Giugno 2003  Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792
Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni
Prospettive nell'insegnamento dell'italiano a discenti angloamericani di Monica Merli e Fiorenza Quercioli

 

1. Introduzione

Nel variegato panorama dell’insegnamento dell’italiano a stranieri, i programmi universitari americani in Italia, dislocati per lo più a Firenze e Roma, costituiscono un ambito didattico sicuramente rilevante in quanto presentano caratteristiche del tutto particolari.

Già a prima vista questa tipologia di studenti si discosta sensibilmente da altre più note. Le realtà di insegnamento-apprendimento della nostra lingua a cui in genere ci si riferisce riguardano in massima parte due sfere ben definite e per molti versi diametralmente opposte. Da un lato possiamo infatti collocare la tradizione didattica relativamente lunga rappresentata dalle due Università per Stranieri di Perugia e Siena, dai Centri Linguistici di altri atenei, e dai numerosi istituti privati di lingua e cultura.  Il pubblico di queste istituzioni, in genere etnicamente eterogeneo, si distingue per una certa disponibilità economica, per l’aver fatto una scelta individuale ben precisa (quella appunto di venire nel nostro Paese per studiarne la lingua per un tempo spesso non superiore ad un mese) e l’essersi orientati verso contesti interculturali nei quali studiare l’italiano insieme a persone di madrelingue diverse. Dall’altra parte troviamo invece i Centri Territoriali Permanenti (C.T.P.) e i laboratori linguistici di cui molte scuole pubbliche si sono dotate, entrambi sorti in seguito alle recenti ondate immigratorie per affrontare la questione dell’integrazione degli immigrati e dei loro figli nella società italiana. Si tratta, in quest’ultimo caso, di istituzioni nate nella maggior parte dei casi in seno ad enti pubblici, a cui si aggiungono corsi di lingua attivati da organizzazioni religiose o umanitarie  con lo scopo preciso di offrire l’opportunità di imparare l’italiano a una fascia di apprendenti economicamente svantaggiati, ma il cui progetto migratorio nel nostro Paese ha spesso caratteristiche di stabilità.

Le peculiarità degli studenti angloamericani che si iscrivono ai semestri di studio in Italia si distinguono sensibilmente da quelle dei due gruppi sopra descritti per una serie di ragioni, prima fra tutte l’appartenenza a un gruppo monolingue (e monoculturale) monolitico.

Questo breve saggio è nato proprio dalla presa di coscienza di questa diversità e dal conseguente percorso di ricerca-azione (Cfr: per i principi e gli strumenti della ricerca-azione: C.M. Coonan, La ricerca-azione, in http://helios.unive.it/~aliasve//moduli/coonan/indice.htm) che abbiamo intrapreso nel tentativo di trovare delle risposte operative alle problematiche didattiche con cui quotidianamente ci troviamo a misurarci.

 

2. L’italiano nei programmi americani in Italia.

Gli studenti che frequentano i programmi universitari americani in Italia sono giovani tra i 19 e i 22 anni, tutti statunitensi, il cui periodo di permanenza in Italia varia in genere da un minimo di tre ad un massimo di nove mesi e che, appartenendo ad una fascia socialmente privilegiata, hanno deciso per scelta personale di trascorrere una vacanza-studio nel nostro Paese. Solo in qualche caso, essi sono alloggiati in famiglie italiane, ma molto più comunemente vengono sistemati in appartamenti insieme ad altri compagni o in veri e propri dormitories all’interno delle sedi più grandi che in genere funzionano in tutto e per tutto come Campus. L’inglese è la lingua ufficiale delle istituzioni che coordinano e gestiscono questi programmi in ogni loro fase, per cui questa è la lingua dominante non solo negli Stati Uniti, ma anche nei centri italiani: le lezioni di arte e storia, per fare un esempio, sono tenute in inglese, salvo rari casi di colleges e università con corso di laurea in italianistica oppure in cui il semestre in Italia sia riservato a chi ha già raggiunto un dato livello di competenza nella lingua. In generale, dunque, l’italiano, quando non sia addirittura facoltativo, è limitato alla “classe” di lingua, per 4-6 ore settimanali, senza collegamenti curricolari con le altre discipline, il che si riverbera anche nella disposizione fisica della classe, tradizionalmente a platea e non in circolo, come si usa invece comunemente nelle classi di lingua. Quest’osservazione, che potrebbe sembrare meramente esteriore, ma non per gli insegnanti che conoscono il valore del rapporto spaziale nella classe, descrive agilmente lo spirito con cui gli studenti si pongono di fronte alla lezione di lingua: una lecture, cioè una lezione frontale, una sorta di conferenza da ascoltare e che non richiede alcuna partecipazione attiva, se non la puntuale annotazione delle pagine da studiare e dei compiti da fare a casa.

In questo senso le strutture ospitanti, seppure inconsapevolmente, talora contribuiscono a deresponsabilizzare i giovani partecipanti in merito all’apprendimento della lingua, poiché paradossalmente peccano di eccesso di accoglienza, se così si può dire, talvolta accettando atteggiamenti accademici rilassati. In pratica, si adeguano mimeticamente al modello americano, pronte ad anticipare i bisogni e le richieste, affinché gli studenti non avvertano alcun disagio, possibilmente neanche di ordine culturale, come invece inevitabilmente accade quando ci si accosta a una lingua-cultura diversa da quella madre. Tutto questo, attraverso l’ottica della cultura dominante, è interpretato come una qualità positiva del servizio, ma produce un innaturale e negativo scollamento tra lingua e cultura che va a totale discapito dell’apprendimento della lingua.

E’ proprio su questa netta separazione tra apprendimento dell’italiano e vita quotidiana, su questa sorta di isolamento dal contesto italiano che si verifica all’interno di istituzioni accademiche che pure operano sul territorio italiano, che ci dobbiamo soffermare a riflettere. Sappiamo per definizione che la differenza tra L2 e LS consiste in quale lingua si parli fuori dalla classe. Quindi, insegnare italiano a Firenze o a Roma apparterrebbe di diritto alla prima categoria, quella della L2: le ore di didattica diretta svolta in classe dall’insegnante sono in interrelazione con la vita extrascolastica dello studente in cui egli è esposto alla lingua viva (Balboni 1994); mentre lo stesso insegnamento a San Francisco o in qualunque altra città all’estero, si riferisce alla situazione in cui la lingua viene insegnata in un contesto dove essa non è presente se non nella classe e si connota quindi come LS.

Paradossalmente, nei programmi americani in Italia possiamo individuare alcuni punti in comune con le realtà in cui l’italiano non sia la lingua a cui gli studenti sono esposti all’esterno della scuola, o meglio, della sola classe. Il fatto che i programmi americani in Italia siano overseas centers di istituzioni accademiche statunitensi ha come conseguenza che la lingua della scuola è la stessa madrelingua degli studenti che vi si iscriveranno, il che costituisce una differenza significativa già rispetto ai corsi che si tengono negli atenei italiani e nelle scuole private, ma ancor di più in confronto alla situazione in cui vengono a trovarsi i figli degli immigrati e le loro famiglie, i quali devono spesso confrontarsi con un’istituzione scolastica la cui lingua ufficiale è in assoluto l’italiano, integrata solo in alcuni casi fortunati con la lingua madre degli utenti per opera del mediatore culturale.

Nel contesto glottodidattico dei programmi americani in Italia si ricreano dunque inevitabilmente le condizioni di apprendimento già collaudate in patria con il risultato che l’italiano in tali contesti è da considerarsi più lingua straniera che lingua seconda, con tutto ciò che ne consegue. Per questo uno dei primi problemi che si presentano all’insegnante di italiano è proprio quello di portare l’Italia in classe (questione non a caso nota ai colleghi che insegnano all’estero) e contemporaneamente assegnare dei tasks che spingano i discenti a misurarsi con la realtà esterna.

A questo si aggiunga il fatto che i nostri studenti non sono di fatto abituati allo studio delle lingue, spesso ritenute “inutili”, dal momento che possiedono come lingua materna quella che va sempre più affermandosi quale strumento di comunicazione planetaria, massima espressione di una cultura e di una economia a torto o a ragione ritenute egemoni e quindi vincenti[1].

 

3. Le caratteristiche degli studenti angloamericani: un’analisi didattica e culturale

Il fatto, a nostro avviso significativo ma spesso trascurato o sottovalutato, è che questi discenti arrivano nei centri italiani e nelle nostre classi con un’impostazione di studio delle lingue ben precisa e che deriva in massima parte dalla loro cultura di origine.

Dobbiamo tener presente che questi studenti provengono dal Paese dove impera l’ideale del fast and easy, per dirla con Henry Ford, ideatore di un sistema di produzione che a suo tempo rivoluzionò l’economia: ciò di cui si ha bisogno deve essere, almeno apparentemente, facile e rapido da ottenere, mentre le conseguenze negative di questa filosofia di vita vengono sovente messe in secondo ordine (Cfr. per le teorie dell’istruzione tra fordismo e post-fordismo: U. Margiotta, Pedagogia 2000, lezioni online, in http://helios.unive.it/~pe2000/lezioni/lezioni.htm). Naturalmente quanto appena affermato costituisce una necessaria generalizzazione rispetto alla situazione reale, di per sé molto più sfaccettata, ma ci aiuta a capire perché i discenti americani hanno bisogno di – ma forse sarebbe più giusto dire si aspettano - un “prodotto” didattico preconfezionato su cui “studiare”, in cui il materiale sia già organizzato secondo categorie riconoscibili come grammatica e lessico e che richiede come unico contributo personale la memorizzazione.

I principi di una cultura essenzialmente industriale come quella statunitense si possono rilevare anche nel modo in cui i nostri studenti percepiscono il tempo, compreso quello da dedicare allo studio. Secondo Benjamin Franklin il tempo è denaro (Balboni 1999) e in effetti lo studente angloamericano ha un estremo bisogno di capitalizzare il suo studio e quindi molto spesso misura il valore di un corso più dal numero di argomenti (grammaticali) trattati, che in base alla propria capacità di poter effettivamente ed efficacemente reimpiegare quelle nozioni fuori dalla classe e al di là dei tests. Non meraviglierà infatti scoprire che il primo accorgimento a cui si ricorre, particolarmente, ma non solo, per i corsi attivati negli Stati Uniti, riguarda l’adozione dei libri di testo. In genere infatti vengono utilizzati quasi esclusivamente libri di testo appositamente studiati per discenti americani, con ampie sezioni, soprattutto in quelli destinati ai primi livelli di apprendimento della lingua, dedicate alla traduzione in lingua madre. Il motivo dichiarato per cui si preferisce ricorrere a questi testi piuttosto che ad altri concepiti per apprendenti di italiano L2/LS tout court non risiede, come si potrebbe a prima vista pensare, nella difficoltà di reperire libri di testo editi all’estero, ma nel fatto che comunemente si ritiene che altri libri non siano adatti a questi studenti, che non sono molto propensi a fare lo sforzo di cercare di capire una spiegazione veicolata in lingua straniera o a rielaborare e sistematizzare in modo personale l’input ricevuto, che di per sé richiede – appunto – tempo. I discenti angloamericani comunemente apprezzano un testo e ritengono di imparare veramente attraverso di esso, solo se questo presenta lunghe liste di vocaboli decontestualizzati da memorizzare e se propone lo studio di molte strutture grammaticali, le cui spiegazioni vengono fornite in inglese, magari passando rapidamente da una alla successiva, con rare sezioni di riepilogo o di rinforzo perché tutto questo risponde ai criteri di efficienza organizzativa tipici della loro cultura di appartenenza.

Questa tipologia di discenti ha poi più di altre bisogno di certezze e di punti fermi che prevengano all’origine le frustrazioni e le defaillances perché queste, soprattutto se emergono di fronte al gruppo dei pari, farebbero perder loro la faccia e in una cultura in cui la competizione e il valore individuale vengono instillati fin dall’infanzia, questo è più che mai inaccettabile. Un’esperienza negativa in questo senso spinge non di rado a ribellarsi o addirittura ad abbandonare un corso. La spiccata attitudine alla competitività e all’individualismo che spesso si notano ha quindi come rovescio della medaglia una forte resistenza a mettersi in gioco in attività didattiche come quelle di conversazione in cui le competenze del singolo sono facilmente misurabili non tanto dal docente, quanto dal resto della classe.

Oltre a queste ragioni di ordine socio-culturale, dobbiamo anche guardare alla posizione delle lingue straniere in generale e dell’italiano in particolare nel curricolo linguistico angloamericano. Dobbiamo tener presente che l’inglese non è solo una lingua internazionale, come abbiamo accennato sopra, ma nel panorama culturale statunitense è essenzialmente l’idioma la cui totale diffusione sul territorio statunitense ha a suo tempo sancito il raggiungimento del melting pot. Tutti i popoli che si sono fusi inizialmente dando origine al popolo americano hanno ben volentieri rinunciato alle loro lingue madri per cercare nell’inglese una nuova identità culturale che cancellasse quella rappresentata dalla nazione di provenienza, da cui in genere, per i motivi più svariati, stavano cercando di fuggire. L’omologazione linguistica e culturale sottesa all’ideale del crogiolo, per quanto oggi, a ragion veduta, criticabile, rispondeva allora alle esigenze di unità del variegato popolo che si andava costituendo su un territorio ricchissimo, ma di enorme estensione. Questo ha portato in tempi più recenti ad applicare lo stesso modello integrativo (o almeno ritenuto tale) agli immigrati che si stabilivano sul territorio statunitense, per cui le altre lingue-culture non hanno mai rivestito un vero interesse né a livello di ricerca glottodidattica, né conseguentemente di pratica didattica.

Tutto questo spiega da più punti di vista perché gli studenti angloamericani amino così tanto usare la loro lingua madre anche quando stanno studiando un’altra lingua. Il suo uso non risponde solo ai criteri di efficacia e rapidità comunicativa di cui abbiamo parlato sopra, ma non li mette neanche psicologicamente in pericolo, si trincerano dietro la certezza che siano “gli altri” ad aver bisogno di imparare la loro lingua, e del resto probabilmente non si sono mai neanche posti veramente il problema di accostarsi ad un’altra realtà linguistica senza la mediazione della loro lingua madre.

Spesso l’insegnante stesso, che ha una conoscenza almeno discreta dell’inglese o perché vive negli Stati Uniti o perché la sua assunzione è stata subordinata a questo prerequisito, ricorre alla lingua madre dei suoi allievi per le interazioni in classe, tanto che quando a questi studenti capita di incontrare un docente che pretende di insegnare italiano parlando quasi esclusivamente italiano, subiscono nel migliore dei casi un vero e proprio shock che può indurre i più fragili a lasciare la classe. L’assunto di partenza riguarda la percezione che normalmente si ha di questi apprendenti, percezione che in molti casi sfiora il pregiudizio: si ritiene, non del tutto a torto, che la classe capisca solo se si parla la loro lingua o che per portarli a capire una spiegazione veicolata in italiano si debba impiegare talmente tanto tempo da scoraggiare chiunque dal provarci.

E’ chiaro poi che nel panorama che abbiamo delineato la motivazione dei nostri studenti ad apprendere un’altra lingua è in molti casi prossima allo zero. In effetti, da un questionario somministrato ad un campione piuttosto ampio di allievi, appartenenti a diversi livelli linguistici, è emerso che le ragioni più diffuse che hanno spinto al pur breve soggiorno in Italia si concentrano intorno a un generico interesse per l’arte e la cultura principalmente umanistica, senza escludere interessi per il modo di vivere, e ciò vale soprattutto per quanti sono stimolati dalla ricerca delle proprie origini e radici familiari.

A questo si aggiunga il fatto che nel panorama linguistico statunitense la nostra lingua gode senza dubbio di un prestigio culturale, ma talvolta nell’immaginario collettivo viene anche inevitabilmente associata ad aspetti più folkloristici e stereotipati, come il romanticismo, la  pizza,  i mandolini. Oltre a questo, l’italiano, ci piaccia o no, è una lingua “inutile”, molto più inutile dello spagnolo, che è molto più insegnato e diffuso, grazie anche a una più numerosa presenza di  immigrati ispanici, che a differenza degli immigrati italiani del passato ormai alla terza o quarta generazione, mantengono ancora in qualche misura una loro identità linguistica e culturale. Per tutto questo il docente di italiano è spesso avvolto da un alone esotico: lo si ammira per il suo stile e la sua cultura, ma ci si aspetta che sia simpatico e divertente, prima ancora che didatticamente competente.

 

4. Possibili interventi didattici

Questa, in maniera molto sintetica, è la situazione che abbiamo rilevato e su cui abbiamo cominciato a riflettere. Non condividiamo nessuno dei punti che abbiamo sopra descritto, essenzialmente perché in ognuno di essi ci sembra sia contenuta una implicita resa incondizionata, un’accettazione passiva di una situazione di fatto che prima di tutto non rende giustizia proprio agli studenti stessi. Da un punto di vista strettamente pedagogico non ci sembra infatti appropriato non prendere neanche in considerazione la possibilità di provare ad impostare il lavoro in armonia con i principi glottodidattici più consolidati, che per l’appunto sconsigliano quasi tutto quello che abbiamo appena riportato. L’insegnante che si adatta in qualche modo ha già gettato la spugna: gli studenti lo percepiscono e non si responsabilizzano come dovrebbero. Del resto questi discenti possono essere sui generis, ma certo non presentano nessuna menomazione o deficit intellettivo che gli impedisca di imparare a studiare le lingue in modo diverso rispetto a quello che sono abituati a fare.

L’intento del nostro lavoro non vuole però essere polemico o di critica fine a sé stessa: lo studio che abbiamo iniziato e di cui vogliamo per sommi capi rendere conto, ha l’ambizione di trovare strade alternative che rendano il lavoro di docenti e discenti più gratificante e proficuo. Tuttavia, come vedremo in seguito, non ci sentiamo di gettare alle ortiche il lavoro portato avanti fino a questo punto; al contrario riteniamo che certe tecniche possano senz’altro essere in parte utili. Non esiste, come si sa, una tecnica giusta o sbagliata: la validità di una tecnica si giudica in base alla sua efficacia e noi riteniamo che, nel campo didattico in esame, sia più utile migliorare e adattare le tecniche anziché rifiutarle tout court. Sarebbe controproducente imporre brutalmente ai nostri studenti un metodo che non tenga conto delle loro specifiche caratteristiche culturali e dei loro bisogni di apprendimento: nella migliore delle ipotesi, non produrrebbe niente di meglio di quello che abbiamo descritto. Riteniamo invece che la flessibilità sia una delle doti fondamentali dell’insegnante, per cui abbiamo capito che sarebbe sterile arroccarsi su certe posizioni teoriche senza provare a calarle nella pratica e senza cercare una mediazione fra questi due aspetti, ugualmente importanti, del nostro lavoro.

Vedremo che ognuno dei punti che abbiamo analizzato nei paragrafi precedenti può essere ripreso e riprogettato secondo criteri glottodidattici più pertinenti, senza però trascurare le ragioni di ordine pratico e culturale che hanno condotto alla situazione attuale.

Il docente che, prendendo atto del profilo umano e didattico appena tracciato, voglia condurre un insegnamento volto a scardinare le resistenze di questo sistema, deve evitare di riprodurre il modello di insegnamento delle lingue straniere in uso negli Stati Uniti per due motivi principali che sono il non andare incontro a frustrazione (e ad un conseguente adagiarsi nella stessa didattica demotivante e scarsamente proficua che ha determinato la frustrazione iniziale), e la volontà di non disperdere la potenzialità di risultati che lo studio di una lingua in loco può offrire, il che significa creare le condizioni per un reale contatto con la L2.

Tuttavia, dato che la nostra formazione ci porta a centrare l’azione didattica sul discente come vero protagonista del processo di insegnamento-apprendimento, non ci sentiamo di invitare all’adozione intransigente di metodologie estranee all’impostazione culturale degli studenti in quanto ci sembrerebbe di venir meno al principio di rispetto dell’affettività dell’individuo e della collaborazione nella realizzazione del processo stesso. Dobbiamo, invece, impegnarci a cogliere i diversi aspetti della motivazione di ciascuno, le esperienze passate e la realtà presente, per offrire l’occasione di percorsi individuali che però siano indirizzati verso lo stesso obiettivo.

A questo scopo vale anche la pena di non disperdere la carica delle motivazioni più diffuse, cioè l’interesse per la cultura nella sua duplice accezione e la ricerca delle radici familiari, che possono offrire spunti di riflessione a partire dall’esperienza e dalle conoscenze degli studenti, perfino dai loro stereotipi, per spronarli a usare inizialmente la lingua in un territorio che sia, almeno concettualmente, familiare e guidarli poi a confrontarsi con l’autenticità della lingua e della società, in un graduale ma concreto processo di depaysement, di apprezzamento della diversità tra le due culture e, perché no, fra le tradizioni didattiche.

Riteniamo, infatti, che certe caratteristiche tipiche della cultura angloamericana – come la competitività e l’individualismo a cui accennavamo sopra – possano tornare utili per mettere a fuoco gli strumenti da adottare nella didattica e per queste ragioni, appunto, è più che mai appropriato mettere i nostri discenti di fronte a delle sfide positive che mantengono viva la motivazione e li responsabilizzano in ordine alle scelte che compiranno: l’abbandono quanto prima della L1, il ricorso alla traduzione solo per approfondire l’analisi e la comparazione e non come semplificazione di un processo, il compimento del proprio ruolo individuale nell’ottica del risultato del gruppo e quindi della partecipazione diretta al successo di tutti i membri.

Il docente che annuncia alla classe che parlerà quasi esclusivamente italiano perché è sicuro che la classe lo capirà, se non alla prima alla seconda spiegazione, innesca negli studenti il desiderio di misurarsi con la lingua per uscirne vincenti e quindi li chiama a farsi protagonisti della situazione. Inoltre abbiamo notato che dare la possibilità di fare domande in inglese negli ultimi quindici minuti della lezione, da un punto di vista psicologico, li tranquillizza ed abbassa il filtro affettivo, ma al tempo stesso la lingua madre viene relegata in uno spazio ben definito, che non a caso si colloca ai margini della lezione. Il docente ha così raggiunto alcuni importanti obiettivi: ha esposto molto di più i suoi apprendenti alla lingua seconda, la classe ha capito di poter superare la sfida che l’entrare in contatto con un altro mondo linguistico e culturale rappresenta e che per raggiungere questo traguardo dovrà, per quanto possibile, spingere ai limiti estremi la propria lingua-cultura. Ci preme precisare che sebbene non raccomandiamo l’uso della lingua madre all’interno del gruppo monolingue, e tanto meno il continuo passaggio tra i due codici, non ci sembra il caso nemmeno di osteggiarla rigidamente, ma crediamo che la L1 debba trovare una sua specifica collocazione nell’ambito di una didattica motivante e veramente centrata sui discenti quando sia funzionale a scopi pedagogici. La lingua madre rappresenta per i nostri studenti un’oasi nel panorama spesso spaventoso dell’apprendimento dell’italiano e,  per quanto l’insegnante si sforzi di trasmettere loro che l’uso della L2 è più proficuo, continuano a preferire un progresso lento, ma più familiare: sta, dunque, all’insegnante monitorare incessantemente i progressi e l’acquisizione della sicurezza necessari per affrontare obiettivi gradatamente più ambiziosi fino al superamento di questa fase di transizione e all’adozione spontanea della L2 in classe. [John Eldridge, “Code-switching in a Turkish secondary school”, ELT Journal, Volume 50/4 ottobre 1996, citato in Marina Ota “Che motivo c’è che uno studente parli nella lingua bersaglio in classe?”, www.dilit.it/formazione/Articoli]

Lo stesso vale anche per il ricorso alla traduzione, attività molto apprezzata da questa tipologia di discenti, e che a noi pare superflua e assurda se svolta dal docente, ma che può assumere un significato didattico rilevante quando è affrontata dagli studenti. In alcuni casi, soprattutto quando stiamo analizzando strutture grammaticali che non trovano un’immediata corrispondenza nella lingua madre, la traduzione di brevi testi scelti ad hoc, fatta dagli studenti stessi, magari in coppia o in gruppo, permette loro di entrare più intimamente nel significato comunicativo che ogni elemento morfosintattico veicola, e di verificare direttamente che quanto il ricorso all’imperfetto, per esempio, trasmette per un italofono, trova in inglese altre realizzazioni. Spesso al centro di contese teoriche ed accese prese di posizione contrastanti, la traduzione, svolta in determinate forme e contesti e senza volerne recuperare l’approccio formalistico, obbliga i discenti a impegnarsi e a discutere per raggiungere la consapevolezza della problematicità o addirittura della impossibilità di tradurre. Ne consegue un importante lavoro di analisi comparativa, nell’accezione in cui questo termine viene usato in luogo di “analisi contrastiva”in Arcaini et alii 1989 (Balboni 1998), tra le strutture della lingua di partenza  e quelle della lingua d’arrivo, così come tra le due culture corrispondenti.  

Proprio in questo senso può esserci d’aiuto l’analisi comparativa: sapere in anticipo quali saranno i punti maggiormente problematici, piuttosto che prevenire gli errori, ci permette di selezionare in modo più immediato e appropriato le tecniche didattiche che favoriscono la riflessione e la scoperta delle regole, gettando le basi per un apprendimento più consapevole. Trattandosi di gruppi monolingui, gli errori degli studenti e la loro analisi, sono per noi un terreno fertile di implicazioni didattiche. E’ chiaro che molti errori sono comuni a tutta la classe, quindi alla fine di ogni attività, sia essa di produzione orale o scritta, selezioniamo le parti più rappresentative di un certo errore ed invitiamo tutta la classe alla correzione. In questo modo nessuno studente entra direttamente in causa correndo il rischio di perdere la faccia di fronte ai compagni e l’inesattezza viene corretta in genere attraverso una serie di ipotesi successive che vengono dal gruppo e non dall’insegnante, il quale si limita a guidare e a promuovere la discussione.

In effetti le metodologie didattiche che prevedono di impostare le lezioni sul lavoro di gruppo sia dentro che fuori dalla classe sono, secondo la nostra esperienza, le più adatte a risolvere le problematiche che gli studenti angloamericani pongono al docente di lingua. In esse infatti la competitività e l’individualismo insiti nella cultura di appartenenza degli studenti, vengono risolte e valorizzate. Pensiamo in particolar modo al Cooperative Learning secondo il quale i gruppi devono essere formati cercando di sfruttare le competenze dei singoli, per cui, poniamo, allo studente linguisticamente più fragile può essere dato il ruolo di “esperto” di un certo argomento. Sempre nell’ambito del lavoro di gruppo si possono poi ideare attività basate sul problem solving, le quali scaturendo da un’azione cooperativa, vengono percepite come una sfida da vincere in quanto gruppo: possono essere prove di vario genere, attività ludiche a tempo, cruciverba, stesura di una lista di vocabolario desunta da un testo e altro, ma sempre finalizzate a tenere alto l’interesse dello studente.

Un’altra metodologia che abbiamo sperimentato in classe con un certo successo di risultati è quella del Project Work perché ci permette di coinvolgere gli studenti in attività di gruppo da svolgersi anche fuori dall’aula, il che fra l’altro li obbliga o trovare autonomamente spazi, tempi e strumenti di apprendimento. Si tratta di solito di un modulo che parte dalla classe verso la realtà esterna e riapproda alla classe con una presentazione orale/scritta a cui ciascuno deve aver contribuito secondo le proprie possibilità e i propri interessi, con un conseguente passo in avanti nella dinamica del rapporto di gruppo e nel superamento del timore di mettere in discussione la propria immagine.

Facciamo di seguito alcuni esempi pratici che possono descrivere per sommi capi la struttura di un progetto modulare che impegni il gruppo classe e il singolo nel raggiungimento di un obiettivo comune e di autopromozione:

 

1)      Riscontrato in un gruppo l’interesse per la cultura dello sport, si suggerisce di approfondire che cosa significhi il calcio per gli italiani, al di là dello stereotipo, attraverso input che partono dalla cinematografia italiana degli ultimi anni (Mediterraneo, Marrakech Express, Tre uomini e una gamba), passano per la musica contemporanea tramite le canzoni di due tra gli autori più interessanti (De Gregori e Ligabue), arrivano alla letteratura giornalistica e perfino ai siti web delle società di calcio, a quelli personali dei campioni o dei fans club. Lo studente, in collaborazione con i compagni, deve svolgere ricerche, progettare e realizzare interviste, recuperare immagini, elaborare un confronto con gli stessi aspetti della propria cultura. A conclusione di questo progetto la classe può andare allo stadio per assistere ad una partita di calcio e verificare “dal vivo” le ipotesi riguardanti certi atteggiamenti sportivi.

2)      Già adatto ad un livello elementare è il progetto che verte sulla concezione del tempo nella nostra cultura. Anche in questo caso, partendo dalla visione di una scena di Mediterraneo (in cui Noventa, il disertore recidivo, sputa il caffè greco “polveroso”, perché non ha avuto la pazienza di farlo decantare), si può suggerire un percorso che porti gli studenti a fare una mappa degli orari degli italiani - l’orario di lavoro degli esercizi del quartiere dove abitano, dei grandi magazzini del centro, delle scuole elementari e superiori, delle banche e dei musei – e a capire i tempi che regolano le interazioni personali - a che ora si pranza o si cena, quanto ci si intrattiene in una certa situazione, quanto si rimane in un bar, il margine di tolleranza per un ritardo, l’elasticità nei termini di un intervento, e così via. Infine, può essere suggerita un’indagine su come gli italiani concepiscono lo scorrere del tempo, attraverso i modi di dire e i proverbi, le fasi della vita, la cura del corpo, l’idea di futuro, etc. Scattando foto e intervistando persone di età diverse, visitando alcuni siti segnalati e non trascurando di fare continui paragoni con le proprie abitudini e con quelle dei connazionali di aree diverse, il discente si può rendere conto che non sempre esistono modelli estendibili a tutto un Paese e che non è facile dire “gli italiani…”, così come non lo è dire “gli americani…”, e sarà libero, quindi, anche in questo caso, di aprire percorsi che erano sfuggiti all’insegnante e di arricchire il gruppo di nuovi apporti. Il progetto può terminare con una performance teatrale scritta e recitata dagli studenti in cui vengono rappresentati in maniera umoristica alcuni incidenti culturali che si possono verificare a causa della diversa concezione del tempo e di cui gli studenti sono stati protagonisti. Lo staff del centro e le altre classi saranno invitati ad assistere. 

 

Alla fine dunque, non è estranea alla realizzazione di questi progetti l’idea di avviare attraverso l’educazione linguistica una riflessione interculturale.

Inoltre, essendo trasversale a tutto il corso, lo sviluppo e l’approfondimento del progetto costituisce già di per sé un’ottima molla per la motivazione, conduce ad un’acquisizione stabile proprio perché creata agendo, e fa sentire lo studente parte attiva nella creazione di un sillabo in progress che soddisfa le esigenze del gruppo e dei singoli. Un impegno di questo tipo dovrebbe condurre a quella responsabilizzazione dello studente che auspicavamo precedentemente, sia per la necessità di escogitare strategie utili a recuperare rapidamente informazioni (tramite l’interazione con italiani o con strumenti in italiano), sia perché l’allievo sente che la qualità del suo lavoro contribuisce al successo del gruppo e che il risultato del corso non è più solo una sua questione personale, ma investe anche gli interessi di altri.

Il gruppo monolingue, quindi, non è più lento o più problematico del gruppo plurilingue: richiede semplicemente un’azione didattica diversa a cui spesso non siamo preparati.

 




[1] Al punto che, soprattutto nelle grandi città, spesso gli studenti che si avventurano a comunicare in italiano fuori dalla scuola, riferiscono, con una certa frustrazione, che negli esercizi pubblici i loro interlocutori, riconoscendone l’accento, rispondono in inglese.

 

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