Febbraio 2005  Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792
Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni
Novità sul versante umanistico. A colloquio con Mario Rinvolucri di Paolo Torresan

ABSTRACT

Mario Rinvolucri è una tra le figure più rappresentative dell’approccio umanistico-affettivo, da lui tradotto con originalità nella pratica e nella ricerca dell’insegnamento dell’inglese L2/LS. Nato nel 1940 in terra inglese da padre italiano e da madre inglese-tedesca, ha sviluppato una precoce predilezione per le lingue, che lo ha portato a lavorare, ancora giovane, nel campo dell’editoria e della didattica, in Inghilterra e all’estero (Grecia, 1963 – 1965; Cile, 1971 – 1973). Dalla metà degli anni ’70 tiene corsi di formazione presso la Pilgrims, a Canterbury. è considerevole la quantità di libri pubblicati, tra i quali citiamo il best-seller Grammar Games, Cambridge University Press 1984 (più di centomila copie a fine anni ‘90), e gli altrettanto celebri Dictation (scritto con Paul Davis), Cambridge University Press 1988, e Vocabulary (scritto con John Morgan), Oxford University Press 1986 (la seconda edizione è del 2004, con l’aggiunta di attività basate sulla teoria delle intelligenze multiple e su alcune intuizioni della Programmazione Neurolinguistica). Più datato, ma degno di essere ricordato per aver restituito negli anni in cui apparve un notevole spessore all’attività del raccontare storie e, più in generale, alla produzione orale, Once Upon a Time (scritto con John Morgan), Cambridge University Press 1983.

Nell’intervista che ci ha rilasciato lo scorso luglio, qui tradotta in italiano, abbiamo colto l’occasione per chiedergli di fare il punto della situazione sulle novità nell’insegnamento delle lingue, anche alla luce dei suoi testi recentemente pubblicati.

 

L’INTERVISTA

Caro Mario, ci illustri qualche punto della programmazione neurolinguistica1 da cui si potrebbero ricavare interessanti considerazioni per l’insegnamento delle lingue?

 

Sì, una delle massime della Programmazione Neurolinguistica è che “la mappa non è il territorio”. Questo concetto aiuta gli insegnanti a capire come ciò che a loro potrebbe piacere enormemente può non andare bene agli studenti. Anzi, l’insegnante è tenuto ad indagare su quale sia la “mappa” degli studenti, con uno spirito di osservazione, in modo da scoprire come gli studenti vedono il mondo, come percepiscono il processo di apprendimento, come si rapportano alle lingue.

Questo tipo di indagine, che ci viene trasmesso dalla Programmazione Neurolinguistica, rende l’insegnamento estremamente interessante, fa sentire che l’essere umano che sta di fronte è in parte sconosciuto e quindi, potenzialmente, un nuovo magnifico mondo da esplorare.

Per un insegnante è inoltre assai naturale attingere all’area della Programmazione Neurolinguistica che ha che fare con la percezione e i sensi. Ciascuno di noi sceglie determinati modi di esprimersi in base alle sue preferenze sensoriali: visuale, cinestetico, auditivo. Rendersi conto di tale diversità e trasportare le intuizioni in attività per la classe può essere altamente motivante.

Ritengo infine che anche il livello logico della teoria di Bateson sia molto utile: permette di separare, e quindi di non confondere, l’ambiente dal comportamento, dalle abilità, dalle convinzioni e dall’identità. Se un genitore dice al figlio: “Sei stupido!”, lo sta accusando a livello dell’identità, se dice invece: “Non hai fatto come si deve, avresti dovuto fare in questo modo!”, va ad interagire con il livello del comportamento.

 

Uno dei tuoi libri recentemente pubblicati si intitola “Humanising Your Course Book” [Delta Publishing, London 2002], [“Umanizzare il libro di testo”] e la rivista online di cui sei responsabile si chiama “Humanising Language Teaching[“Umanizzare l’insegnamento linguistico”]. Cosa intendi per “humanising”, “umanizzare”?

 

Potrei spiegarlo attraverso l’esempio di una maestra che insegnava in Nuova Zelanda. La scuola le fornì, a inizio anno scolastico –lei aveva appena cominciato ad insegnare-, un tradizionale libro di lettura britannico che, nei contenuti, non presentava alcuna relazione con la realtà dei suoi allievi. Lei pensò allora di chiedere ai bambini che le riferissero alcune parole che per loro erano veramente importanti. C’è chi disse “coltello”, chi “aerei”, ecc. L’insegnante scrisse le parole su fogli di carta, consegnò i fogli ai bambini e chiese loro di portarseli a casa per ripassare le parole, e quindi di riportarli la lezione successiva. Attraverso quella serie di parole, ritenute importanti dai bambini, la maestra sviluppò dei testi.

Penso che questo sia un esempio chiaro di cosa significhi per me “umanistico”. Si tratta in sostanza di accedere al mondo degli studenti.

 

Lo studente al centro del processo…

 

Esatto.

 

E se tu fossi costretto, per realizzare questo scopo, a scegliere uno tra i vari metodi –suggestopedia, metodo silenzioso, ecc.- quale sceglieresti e perché? O meglio, sceglieresti un metodo?

 

Infatti, è una domanda provocatoria…

Scegliere un metodo mi pare un’azione che si astrae dalla realtà dello studente o degli studenti come classe, e in questo senso mi pare inappropriata. Per me, un metodo dovrebbe essere flessibile a ciò che accade dentro agli studenti. Sono gli studenti, in altre parole, a dominare; il metodo dovrebbe essere utile a fornire delle indicazioni ma sempre e solo a partire dal contesto della classe.

Il Community Language Learning, per esempio, può essere ragionevolmente adottato con un gruppo di adolescenti o adulti ma non con i bambini.

Per questo, ripeto, la risposta a questa domanda non può essere univoca.

 

Quindi, in sostanza, si tratta di mettere in atto diverse strategie per diversi tipi di studenti…

 

Proprio così.

 

Mario, tu hai scritto un libro su come usare in maniera efficace la lingua madre in classe [Rinvolucri M., Deller, S., Using the Mother Tongue, Delta Publishing, London 2002]. Sbaglio o sembra scelta fuori tempo: agli insegnanti di lingua oggigiorno viene consigliato di evitare l’uso della lingua madre in classe!

 

Diciamo che il metodo diretto funziona perfettamente con i bambini, i quali manifestano la capacità naturale di rispondere ad un adulto con la lingua che l’adulto usa. Il gioco in questo senso diventa il veicolo per un accesso diretto alla lingua target, e i bambini, appunto, acquisiscono la lingua proprio in virtù della relazione con l’adulto. Questo è un esempio che vale a giustificare i presupposti del metodo diretto.

Tuttavia io sono persuaso che, nel caso in cui uno già possiede una lingua madre, è naturale che questa lingua madre diventi un riferimento obbligato nell’acquisizione della lingua seconda. Anzi, sono dell’opinione che se precludiamo l’uso della lingua madre in classi di ragazzini di dieci, quindici anni, creeremmo paradossalmente più motivi di attenzione alla lingua madre da parte degli alunni, di quanto non capiterebbe se l’uso della stessa fosse abilmente dosato.

Un esempio in tal senso potrebbero essere i testi bilingue, dove una lingua si mescola con l’altra a livello di parole o di frasi. In attività con testi bilingue la lingua madre può conferire fascino e potenza alla lingua straniera, assicurando una comprensione rapida della lingua bersaglio. Una volta compreso il significato della parola straniera, lo studente non torna più alla lingua madre.

Così accade ai bambini che crescono in un contesto bilingue, o parzialmente bilingue, i quali, per un certo arco di tempo, mescolano le lingue nelle loro produzioni. Io sono nato in un contesto bilingue - ebbene, c’erano alcuni termini che non mi piacevano affatto, per esempio la parola “aceto” non mi andava giù e mi trovavo a dire: “Dammi l’olio e il vinegar”. In una comunità bilingue, dove ciascuno conosce entrambe le lingue, non c’era problema ma appena mi capitava di andare in Italia le cose non funzionavano ed ero costretto ad usare “aceto”.

Insomma, è fisiologico che ci sia un processo interlinguistico dove avviene appunto una mescolanza.

 

So che stai lavorando ad un libro dedicato alla teoria delle intelligenze multiple.

Gardner, lo psicologo di Harvard che la sviluppò, dichiarò di non essere molto interessato alle applicazioni della teoria nel campo dell’insegnamento delle lingue. E in effetti se uno ci pensa, già da parecchio tempo gli insegnanti di lingue, più di altri insegnanti, ricorrono implicitamente a tecniche che sollecitano le diverse intelligenze. Tanto per fare qualche esempio: l’importanza della musica viene sottolineata dalla Suggestopedia, il Total Physical Response insiste sul valore del movimento, l’aspetto relazionale è centrale nelle varie forme in cui si esprime il Cooperative Learning, e così via.

A me viene da concludere che la teoria non dà adito, nel campo della glottodidattica, ad alcuna rivoluzione. E quindi, provocatoriamente, ti rilancio la palla: non c’è veramente nulla di nuovo sotto il sole?

 

Un esercizio che talvolta faccio fare agli insegnanti che seguono i miei corsi di formazione è quello di chieder loro qual era l’intelligenza in cui erano meno abili quando erano bambini, e quindi li divido a gruppi: il gruppo che non riusciva nella musica, quello che non riusciva nelle attività fisiche, ecc. Spesso si crea un situazione di forte impatto emotivo, perché emergono, dai loro racconti, le figure di vecchi docenti che contribuivano a peggiorare situazioni di disagio, facendo sentir le persone come degli esseri inferiori.

Il mio tallone d’Achille per esempio è la musica; mi ricordo una volta in cui partecipai alla discussione in un gruppo i cui membri si dichiaravano poco portati per la musica: emersero storie, alcune piuttosto amare, di vecchi insegnanti che guardavano con una certa arroganza chi, a loro giudizio, non era portato per la musica.

Ecco il punto: sono convinto che la teoria di Gardner sia utile ad individuare strategie adatte per quegli studenti che non riescono a stare al passo con la lingua straniera, anche se magari dimostrano di essere capaci in altre discipline.

Va aggiunto poi che certi tipi di intelligenza vengono presi in scarsa considerazione dai metodi moderni. Non mi risulta, per esempio, che ci siano abbastanza attività che coinvolgano l’intelligenza intrapersonale; per gli studenti che sono particolarmente portati all’autoriflessione l’offerta didattica è scarsa: gli insegnanti non creano l’occasione di ripetere internamente i contenuti appresi. Persino il titolo di un manuale d’italiano per stranieri ormai datato, “Comunicare subito” [Luzi Catione R. L., Piva G., Humphris C., 1982, Comunicare subito, Roma, Edizioni Dilit], è radicalmente anti-intrapersonale: entrambi i termini, “comunicare” e “subito”, si oppongono al lato introspettivo dell’apprendimento linguistico.

Un’altra intelligenza che non è stata sfruttata a dovere è quella spaziale, che Gardner recentemente ha chiamato “intelligenza matrice”, conferendole perciò un significato particolare. In effetti molta gente, quando ascolta o legge, compie un’operazione spaziale: la lettura di un romanzo, per esempio, può comportare un lavoro immaginativo simile a quello che caratterizza il sogno.

C’è insomma ancora molto da esplorare sia a livello teorico, considerando le singole intelligenze, sia a livello applicativo, nella prassi didattica.

 

Recentemente ti sei pure interessato a come rendere gli studenti consapevoli dei loro processi di apprendimento [Davis P., Garside B., Rinvolucri M., Ways of Doing, Cambridge University Press, Cambridge 1998]. Sai un mio dubbio? Che alla lunga un’attività del genere possa rischiare di essere noiosa, specie con una classe di adolescenti.

 

Mi viene in mente un esempio per illustrarti come l’analisi dei processi possa rivelarsi estremamente utile. Una volta mi trovai ad insegnare in una classe di giovani universitari giapponesi, diciannove, vent’anni. La relazione che avevo con loro era buona, anche se un po’ distaccata. Dopo una settimana e mezzo di corso intensivo, dettai loro un questionario attraverso il quale li invitavo a esplorare i momenti in cui si trovavano a fantasticare ad occhi aperti. Chiedevo loro di pensare al modo in cui iniziavano a fantasticare, a quanto duravano i loro sogni ad occhi aperti, a come si caratterizzavano le loro fantasie (solo immagini? anche suoni? sensazioni?), a come le fantasie erano cambiate rispetto a quando erano dodicenni o sedicenni, ecc.

Ciascuno fu invitato a formulare una risposta per iscritto, e quindi a confrontarsi con i compagni, in gruppi di tre o quattro. Ebbene, dopo quest’attività si venne a creare un clima diverso nella classe, e ci fu un atteggiamento più disponibile nei miei confronti.

Io penso che il motivo risiedesse nel fatto che il sognare ad occhi aperti giocava un ruolo particolarmente importante all’interno della vita accademica di quei ragazzi: era cioè una salutare valvola di sfogo all’interno di un contesto estremamente formale e rigoroso, qual è quello dell’educazione in Giappone.

 

L’atmosfera della classe quindi piano piano cambiò…

 

Sì, proprio in virtù del fatto che i ragazzi avevano percepito che avevo affrontato qualcosa che per loro era molto significativo e di cui probabilmente non avevano avuto occasione di discutere in precedenza.

E in effetti una tra le cose che mi piacciono di più, per quanto riguarda gli esercizi metacognitivi, è il fatto che spesso gli studenti sono portati ad esplorare qualcosa che non hanno mai preso in considerazione prima, nemmeno nella loro lingua madre. Questo dà un sapore nuovo all’insegnamento!

Tu insegni italiano, se tu inviti i tuoi studenti a parlare in italiano di qualcosa di cui non hanno mai parlato nella loro lingua madre, permetti loro di conferire all’italiano uno spessore emotivo. L’italiano diventa lo strumento con il quale i loro pensieri più profondi vengono a galla. Si tratta di un nuovo modo di rapportarsi alla lingua.

 

Sì, però nel tuo caso è facile: tu possiedi una serie di competenze che ti vengono dalla Programmazione Linguistica e che in genere gli insegnanti non hanno, io compreso…

 

Sì, però quello che conta per me è il principio generale: se l’insegnante dice qualcosa di nuovo, si pone in una situazione di vantaggio.

Mi viene in mente l’esperienza di Paulo Freire, e del suo contadino brasiliano che mettendo le lettere insieme scopre alla fine il suo nome: “Quegli strani scarabocchi sono io!”. Che scoperta!

Beh, io non voglio pensare a tanto, perché in questo caso si va a toccare il livello dell’identità, ma consideriamo piuttosto il principio generale: attraverso l’inedito –e ne va da sé che la novità riguarda i contenuti della comunicazione, non tanto le forme linguistiche che si usano– è possibile attivare la motivazione della classe.

 

 

CONCLUSIONI

C’è un sentimento che serpeggia spesso tra noi, insegnanti di lingua, e cioè che la glottodidattica abbia già dato il meglio di sé.

Il proliferare però delle riflessioni teoriche avvenuto in Italia negli ultimi anni (e che fa eco a quanto si muove in ambito anglosassone) potrebbe smentire questa sensazione, inducendo a pensare invece che l’esigenza di un confronto con nuove esperienze e nuove modalità dell’insegnare sia ben più forte di quanto non appaia.

Di questo è convinto anche Mario Rinvolucri, secondo il quale la glottodidattica non è una strada in salita né si può ritenere con tutta tranquillità di essere arrivati in prossimità della vetta. Anzi, lui è convinto che siano particolarmente proficue le conseguenze sul piano pratico che discendono da una serie di speculazioni: Programmazione Neurolinguistica, Teoria delle Intelligenze Multiple e Metacognizione2.

Non solo, seguendo i pensieri di Rinvolucri, ci accorgiamo di come la strada non sia solo in salita ma siano possibili anche dei ritorni, ovvero, fuor di metafora, un riutilizzo di tecniche sulle quali un certo comunicativismo aveva gettato un’ombra nera. Strategie e attività giudicate superate possono, in sostanza, essere rivisitate e rivitalizzate attraverso un uso originale e meditato: così come già aveva fatto con il dettato, Rinvolucri apprezza profondamente l’uso sapiente della lingua madre.

Il termine che meglio caratterizza il suo pensiero è “umanistico”.

Quand’è che un insegnante si può dire “umanistico”? Quando riesce a de-centrarsi, a vestire i panni dello studente, del singolo studente. È questa la direzione, spiega Rinvolucri, che rende la didattica un’azione efficace; è agendo in questo modo che si rigenera e si dà forza al motivo che spinge lo studente all’azione di imparare una lingua.

E non a caso è con il leitmotiv che attraversa quest’intervista, la parola “motivazione”, che io e Mario Rinvolucri ci siamo congedati.

 

1 Letture consigliate: O’Connor J., Seymour J., Introduction to Neurolinguistic Programming, Mandala 1990.

2 Per chi ne vuole sapere di più:

- Per la PNL: Revell J., Norman S., 1997, In Your Hands. NLP in ELT, Saffire Press, London; Revell J., Norman S., 1999, Handing Over. NLP-Based Activities for Language Learning, Saffire Press, London;

- Per la Teoria delle intelligenze multiple: Fonseca Mora M. C., (cur.), 2002, Inteligencias Múltiples. Múltiples formas de enseñar inglés, Mergablum, Sevilla; Armostrong T., 2003, The Multiple Intelligence of Reading and Writing, ASCD, Alexandria, Virginia, USA;

- Per la Didattica Metacognitiva: Mariani L., Pozzo G., 2002, Stili, strategie e strumenti nell’apprendimento linguistico, La Nuova Italia, Firenze.

 

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