Aprile 2014  Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792
Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni
K. Johnstone, Impro. Improvisation for the Theatre di Paolo Torresan

AUTRICE: K. Johnstone
TITOLO:Impro. Improvisation for the Theatre
CITTÀ: Londra
EDITORE: Bloomsbury
ANNO: 1981

 

 

Keith Johnstone è stato direttore artistico del Royal Theatre di Londra negli anni ‘50. Questo suo classico, Impro, oggetto di numerose ristampe, rappresenta un riferimento imprescindibile per chi si occupa di improvvisazione teatrale e di storytelling.

Lo recensiamo, rimandando il lettore italiano alla recente traduzione curata da Paolo Asso per i tipi della Duino Editore (il titolo in italiano è: Teoria e tecnica dell’improvvisazione. Dall’invenzione scenica a quella drammaturgica. ISBN: 978-88-7527-158-9).

 

Il testo si caratterizza per una prosa lineare, a tratti divertente; è ricco di aneddoti, a precisare come ogni minimo dettaglio possa avere un impatto considerevole.

Il volume è diviso in quattro parti: StatusSpontaneityNarrative Skills e Mask and Trance.

Sintetizziamo, di seguito, le prime tre, tralasciando l’ultima, dedicata all’uso delle maschere (il quale, a nostro avviso, risulta alieno al contesto di una classe di lingua, o comunque di difficile applicazione).

Lo status

Vi è mai capitato di camminare su un marciapiede stretto e di imbattervi in qualcuno che procede dalla direzione opposta e nessuno di voi sa chi dei due deve cedere il passo?

Questa evenienza, che può generare simpatici ‘balletti’, è un chiaro esempio di regolazione dei comportamenti ispirata alla percezione del proprio status.

In effetti, ogni minimo comportamento, consapevole o meno, è un’impressione che diamo di noi stessi agli altri e del valore che ci assegniamo, lo status appunto.

Lo status è una realtà che ha un valore contestuale (il mio status è definito sulla base della relazione con l’altro, e varia con il variare della persona con cui mi entro in contatto) e dinamico (soggiace al principio dell’altalena: io posso accattivarmi la simpatia degli altri, abbassando il mio status o nobilitando quello altrui, oppure al contrario, posso aumentare il mio potere psicologico denigrando gli altri, controllandoli, o circondandomi di persone con bassa autostima).

Ripensando alla propria esperienza scolastica, Johnstone osserva che le figure più significative non furono quelle di insegnanti dal basso status né quelle di insegnanti dall’ego smisurato, piuttosto quelle di docenti che davano prova di gestire con flessibilità la relazione con gli studenti, modulando il proprio status. Tale capacità implica grande discernimento – lo stesso chi ci rende capaci di cogliere la ‘grammatica’ dei giochi psicologici caratterizzati da inautenticità: pensiamo ad un gruppo i cui membri si attaccano a vicenda, dietro le parvenze di una supposta amicizia (p. 35)!

 

La spontaneità

La spontaneità è la potenza e l’immediatezza dell’immaginazione. È una caratteristica che si riscontra nel mondo dell’infanzia e che va scemando negli anni a seguire, come se il contesto sociale, scuola in primis, allenasse al calcolo e alla misura, preferendo persone abili nel replicare e nell’imitare a individui capaci di pensare.

È insomma la paura sociale, a detta di Johnstone, il deterrente della spontaneità. Una paura che si lega, tra le altre cose, a una sovra-responsabilizzazione della fantasia. La stessa concezione moderna della creatività come espressione di sé è, a dire dello studioso, deleteria: nel mondo antico l’arte era espressione di altro, di un demone, di un dio; “sei noi pensiamo [invece, ndt.] che l’arte sia espressione di sé, allora l’individuo può essere criticato non tanto e non solo per il fatto che si possa ritenere abile o meno, ma in quanto tale, per com’è” (p. 79).

L’ansia verso i pari, dunque, frena e congela le risorse immaginative. Essa opera a più livelli: da un lato inibisce e fa preferire comportamenti stereotipati, dall’altro lato spinge all’esagerazione; così, molti attori, alla ricerca di idee originali e mossi dal desiderio di apparire arguti, finiscono per perdere in spontaneità.

Al contrario, “l’improvvisatore si deve rendere conto che più il suo comportamento è ovvio, più può essere originale” (p. 87). Per Johnstone l’ovvio è l’immediato, ciò che l’immaginazione suggerisce per primo: (p. 88). “le persone che cercano di essere originali, arrivano agli stessi risultati scontati e noiosi. Chiedi a una persona che ti dica un’idea originale, e vedrai in che stato di imbarazzo si trova. Se semplicemente dicesse la prima cosa che le viene in mente, il problema sarebbe risolto”.

Affidarsi a ciò che l’immaginazione, come un mare, porta a galla nell’immediato, senza apporvi alcuna etichetta (psicologica o morale, p. 83-84), condividerlo e vedere cosa succede (p. 32) è la chiave dell´improvvisazione, è attesa e azione al tempo stesso, è l’essenza di un gioco che si alimenta nella fiducia (dell’altro e di sé) e può creare trame sempre nuove.

 

La narrazione

Narrazione e spontaneità sono collegate; ogni scena improvvisata, breve o lunga che sia, è una trama che si sviluppa da sé, una trama spontanea.

I segreti di una narrazione efficace, che si distingue da una semplice giustapposizione di eventi, sono, a dire di Johnstone (p. 141):

 

  • introdurre l’imprevisto: “Le storie a volte diventano così prevedibili da costituire delle routine”: immaginiamo, per esempio, che, al bacio del rospo, la principessa diventi rospo lei stessa (p. 139).

  • dare un senso di coerenza, recuperando elementi presentati in precedenza, per inserirli in un tutto organico, evitando contraddizioni, lacune, sbavature, vicoli ciechi.

In chiosa al ragionamento, Johnstone, rivolgendosi all’insegnante di teatro, afferma (p. 142): “abitua gli studenti a non considerare il contenuto importante, a ritenere piuttosto che esso si sviluppi da sé”. Come per l’immaginazione, le energie creative sono libere, infatti, se lo sguardo dell’io critico viene sospeso; in questo stato di leggerezza, chi racconta o recita è capace di un controllo più pieno (p. 142), che poggia su (p. 142) “una nozione più fedele di ciò che si è”.

Il concetto su cui si concentra l’A. è noto in glottodidattica: è affine all’azione volta a non alzare il filtro affettivo, in Krashen, ed è prossimo al concetto di de-suggestione della Suggestopedia moderna.

La questione su cui insiste Johnstone prescinde, tuttavia, da ogni orientamento metodologico: un buon insegnante è tale anche se non segue questo o quel metodo, così come un pessimo insegnante può compiere dei disastri, qualsiasi metodo adotti (p. 29). La questione fondamentale è piuttosto l’atteggiamento da assumere, lo sguardo da mantenere, prima ancora di un’azione o una serie di azioni da intraprendere. È lo sguardo verso il contesto educativo in cui si opera “a decidere l’impatto delle proprie azioni. Per dire, se gli inseganti che operano in una classe annoiata o ostile, anziché biasimare il comportamento degli allievi, si chiedessero cosa hanno fatto o evitato di fare e che abbia concorso a tale clima” (p. 29), avrebbero già fatto in passo in avanti e avrebbero guadagnato in consapevolezza.

“Invece di vedere” – sottolinea l’A. (p. 31). –“le persone [i.e. gli allievi, ndt.] come non portate (untalented), possiamo considerarle terrorizzate (phobic): questo cambierebbe completamente la relazione di noi, insegnanti, con loro, studenti”.

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