Settembre 2015  Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792
Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni
A. Pavlenko, The Bilingual Mind and What it Tells us about Language and Thought di Clelia Capua

AUTRICE: Aneta Pavlenko

TITOLO: The Bilingual Mind and what it tells us About Language And Thought

CITTÀ: New York

EDITORE: Cambridge University Press

ANNO: 2014

Nell’ultimo suo lavoro Aneta Pavlenko1 racchiude i risultati dei suoi molti anni di ricerca in merito alla relazione tra linguaggio e pensiero nella mente, in assunto, bilingue. Nel libro la definizione del parlante bilingue è la persona che usa due o più lingue nella sua vita quotidiana. La complessità e la vastità del tema, di per sé enciclopedico, va moltiplicato per la gamma quasi infinita delle categorie linguistiche entro le quali osservare il formarsi della cognizione e della sua relazione con il linguaggio. Sono le categorie linguistiche infatti a scandire la successione dei capitoli e a funzionare da impianto portante del libro e del pensiero. Sappiamo che l’apprendimento avviene per risposte a stimoli ambientali (perceptual learning), così da poterci adattare e assolvere ai compiti ai quali siamo chiamati come umani. Benjamin Lee Whorf struttura questo apprendimento in base a categorie percettive (p.40)

Grounded in basic cognitive abilities, such as memory and pattern recognition, categorical perception enable us to organize the ‘kaleidoscope flux of impressions’ via rapid discrimination between stimuli, identification of individual stimuli as member of larger categories of objects, properties, relations, and phenomena, and activation of a large amount of information about there categories that, inter alia, allows us to judge typicality of individual members and instances.

Con la nozione di “linguistic thought” la Pavlenko si riferisce al processo cognitivo mediato dal linguaggio, a volte parzialmente, a volte totalmente e la cognizione è qui presentata attraverso le categorie linguistiche che formano il sistema funzionale di analisi, sebbene la Pavlenko stessa annoti la sua consapevolezza che alcuni processi cognitivi e percettivi non siano di per sé linguistici (p.35). I capitoli segnano il susseguirsi delle categorie percettive: in Material worlds (Cap. 2) è inclusa la definizione della whorfiana ‘categorical perception’; in Multidimensional worlds (Cap. 3) si riporta della cognizione numerica, temporale e spaziale, in Dynamic worlds (Cap. 4) si descrive la cognizione del movimento e degli eventi, in Narrative worlds (Cap. 5) è la cognizione narrativa, della memoria e dell’autobiografica ad essere analizzata, in Discorsive worlds (Cap. 6) è la cognizione del Sé e della sua relazione interpretativa con il parlato interiore, in Emotional worlds (Cap. 7) è il processo cognitivo dell’esperienza emozionale e emotiva ad essere il soggetto, in The bilingual mind (Cap. 8) risiede la sintesi, attesa quasi con apprensione per tutto il libro e si concentra sulle modalità di ristrutturazione cognitiva (auto-riorganizzazione delle categorie linguistiche) nei bi-plurilingui. Soprattutto riassume le pagine precedenti introducendo il contenuto del capitolo con un imperativo: “the paradigm change, prompted by bilingual and evolutionary turns in cognitive science” (p.299) Tutto l’impianto teorico ha avuto inizio con la rilettura interpretativa della Sapir-Whorf Hypothesis (Cap. 1) e dei suoi epigoni. Avviare la riflessione sulla relazione fra pensiero e linguaggio partendo dalla rilettura dei testi non tradotti, del lavoro pionieristico di Humboldt, 1Boas, Sapir e Whorf è una scelta funzionale che le consente di rilanciare le domande che sono alla base della teoria della relatività linguistica: la lingua determina il pensiero di coloro che la usano? Le diverse lingue possono modellare, in modi diversi, il pensiero di chi le usa? L’analisi accurata degli scritti e delle vicissitudini che portarono all’attribuzione a Edward Sapir (1884-1939) e Benjamin Lee Whorf (1897-1941) la formulazione dell’ipotesi relativista porta a una distribuzione dei significati e svela la volontaria contraffazione del pensiero whorfiano, per renderlo funzionale a scopi non certo linguistici (p.18) “the monolingual (mis-)reading of Humboldt, Sapir and Whorf in American academia was not “accidentally misguided” - it arose at particular point of history in a society where monolingualism was a norm.” Perlustrando il pensiero whorfiano rimane poco da attribuire a lui del paradigma relativista. La permanenza terrena di Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf è breve e i loro scritti, in particolar modo quelli di Whorf, finiscono nelle mani di altri studiosi e poi di altri ancora, costruendo un ‘giallo’ linguistico che aspettava di essere risolto, quantomeno revisionato. Fin da queste prime pagine incontriamo il primo esempio di una narrazione autobiografica, la prima di molte altre. Si tratta della storia di Susan Schaller, insegnante del linguaggio dei segni e del suo allievo Ildefonso, uomo nato sordo e lasciato in disparte dalla sua famiglia. Il racconto autobiografico della Schaller ricorrerà, insieme ad altri, nel corso del libro a testimoniare l’impossibilità di immaginare la subordinazione del pensiero e della cognizione al linguaggio. La Pavlenko usa più di una biografia e narrazioni storiche e poeti e artisti che ha no la forza di rendere tangibili e muovere a consapevolezza le complessità concettuali delle quali il volume e formato. Con precisione lei specifica, in un modo del tutto bruneriano, “only stories can make things real and so, taking a break from the tedious minutiae of research design and participant selection, we will walk down memory line” (p.XV). I casi di autobiografie, di narrazioni episodiche, di storie che raccontano pezzi di vita sono tanti e vari: da Nabokov al memoir della parlamentare olandese di origini somale Ali (Ayaan Hirsi Ali, Infidel: My life, 2007) da Chagall alla stessa Pavlenko, in una memoria autobiografica di pregio. Racconta due eventi privati della sua vita che determinarono il suo interesse per il tema che fu poi la base per la sua tesi di dottorato. Per chiunque non fosse a conoscenza della differenza di significato di ‘privacy and personal space’ che intercorre tra i russi, che non possiedono la parola ‘privacy’, e il mondo anglofono, quelle poche righe di narrazione autobiografica, poco più di una pagina (pp.237-238) sono illuminanti. Rievocano l’intensità della sua biografia del 2005 “The privilege of being an immigrant oman”. Vladimir Nabokov invece, con le sue autobiografie redatte in diverse lingue -russo e inglese- è un faro su come la diversità linguistica possa strutturare la narrazione dei fatti e delle storie in maniera completamente diversa e, a volte, non rispettandone l’esemplificazione dei contenuti. Il racconto della difficoltà di Nabokov di incastrare dentro l’inglese, e per la seconda volta, la narrazione della propria vita già redatta in Russo è davvero esplicativa del tema “This re-englishing of Russian re-version of what had been an English re-telling of Russian memories in the first place, proved to be a diabolical task.” (Nabokov, 1966:12-13 cit. in Pavlenko, 2014:189) Non a caso l’ambito connesso con il “Multidimentional worlds” del terzo capitolo si apre con una lunga citazione tratta dal memoir di Ayaan Hirsi Ali dal quale si prende spunto per porsi la domanda, del tutto whorfiana, se i concetti di spazio e i numeri siano da considerarsi innati e universalmente diffusi e se differiscono nelle culture o se persistono immutati. Il libro è talmente denso che la presenza di tavole riassuntive è resa indispensabile e necessaria per riuscire a districarsi nella quantità di fonti e letteratura. Le tavole, divise per categorie, hanno il compito di schematizzare e riportare i lavori di ricerca dedicati per ogni specifica categoria, vi si elencano gli autori, le lingue della ricerca, il numero dei partecipanti, i task e gli stimoli usati e i risultati ottenuti. Da sole, le 14 tavole inserite nel libro, sono preziosi strumenti di lavoro dei quali non fare a meno. In conclusione, in una intervista rilasciata a una radio inglese, la Pavlenko racconta che questo è il libro che avrebbe voluto sempre scrivere, sin dalla fine del suo MA. Racconta che mandò il progetto alla Cambridge Press che non la ignorò e che di questo la Pavlenko è riconoscente alla casa editrice perché, aggiunge, “non ero pronta a quel tempo”. Quando il momento di sintesi le si è palesato, quello è stato il momento in cui ha sollecitato nuovamente la casa editrice che, questa volta, ha accettato il progetto di buon grado. Questo libro non è solo la definizione di un paradigma interpretativo delle dinamiche tra cognizione e linguaggio nella mente bilingue, è la summa di anni di lavoro e di studi costantemente concentrati a risolvere il dilemma più complesso della storia della linguistica, neurolinguistica, psicolinguistica e sociolinguistica. Sembra evidente che la Pavlenko ami le sfide e che, soprattutto ami vincerle mantenendo saldo il rigore del suo approccio accademico: “My academic home is in the fields of bilingualism and applied linguistics and I treat language not as chomskyans do, with the focus on abstract structures, but as psycolinguists and sociolinguinguists do, with the focus on people” (p.XII). 

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