in modo analogo al ruolo di un arnese nell’attività lavorativa.

Secondo Vygotskij (Vygotskij 1987: 85) il linguaggio è anche un segno oltre che uno strumento, infatti inteso in entrambi i modi, ha lo scopo di mediare l’attività. Questi due termini che definiscono il linguaggio non sono sinonimi se analizziamo il modo di orientare il comportamento umano.

La funzione dello strumento è di servire da conduttore dell’influsso dell’uomo sull’oggetto di attività; è orientato esternamente; deve portare a trasformazione negli oggetti. E’ un mezzo attraverso il quale l’attività umana esterna mira a padroneggiare e sottomettere la natura. Il segno, d’altra parte, non cambia niente nell’oggetto di un’operazione mentale. E’ un mezzo di attività interna che mira a padroneggiare sé stesso; il segno è orientato internamente.

Il linguaggio quindi è uno strumento quando è utilizzato per modificare l’ambiente esterno, mentre si può definire come un segno quando l’uomo si serve di esso per trasformare il pensiero interno. In questo senso, durante l’apprendimento di una lingua straniera, potremmo affermare che la produzione orale sia uno strumento, mentre la comprensione orale sia un segno. Oggi sappiamo che queste due componenti sono molto difficili da separare, perché spesso, soprattutto durante il processo di apprendimento, sono integrate. Il linguaggio dunque è contemporaneamente segno e strumento, in quanto è finalizzato a regolare sia l’attività esterna sia quella interna del soggetto. La lingua seconda, che viene appresa in un contesto dove essa viene utilizzata quotidianamente dai nativi, costituisce, durante i primi stadi interlinguistici, solo uno strumento che viene adoperato prevalentemente per comunicare con gli altri, ma non con sé stessi, infatti il bambino o l’adulto continua ad usare la propria lingua madre (L1) come segno, per mediare internamente tra la cultura d’origine e quella nuova .

Secondo Vygotskij la lingua assolve a due funzioni diverse perché è conseguenza sia del contesto esterno sia del pensiero interno. Questa teoria è stato ripresa nel 2000 da Cummins, che sostiene come la padronanza linguistica dipenda sia da ciò che circonda sia da ciò che costituisce una persona, con particolare riferimento alle sue caratteristiche individuali (Cummins, 2000, p. 72). Questi principi, condivisi anche dalla glottodidattica, ci prescrivono l’importanza che dobbiamo assegnare al contesto di appartenenza degli alunni, al loro background, e non di meno al loro livello cognitivo (Balboni, 2008). Una prima implicazione che ne deriva riguarda mantenere un linguaggio ancorato al contesto, il più possibile vicino alla realtà degli apprendenti, evitando parole troppo astratte, per facilitare la traduzione da una lingua all’altra (Luise, 2006). Per quanto concerne l’aspetto cognitivo, Cummins afferma che la comunicazione deve considerare la quantità e la qualità dello stimolo, quindi se una costruzione linguistica è già consolidata sarà più semplice esporla, mentre più difficile quando si chiede di rielaborarla.

Se allarghiamo la nostra visione alla classe multilingue (con questo termine intendiamo una classe eterogenea con un minimo di 30% di alunni di diversa origine, che provengono da vari paesi del mondo, neoarrivati e/o che hanno frequentato la scuola italiana da un anno), possiamo affermare che il linguaggio, nel nostro caso l’italiano, è lo stesso strumento per tutti gli alunni, mentre non rappresenta lo stesso segno, in quanto ogni alunno non italofono, in modo particolare nei primi stadi di apprendimento della nuova lingua, possiede un proprio segno di comunicazione interna, che coincide con la lingua madre. Il linguaggio inteso in questo senso potrebbe essere interpretato come un ostacolo all’apprendimento dell’italiano, se esaminiamo le nuove scoperte della psicolinguistica, individuiamo posizione opposte (Ferrari, Palladino 2012: 14), infatti:

Si è ipotizzato che la lingua madre rappresenti un substrato su cui la conoscenza della seconda lingua si costruisce, facilitando meccanismi di trasferimento da una lingua all’altra. Si è però anche immaginato che la lingua madre possa essere per certi versi di intralcio all’apprendimento di una lingua straniera diversa per fonologia, grammatica, sintassi, ecc. dalla lingua madre.

Entrambe queste teorie sono vere, in quanto la lingua madre, indipendentemente dalla sua distanza sociolinguistica dalla L2, tende a costituire un segno che media il pensiero interiore e aiuta lo studente a trasformala in strumento. Ricordiamo che l’apprendimento di una lingua seconda avviene soprattutto per necessità e quindi perché c’è una motivazione molto forte a servirsene come strumento principale, con lo scopo di integrarsi nella società il prima possibile (Santipolo, 2006). I bambini e i ragazzi sapendo che attraverso l’apprendimento della lingua possono inserirsi all’interno del gruppo di pari, e in seguito trovare un’occupazione redditizia, possiedono una spinta intrinseca ad imparare l’italiano.

 

3. PROCESSO DI INTERIORIZZAZIONE NELL’ACQUISIZIONE DI UNA LINGUA ALTRA

Secondo Vygotskij l’interiorizzazione del linguaggio, inteso come strumento e segno, consiste in una serie di trasformazione(Vygotskij 1987: 88):

a) Un’operazione che inizialmente rappresenta un’attività esterna è ricostruita e comincia a prodursi internamente. […]

b) Un processo interpersonale si trasforma in un processo intrapersonale. Ogni funzione nello sviluppo culturale del bambino si presenta due volte: prima a livello sociale e in seguito sul piano individuale; prima tra le persone (interpsichica) poi dentro il bambino (intrapsichica). […]

c) La trasformazione di un processo interpersonale in uno intrapersonale è il risultato di una lunga serie di eventi evolutivi.

L’apprendimento linguistico dunque è un processo che avviene dall’esterno all’interno, cioè è prima strumento e dopo segno, grazie la trasformazione di conoscenze pregresse. Il bambino dunque, che si trova ad imparare una nuova lingua, opera con il sistema lessicale della L2, dove elabora gli input della nuova lingua, il sistema lessicale della L1, dove avviene la traduzione della L2 in L1 e infine un unico sistema cognitivo concettuale, che rappresenta le informazioni come concetti e non come parole (Fabbro, 2004). Secondo le recenti scoperte neurolinguistiche, infatti il sistema cognitivo del linguaggio sarebbe composto da due dimensioni (Marini 2010: 95):

La dimensione microelaborativa del linguaggio consiste nei livelli di elaborazione fonetica, fonologica, morfofonologica. Morfologica, morfosintattica, sintattica e semantica che, a loro volta, costituiscono il livello di elaborazione lessicale, responsabile della produzione e comprensione delle parole, e il livello di elaborazione frasale, necessario per produrre e comprendere frasi. […] La dimensione macroelaborativa del linguaggio è costituita dal livello di elaborazione pragmatica, in cui i significati veicolati da singole parole e da intere frasi vengono contestualizzati mediante la generazione di inferenze, e dal livello di elaborazione testuale/ discorsiva […].

L’apprendimento del linguaggio dunque avverrebbe grazie l’integrazione di queste due dimensioni, microelaborativa e macroelaborativa, che non hanno un ordine univoco, come affermava Vygotskij. Quando le informazioni devono essere comprese si parte dall’enunciato ascoltato all’esterno, quindi si attiva prima la competenza pragmatica, che consente di collegare le frasi alle situazioni reali. Per la produzione invece si dà priorità alla dimensione microelaborativa, il nostro cervello inizia dall’elaborazione di parole, frasi per giungere al contesto (macroelaborativa). Uno dei motivi per cui quando si parla non si riesce a monitorare la coesione del discorso è dovuto al fatto che si focalizza l’attenzione sull’elaborazione di parole e frasi. Questa variabile, invece è maggiormente controllabile con la produzione scritta, che ci consente di verificare sempre la coerenza attraverso la revisione.

Per quanto riguarda l’assimilazione di una nuova lingua, Vygotskij è consapevole che non avviene nello stesso modo della lingua materna(Vygotskij 1934: 290):

Il bambino assimila la lingua materna senza consapevolezza e intenzione, quella straniera con consapevolezza ed intenzionalità. Perciò si può dire che lo sviluppo della lingua materna va dal basso in alto, mentre lo sviluppo della lingua straniera va dall’alto in basso. Nel primo caso compaiono prima le proprietà elementari, inferiori del linguaggio, e solo dopo si sviluppano le sue forme complesse, legate alla presa di coscienza della struttura fonetica della lingua, delle sue forme grammaticali e alla costruzione volontaria del linguaggio. Nel secondo caso si sviluppano prima le proprietà superiori, complesse del linguaggio, legate alla presa di coscienza e alla intenzionalità e solo dopo compaiono le proprietà più elementari, legate all’uso spontaneo, libero della lingua straniera.

L’apprendimento della lingua straniera presuppone la conoscenza della lingua madre e nello stesso tempo aiuta a conoscere in modo più approfondito la propria lingua. Durante il processo di apprendimento della L2 si verifica quello che attualmente chiamiamo transfer linguistico, meccanismo che identifica il trasferimento di una caratteristica o regola della lingua madre nella produzione della nuova lingua (Cummins, 1981).

Le differenze nell’acquisizione della L1 e L2 sono state dimostrate anche grazie l’utilizzo delle tecniche di neuroimmagine, che indagano l’attivazione neurale, dato uno stimolo esterno. Kim et al. (1997) hanno scoperto che lingua materna e lingua seconda si collocano in zone diverse dell’area di Broca, responsabile della produzione, mentre sarebbero vicine nell’area di Wernicke, deputata alla comprensione linguistica. Nei bilingui precoci questo fenomeno è accentuato, infatti è stato osservato che si attiva la stessa parte dell’area di Broca quando parlano lingue diverse, mentre nei bilingui tardivi si attivano parti diverse, questo significa che anche l’età è una variabile non trascurabile quando si insegna una lingua.

 

4. LA CLASSE MULTILINGUE COME AMBIENTE A ZONE DI SVILUPPO PROSSIMALE MULTIPLE

Vygotskij nelle sue ricerche sullo sviluppo del linguaggio nel bambino è stato fortemente influenzato dagli studi di Piaget, psicologo ginevrino che si è occupato di individuare degli stadi fissi che caratterizzano lo sviluppo dalla nascita all’adolescenza. Lo psicologo russo però non accettò incondizionatamente tutte le teorie del collega, ma si distaccò quando si rese conto che per analizzare i processi di apprendimento bisognava includere anche gli stimoli forniti dall’adulto, considerato promotore dello sviluppo(Vygotskij 1934: 273).

L’apprendimento della lingua, l’apprendimento a scuola è basato in gran misura sull’imitazione. In effetti a scuola il bambino apprende non ciò che sa fare indipendentemente, ma ciò che non sa ancora fare, ciò che gli risulta accessibile in collaborazione con l’insegnante e sotto la sua guida. Ciò che è fondamentale nell’apprendimento è proprio il fatto che il bambino apprende cose nuove. Perciò l’area di sviluppo prossimo, che definisce questo campo di passaggio accessibile al bambino, è proprio l’elemento più significativo in relazione all’apprendimento e allo sviluppo.

A differenza di Piaget (1962) che suggerisce agli insegnanti di rispettare lo stadio di sviluppo di appartenenza dell’alunno, Vygotskij consiglia di focalizzarsi su quello successivo, perché compito dell’insegnante è trasformare il potenziale attuale, ciò che sa già l’alunno, in potenziale prossimo o potenziale, cioè quelle competenze che l’alunno impara ad una certa età solo se aiutato da un adulto. In questo senso l’autore sostiene che bisognerebbe insegnare a leggere e a scrivere nell’età prescolare, in quanto all’età di 6 anni il bambino è pronto ad apprendere la scrittura anche in autonomia, senza l’affiancamento dell’insegnante(Vygotskij 1987: 128).

La zona di sviluppo prossimale ci permette di delineare l’immediato futuro del bambino e il suo stato di sviluppo dinamico non tenendo conto solo di quello che già si è raggiunto evolutivamente ma anche di quello che è in corso di sviluppo.

Gli alunni dunque pur essendo raggruppati per età, non possiedono tutti la stessa Zona di Sviluppo Attuale (ZSA), infatti, indipendentemente dal paese di origine, tutte le classi sono eterogenee, e questo spesso costituisce una difficoltà per l’insegnante che programma tenendo in considerazione la ZSA media della classe.

Possiamo affermare pertanto che la classe multilingue è concepita come un insieme di Zone di Sviluppo Prossimale Multiple (ZSPM) dove varia molto non solo lo sviluppo attuale, ma anche lo sviluppo potenziale. La L2 infatti per l’alunno non italofono costituisce la ZSPM, mentre per l’alunno nativo è la zona di sviluppo attuale. Da questo punto di vista sembrerebbe che l’alunno di diversa origine sia privo di sviluppo attuale, in quanto, soprattutto se appena arrivato, non è in grado di comprendere l’italiano. Se l’insegnante pensasse così commetterebbe un grosso sbaglio, in quanto anche gli alunni neoarrivati hanno un potenziale attuale molto elevato anche se latente, che in certi casi supera quello dei bambini italiani di pari età, basti paragonare le abilità matematiche o informatiche che possiede un bambino sinofono con quelle di un coetaneo del nostro paese, il divario è enorme, a favore dell’alunno cinese.

Le ZSPM sono quelle competenze che il ragazzo raggiunge grazie l’aiuto dell’insegnante o del pari esperto, quindi quelle più complesse che Vygotskij denomina “concetti scientifici” che costituiscono le funzioni psichiche superiori. In riferimento al linguaggio, i processi più complessi si identificano nell’astrazione, inoltre sono caratterizzati dalla “presa di coscienza [che] si realizza grazie alla formazione di un sistema di concetti e che […]porta alla loro volontarietà” (Vygotskij, Pensiero e linguaggio, 1934, p. 242).

Intendere la classe come ZSPM significa primariamente credere che tutti gli alunni possono apprendere molto di più di quello che noi ci aspettiamo da loro, grazie una cooperazione esperta. Dobbiamo inoltre interpretare le ZSPM in termini evolutivi, come delle fasi intermediarie che si trasformeranno in potenziale attuale una volta raggiunto il nostro obiettivo. L’insegnamento della lingua quindi dovrebbe sempre agire su quello che il bambino non sa, non solo in termini quantitativi ma anche qualitativi, può capitare infatti che un compito diventi complesso quanto si chiede di rielaborare la stessa informazione in un altro modo.

Ammettere che nella classe ogni alunno possiede una ZSPM significa concepirla come una Classe ad Abilità Differenziate (Caon, 2006), dove l’insegnante nella quotidianità scolastica differenzia e stratifica l’insegnamento, per permettere a tutti gli alunni pari opportunità di apprendimento, come prevede la legislazione scolastica attuale (Indicazioni Ministeriali per il curricolo, 2012).

In accordo con Dixon-Krauss (2000) non dobbiamo intendere la zona di sviluppo prossimale come il livello successivo di difficoltà, ma come un’area dove coesistono compiti di diversi livelli, è la zona di transizione. “L’insegnamento all’interno della zona di sviluppo prossimale non si attiene a una rigida analisi e scomposizione del compito per livelli di difficoltà, con la conseguente progressione meccanicistica del bambino, passo dopo passo, attraverso questi livelli del compito”.

Secondo Vygotskij (1978) valutare il potenziale di apprendimento è possibile misurando sia la prestazione assistita che quella autonoma, proponendo compiti difficili.

Per ogni conoscenza che possiede un bambino, indipendentemente dal suo sviluppo intellettivo, dal suo paese di origine o dal suo ambiente socio-culturale, l’insegnante individuerà sempre un livello più alto, che il bambino può raggiungere con il suo aiuto e con l’affiancamento di alunni che possiedono la zona di sviluppo prossimale come attuale.

 

5. STRATIFICAZIONE DIDATTICA VIGOTSKIJANA

Vygotskij, concependo l’apprendimento come un conseguimento di una tappa più complessa della precedente grazie il supporto di un esperto, è uno dei primi psicologi che si è interrogato sullo stabilire delle modalità per ritenere un compito più complesso rispetto un altro. A partire dall’analisi dei concetti, secondo lui, i più semplici sono quelli che il bambino riesce a svolgere da solo, e rientrano nella sfera del concreto e del personale, come sostiene anche il QCER, mentre quelli più complessi coincidono con la consapevolizzazione e la volontà(Vygotskij 1934: 286).

Per chiarezza potremmo rappresentare schematicamente lo sviluppo dei concetti spontanei e scientifici del bambino secondo due linee di direzione opposta, di cui una va dall’alto in basso, raggiungendo ad un certo livello il punto in cui si accosta all’altra, che va dal basso in alto. Se si indicano convenzionalmente le proprietà del concetto che maturano prima – che sono più semplici, più elementari- come inferiori, e le proprietà del concetto che si sviluppano dopo – che sono più complesse, in quanto legate alla presa di coscienza e alla volontarietà – come superiori, allora si potrebbe dire convenzionalmente che i concetti spontanei del bambino si sviluppano dal basso verso l’alto, dalle proprietà più elementari e inferiori a quelle superiori, mentre i concetti scientifici si sviluppano dall’alto verso il basso, dalle proprietà più complesse e superiori a quelle più elementari e inferiori.

Durante l’apprendimento linguistico secondo Vygotskij imparare la lingua materna è un processo semplice, viceversa per una lingua straniera è un processo complesso, infatti “il bambino assimila la lingua materna senza consapevolezza e intenzione, quella straniera con consapevolezza ed intenzionalità” (Vygotskij, Pensiero e linguaggio, 1934, p. 290). Sicuramente apprendere un linguaggio e una cultura nuova costituisce un compito più difficile che acquisire la propria lingua d’origine, ma noi siamo convinti che anche durante il processo di apprendimento di una nuova lingua si possano distinguere compiti più o meno difficili, vagliando una serie di variabili, già elencate nel precedente paragrafo.

Vjgotskij analizza il grado di difficoltà che intercorre tra un’esercitazione e un’altra, che noi chiamiamo stratificazione, per indagare l’influenza di un segno durante la memorizzazione di parole (Vygotskij 1987: 76).

I materiali sono stati presentati in tre modi. Dapprima le parole sono state solo dette a intervalli di circa tre secondi e si è chiesto al bambino di ricordarle. In un secondo test si è data al bambino una serie di venti figure e gli si è detto di usarle per aiutarsi a ricordare le parole. Le figure non erano rappresentazioni delle parole ma erano associate ad esse. Nella terza serie sono state usate venti figure che non avevano nessun rapporto evidente con le parole da ricordare.

Dall’esperimento emerge che i bambini per ricordare venti parole sono facilitati se si fornisce loro delle figure, infatti questo gruppo ripeteva il doppio delle parole dei soggetti che non possedevano le immagini. Né per i bambini con ritardo mentale né per gli adulti, i disegni sono stati un supporto utile per memorizzare le parole. Lo scopo dell’esperimento di Vygotskij in effetti era di osservare una risposta di soggetti diversi fornendo uno stesso compito, per capire come si ripercuote sul risultato. E’ dimostrato quindi che la complessità del compito è proporzionale alla correttezza della risposta del soggetto, più il task è difficile più c’è il rischio di non raggiungere l’obiettivo prefissato. In classe però non abbiamo il compito di raccogliere dati per indagare le capacità oggettive dell’alunno, ma il dovere di insegnare dei contenuti attraverso strategie. Ne consegue che non dobbiamo valutare le conoscenze quantitative, ma il cambiamento che è positivo se l’alunno trasforma la zona di sviluppo prossimale in zona di sviluppo attuale, mentre è negativo se l’alunno, nonostante l’aiuto di un esperto e varie modalità di intervento, resta nella zona di sviluppo attuale, senza progredire. Se pensiamo in questo modo l’intervento didattico e la valutazione, allora risulterà naturale predisporre programmazioni parallele, inoltre così facendo sarà più semplice individuare i bambini con DSA, anche se provenienti da un altro paese.

Il bambino per passare da una zona di apprendimento ad una più elevata, che in termini vjgotskijani diremo il passaggio da un concetto spontaneo ad uno scientifico, non avviene in modo unidirezionale, né graduale, ma attraverso meccanismi più complessi e irregolari (Vygotskij 1987: 111).

Il nostro concetto di sviluppo implica un rifiuto del modo di vedere secondo cui lo sviluppo cognitivo risulta dall’accumulazione graduale di cambiamenti distinti. Noi crediamo che lo sviluppo infantile sia un complesso processo dialettico caratterizzato dalla periodicità, dalla irregolarità nello sviluppo delle diverse funzioni, dalla metamorfosi, o trasformazione qualitativa di una forma in un’altra, dall’intrecciarsi di fattori esterni e interni, e da processi adattivi che superano gli impedimenti che il bambino incontra.

L’irregolarità dello sviluppo è dimostrata dall’evidenza che i bambini, nonostante siano raggruppati per età, possiedono delle zone di sviluppo attuale molto differenti, questo a causa dell’ambiente socio-culturale di provenienza, dalla distanza socio-linguistica della cultura di origine e infine dalle proprie caratteristiche cognitive.

 

 

6. CONCLUSIONE

Concludendo possiamo affermare che nella programmazione glottodidattica è necessario conoscere il processo di apprendimento linguistico, che secondo l’autore di riferimento avviene dall’esterno all’interno, mentre, come descriveremo nel dettaglio, le nuove scoperte che ci provengono dalla neurolinguistica ci dimostrano che è un processo molto più complesso e ancor di più per l’apprendimento di una nuova lingua. Tutt’oggi oggetto di studio è il concetto di Zona di Sviluppo Prossimale, da cui dobbiamo prendere spunto non solo per essere consapevoli che l’aiuto di un esperto rende migliore l’apprendimento, nozione ovvia, ma per capire le implicazioni glottodidattiche che ne derivano, come l’importanza di stratificare il nostro intervento didattico.

 

 

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