Giugno 2010  Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792
Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni
L’eco della lingua materna di Roberta Ferroni

ABSTRACT

Attraverso questo articolo tenteremo di mostrare, ricorrendo ad alcuni concetti elaborati nel campo dell’analisi del discorso e ad altre riflessioni nate in seno alla psicanalisi, che la lingua materna (d’ora in poi LM) costituisce per ciascun individuo un’esperienza unica e pertanto inseparabile. Essa non soltanto è parlata dal soggetto ma lo attraversa, lo costituisce come essere simbolico, pertanto è impossibile separarsene nel momento in cui l’apprendente si confronta con la lingua straniera (d’ora in poi LS).

 

1. INTRODUZIONE

 

Che tipo di relazione vi è tra lingua ed inconscio? Che cosa significa mettere a tacere la lingua materna o viceversa continuare a farla parlare? È possibile in pratica sfuggire alla propria lingua nel momento in cui si è alle prese con una lingua straniera?

Per rispondere a queste domande non possiamo che rifarci alle riflessioni nate in seno alla psicanalisi la quale, specie negli ultimi anni, ha dato vita ad una serie di contributi a nostro parere originali e ricchi di spunti per chi si occupa di acquisizione della lingua straniera, tali studi prendono le distanze dagli approcci cosiddetti tradizionali e indagano l’apprendimento della LS sotto un’ottica diversa. È in questo contesto che trovano la propria ragion d’essere una serie di ricerche di carattere transdisciplinare che, attraverso il sostegno della psicanalisi e dell’analisi del discorso, hanno approfondito i legami che intercorrono tra LM, LS ed inconscio, luogo, come ci ricorda Revuz (1998), dove si installa il desiderio, in cui alterità ed identità si incontrano.

 

 

2. MATERNA LINGUA

 

Considerata come oggetto di scienza, la lingua varia da un luogo all’altro e da un’epoca all’altra, ma in quanto fenomeno comune all’esperienza di tutti gli esseri parlanti, porta un unico nome coniato alla fine del Medioevo e mai caduto in disuso: “lingua madre” (materna lingua)1.

Dante sosteneva che la differenza tra il linguaggio originario dell’essere parlante e le forme di linguaggio successive non era solo di grado ma anche di natura. Mentre, apprendiamo la prima lingua (nostra vera prima locutio) da chi ci sta intorno, senza bisogno di regole, o imitando la nostra nutrice (sine omni regula, nutricem, imitantes accipimus) - scriveva nel primo libro del De vulgari eloquentia - la nostra lingua seconda, al contrario, la apprendiamo deliberatamente e metodicamente cioè attraverso lo studio della grammatica.

Qualcosa della sua concezione circa la varietà delle lingue resta valida tutt’oggi, poiché sappiamo che la LM si impara in modo del tutto differente da come si acquisiscono le lingue successive.

Come mai è possibile, c’è da chiedersi, iniziare ad apprendere una lingua tramite lo studio, se fino ad allora si era sempre solo cominciato a parlare imitando senza alcuna regola? E una volta appresa che tipo di relazione si instaurerà tra la LM e la LS?

Non è un caso che molti apprendenti, a contatto con la lingua straniera tentino, a volte invano, di tradurre ciascun termine nella loro lingua e imparino con molte difficoltà le parole che non hanno un equivalente. Alle prese con la lingua orale cercheranno di parlare ricorreranno al medium indisciplinato della loro prima lingua. Tutto ciò accade perché l’apprendente percepisce l’impossibilità di separarsi dalla lingua materna, da ciò che l’ha forgiato. A seconda del soggetto, tale esilio, potrà esser interpretato come un’esperienza dolorosa, come una rinascita o infine come un’esperienza da evitare (Revuz 1998).

Le ragioni che stanno alla base di questo smarrimento risiedono molto probabilmente nelle differenze che separano la LM dalla LS. Se la lingua materna, come ci ricorda lo psicanalista Melman (1992: 15) è la lingua che si “sa”, dove sapere una lingua significa essere posseduto da essa, la lingua straniera è quella che si “conosce”, dove conoscere significa essere capace di tradurre mentalmente partendo però dalla lingua che si sa, ovvero dalla LM. In quanto la prima è per Melman la lingua del piacere e del desiderio, la seconda è la lingua della conoscenza, della comunicazione.

Vi sono tuttavia delle eccezioni, infatti per alcuni parlanti la lingua madre può essere la lingua che si conosce anziché lingua del sapere. Elias Canetti è un caso esemplare.

Nato in Bulgaria nel 1905 da una famiglia di ebrei sefarditi, apprese dapprima l’idioma giudeo-spagnolo degli ebrei che vivevano in Spagna. Nel volume che compone la sua autobiografia La lingua salvata (1980), Canetti ci ricorda che in un solo giorno a Rustschuk si potevano sentire sette o otto lingue, poiché la città era abitata non solo da ebrei spagnoli, ma anche da bulgari, turchi, greci, albanesi e zingari, oltre ad alcuni rumeni e russi. Ma il futuro scrittore era già esposto ad un’altra lingua. Nonostante i genitori parlassero sempre in spagnolo, tra di loro usavano il tedesco, lingua materna che sarà appresa da Elias come una lingua straniera. Difatti dopo un periodo trascorso a Manchester, la famiglia si trasferirà prima a Parigi ed infine a Losanna, ove la madre, rimasta vedova, aveva in mente di far imparare al piccolo Elias il tedesco. Ebbe così inizio un periodo terribile in cui Canetti a soli otto anni dovette apprendere l’uso della lingua tedesca, lingua che per la madre costituiva la lingua dell’intimità e dell’affetto, senza né leggere né scrivere. Furono tre mesi durante i quali il ragazzo visse un clima di vero e proprio terrore: “Durante le passeggiate con la governante ero di cattivo umore e parlavo solo a monosillabi. Non sentivo più il vento, non ascoltavo la musica, in testa ormai avevo soltanto quelle maledette frasi tedesche e il loro significato in inglese”(1980: 98). In un primo momento il bambino era costretto a memorizzare frasi senza ricorrere alla pagina stampata, successivamente il supplemento della scrittura si rivelò decisivo, il ragazzo apprese meglio e più rapidamente.

Si potrebbe pensare che il tedesco sia stato per Canetti una lingua straniera, invece fu qualcosa di ben più sorprendente: “una lingua madre imparata con ritardo e con vero dolore” (1980: 100). Sarebbe divenuta la lingua di lavoro di tutta una vita, e per l’adulto Canetti la sua acquisizione costituì l’equivalente di una seconda nascita, senza la quale parte della sua vita sarebbe incomprensibile e priva di significato (1980: 105):

 

A Losanna […] vissi sotto l’influsso della mamma la mia seconda nascita in lingua tedesca, e proprio nel travaglio di quella nascita ebbe origine in me la passione che mi avrebbe legato ad entrambe, a quella lingua e a mia madre. Senza questi due elementi, che in fondo erano un’unica e medesima cosa, tutto il corso successivo della mia esistenza resterebbe incomprensibile e privo di significato.

 

La LM di cui parla Canetti, anche se appresa alla stregua di una lingua straniera, è la lingua del sapere e per questo non sarà mai paragonabile a tutte le altre lingue conosciute dallo scrittore, il tedesco non sarà mai dello stesso ordine delle altre lingue straniere, tanto che grazie a questa recupererà il rapporto con la madre.

Quello che intendiamo rimarcare attraverso questa digressione è che attraverso il suo potere, la lingua materna è capace di superare le barriere di carattere cronologico. Anche se appresa posteriormente, è un’esperienza fondante, per mezzo della quale si costituiscono e si sviluppano una serie di altre relazioni, essa appartiene all’ordine della memoria discorsiva2 e come tale costituisce il soggetto (Payer 2007).

Molto suggestiva in questo senso è la metafora elaborata da Greenson (1950) secondo il quale, il suono “mm”, modulato nella bocca del bambino esprime il fantasma di essere unito alla madre, di avere dentro la sua bocca il capezzolo, “mm” è l’unico suono che possiamo produrre a bocca chiusa. La lingua materna di cui parla Greenson è una lingua ancora non organizzata, è un mormorio auto-referente e auto-erotico, una formula che non è ancora in grado di denominare e di comunicare ma solamente di esprimere un vissuto affettivo e sensoriale, primordiale. Il suono “mm” antecessore di tutte le parole a venire, sembra realizzare un’unione magica e universale tra parola e cosa. I termini stessi madre lingua, mother tongue o langue mère rimandano a un’immagine di lingua catturata attraverso il seno materno. Quest’immagine senza dubbio molto poetica ci suggerisce il potere esercitato sull’individuo dalla propria lingua, una lingua per l’appunto primitiva, corporale prima ancora che simbolica, concreta prima che astratta. Del resto la lingua ancor prima di essere un sistema strutturato e complesso, nasce e si sviluppa come esperienza sonora, solo in un secondo momento e in maniera progressiva i nomi saranno associati alle cose.

La lingua materna, la migliore delle lingue, secondo Courtine (1981), possiede una memoria discorsiva inenarrabile, il soggetto si trova ad essere catturato da questo “sapere, che non si apprende, non si insegna ma che produce i suoi effetti” (Orlandi 2000: 34), tale sapere si sedimenta nell’interdiscorso3 che, anche se sconosciuto, è denso di significato. La lingua materna allora si manifesta come dimensione del linguaggio nella sua storicità, essa appartiene all’ordine della memoria discorsiva composta da una stratificazione di formule già costituite ma dimenticate, memoria che sfugge al nostro controllo ma sulla quale possiamo costruire i nostri significati dandoci l’impressione di sapere ciò di cui stiamo parlando. Il soggetto attraversato dalla LM è in grado di produrre un senso a ciò che dice perché ha sofferto gli effetti del simbolico sottomettendo la propria lingua alla storia. Per sottolineare la singolarità della lingua materna è necessario intendere che il soggetto si costituisce come tale attraverso il linguaggio.

La LM come sostiene Milner (1987) non è comparabile alle altre lingue, essa è la configurazione più diretta della lalangue, termine con il quale si designa tutto ciò che nella lingua resiste all’univocità, alla dimensione dell’identico, è cioè il luogo dal quale si origina l’equivoco, la omofonia, il doppio senso. Questo fa sì che il soggetto dica più di quello che vorrebbe dire, ecco allora la relazione intrinseca che si viene creando tra linguaggio ed incosciente. Se ammettiamo questa definizione possiamo allora affermare che, in quanto figurazione de lalangue, la lingua materna non potrà mai essere allineata alle altre lingue essa, come ci ricorda Leite (1995) è:

“[...] quella in cui il gioco dei significanti fa ascoltare il desiderio di quello che è impossibile, il soggetto è in essa, più conoscitore di quanto crede” (Leite 1995: 68)

 

 

3. L’ECO DELLA LINGUA MATERNA

 

È possibile allora silenziare la propria lingua materna nel momento in cui ci si appropria di un’altra lingua, quella cioè detta straniera?

A nostro parere sono due le ragioni principali che ci inducono ad affermare il contrario. Da un lato infatti la lingua ancor prima di essere oggetto di conoscimento è, come dice Revuz (1998), materiale fondante del nostro psichismo e della nostra vita relazionale, questo significa che la LM proprio per il fatto di essere detta a partire dal proprio desiderio, non sarà mai un semplice strumento di designazione oggettivo delle cose e del mondo. Dall’altro appartiene all’ordine della memoria discorsiva, oggetto iscritto in una filiazione che non deriva da un processo di apprendimento ma significa di per sé, tale discorsività ci permette di costruire i nostri significati dandoci l’impressione di sapere ciò di cui stiamo parlando. Al contrario nel momento in cui l’apprendente si troverà a contatto con la LS dovrà sempre ricorrere alla propria LM specie per esprimere ciò che appartiene alla sfera personale.

Per comprendere meglio ciò a cui ci stiamo riferendo è indispensabile ridefinire il concetto di lingua la quale, è ben lungi dall’essere mero strumento di comunicazione. Al contrario la lingua si identifica sempre più come un oggetto complesso che racchiude in sé un’infinita gamma di funzioni esercitate sul soggetto parlante, tale complessità non viene meno nel momento in cui spostiamo la nostra attenzione sulla LS e sulle relazioni che quest’ultima intesse a partire dalla LM.

Secondo Revuz (1998) la lingua, è allo stesso tempo oggetto di conoscimento intellettuale e pratica. In quanto oggetto pratico racchiude in sé tre dimensioni: la dimensione dell’io, che è sollecitato nella misura in cui l’espressione di una determinata lingua esige che il soggetto mobilizzi forme di affermazione del proprio io e modalità di relazionarsi con gli altri e con il mondo; la dimensione corporale, che si realizza tramite l’apparecchio fonatorio; la dimensione cognitiva, responsabile di mobilizzare conoscenze che il parlante già possiede. Ma c’è anche un’altra componente di cui parla Revuz che marca profondamente l’apprendente. L’esercizio richiesto per l’apprendimento di una lingua straniera oltre a chiamare in causa le nostre conoscenze, il nostro io e il nostro corpo sollecita la base stessa della nostra struttura psichica e con essa tutto ciò che è strumento e materia di questa composizione ovvero, la LM. In altre parole, la necessità di relazionarsi con un’altra lingua mette in discussione quello che già esiste, cioè la strutturazione psichica avvenuta attraverso la LM. La lingua, ovvero la lingua materna è “materiale fondante del nostro psichismo e della nostra vita relazionale” (Revuz 1998: 217), parlare una lingua diversa dalla propria vuol dire ristabilire un contatto con questa materia. Ragion per cui, nessuna lingua, per nessun soggetto parlante può essere intesa come mero strumento di comunicazione. La nostra relazione con le lingue è profonda e strutturante, nel tentativo di appropriarsi di un nuovo codice, dice Revuz, l’apprendente vive una sorta di smarrimento fino a regredire al cosiddetto stadio di infans. Il pericolo aumenta quando l’apprendente si trova a contatto con la lingua orale, articolare e produrre nuovi suoni, estranei alla propria lingua materna può apparire come una minaccia. Si tratta di una incapacità di percepire suoni ritmi ed intonazioni che non ci appartengono. Nel voler prendere le distanze da ciò che gli è estraneo l’apprendente trova nella LM una sorta di rifugio. E in essa che farà ritorno quando percepirà che le parole non sono più quello che erano prima.

Se nella propria lingua l’operazione di denominazione è sempre simultaneamente un’operazione di predicazione, poiché nel nominare ciò che lo circonda, il soggetto si riferisce ad un referente invaso da una carica affettiva che già esiste nella psiche, il processo di nominazione in lingua straniera provoca un dislocamento. La lingua straniera pone l’apprendente di fronte ad un altro reale sprovvisto della carica affettiva. La LS non ritaglia il reale come invece fa la LM. L’arbitrarietà del segno linguistico si trasforma in una realtà tangibile, ci si imbatte così in espressioni e suoni privi di quella sedimentazione affettiva che appartengono al vocabolario della lingua materna. Ciò è particolarmente evidente in presenza di parole oscene e volgari le quali se articolate in lingua straniera perdono il proprio valore4. Apprendere a parlare una lingua straniera vuol dire utilizzare una lingua estranea nella quale le parole sono solo parzialmente “contaminate” dai valori della propria lingua. Questo estraniamento, conclude Revuz, può essere vissuto come una privazione, una perdita d’identità o in certi casi può risultare come un’operazione salutare e di rinnovamento.

L’idea che vi siano altri fattori, oltre a quelli di origine cognitiva, da considerarsi anteriori al processo di acquisizione e che siano attivi nel momento in cui avviene l’incontro con altre lingue, è sostenuta da Serrani-Infante (1997; 1998). Tali fattori hanno un’origine inconscia.

Tanto questo studio quanto il precedente ci possono permettere di comprendere meglio ciò che avviene nell’individuo nel momento in cui tenta di allontanarsi dalla lingua che l’ha forgiato. Il processo di enunciare in altre lingue mobilizza i fondamenti della strutturazione soggettiva, cioè, quello che appartiene alla nostra storia sociale, sedimentata nella singolarità del soggetto. Nell’atto di nominare stabiliamo delle posizioni ideologiche e soggettive e di potere, ciò avviene tanto nella nostra lingua che nella LS, che diranno rispetto ai processi identificatori. Questo io-immaginario si definisce come una stratificazione incessante di immagini continuamente iscritte nell’incosciente. Per mezzo di questo processo sono trasmesse una rete di rappresentazioni e di identificazioni immaginarie che l’enunciatore costruisce nel discorso. È attraverso l’incontro con la seconda lingua che il soggetto pone in questione la propria identità, l’incontro con la LS è una delle esperienze più visibilmente mobilizzatrici per ciò che concerne l’aspetto identitario nel soggetto, tanto in contesti di immersione che in esperienze di contatto più brevi.

Se da una parte l’incontro con la LS è vissuto con una sorta di impulso verso tutto ciò che è nuovo, dall’altra però sarà forte la paura di dover esiliare dalla propria discorsività, dalla propria lingua, la quale porta le marche della strutturazione soggettiva. Questo spiega le ragioni per cui molti apprendenti trovano una sorta di conforto nella LM, la quale è custode della memoria discorsiva. Non tutti sono pronti a vivere questo allontanamento da sé. Ecco allora che la lingua materna può venirci in aiuto, come dice Melman: “Vogliamo cambiare di lingua, ma vogliamo custodire la musica dell’altra. E (…) perché abbiamo l’impressione di conservare la nostra identità, dato che è evidente che parlare una lingua straniera è despersonalizzante” (1992: 52).

Se partiamo da questo punto di vista, risulterà più facile comprendere non solo perché sia impossibile mettere a tacere la propria lingua materna ma, affrontare in modo più profondo la questione degli insuccessi in lingua straniera.

La lingua materna è composta da una materialità linguistica e storica che tesse l’incosciente, gli echi di questa lingua durante il processo di acquisizione di una LS sono stralci di una identità che ci raccontano di e sul soggetto, continuare ad immergersi nella LM vuol dire continuare a parlare a se stessi al proprio reale.

La lingua straniera, penetra in noi come frammenti che disturbano, confondono e turbano la nostra apparente quiete. Tale turbamento può di fatto provocare delle reazioni che si manifesteranno attraverso due sentimenti opposti: paura e attrazione. Paura di perdere la propria identità paura per il diverso, di ciò che è estraneo, sconosciuto, paura di mettere in forse le proprie credenze, le proprie abitudini, paura dell’altro. Questa paura può a nostro avviso essere combattuta dall’apprendente attraverso un ritorno alle proprie origini, attraverso il ricorso alla lingua materna. Non tutti noi siamo pronti a vivere questa esperienza anomala, imparare una lingua diversa dalla nostra significa imbattersi in situazioni che provocano confronti interni, non riconoscersi in noi stessi né riconoscere gli altri, tale sfida a volte può trasformarsi in una esperienza dolorosa dato che apprendere una lingua straniera significa essere diversi dagli altri.

Resistere alla LS ricorrendo alla propria LM deve essere interpretato pertanto come un atto né da condannare né da evitare, quanto come un ritorno, seppur momentaneo, a ciò che è apparentemente noto e per questo nominabile.

 

 

4. CONCLUSIONI

 

Può allora l’apprendente, che sia esso bambino o adulto, abbandonare la propria voce? O forse è la lingua straniera che, facendo presa sul nuovo parlante, rifiuta di tollerare in lui l’ombra di un’altra lingua?

Se partiamo dal presupposto che la lingua costituisce un elemento essenziale di un processo psicanalitico, costituisce in questo senso un punto di svolta la definizione data da Lacan, secondo il quale l’incosciente è strutturato come una lingua, sarà difficile immaginare che suoni e parole che un tempo hanno fatto parte del nostro vissuto e che era così naturale produrli possano scomparire per sempre dalla nostra voce, lasciando dietro nient’altro che un sottile fil di fumo. Il prezzo da pagare sarebbe troppo caro e ingiustificato. Forse è meglio pensare, come suggerisce il titolo di questo articolo, che nel linguaggio di colui che apprende una seconda lingua continui a rimanere un’eco, un balbettio, un brusio della nostra prima lingua. Un’ecolalia5, custode della memoria di quella materna lingua che ci ha generati.

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

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1 Il sintagma materna lingua, riscontrabile in un testo mediolatino risalente al 1119 circa, è la più antica espressione conosciuta per indicare la lingua madre. Sulla storia dell’espressione “lingua madre”, cfr. SPITZER, L. 1948, “Muttersprache und muttererziehung”, In: Essays in historical semantics.”, New York, 15-65.

2Attraverso la memoria discorsiva è possibile far circolare formulazioni anteriori già enunciate, si tratta di enunciati precostituiti che appartengono alla memoria del parlante.

3 Secondo l’analisi del discorso di stampo francese ciascun enunciato si situa sempre in relazione ad un già detto, ad un livello interdiscorsivo iscritto nella storia.

4 Si veda a questo proposito l’opera di Ferenczi intitolata Mots obscènes. Contribution à la psychologie de la période de latence pubblicata fra il 1910-1911 in cui l’autore studia l’utilizzo della lingua straniera e della lingua materna durante i cosiddetti mots obscènes. Lo psicanalista osserva che il ricorso a parole oscene in pazienti stranieri acquista un valore diverso a seconda che la frase sia detta in lingua straniera o nella propria lingua. Secondo Ferenczi il moto osceno se detto nella lingua materna è molto più intenso e carico a livello emotivo che non quando detto in lingua straniera. Il riferimento è tratto da AMATI MEHLER, J. et al. La Babel de l’inconscient (1994).

5 Dal punto di vista medico l’ecolalia è un disturbo che consiste nel ripetere involontariamente parole o frasi pronunciate da altre persone, tale fenomeno fin dalla fine del diciannovesimo secolo è stato oggetto di studio principalmente della psichiatria.

 

 

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