Febbraio 2007  Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792
Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni
Intelligenze multiple: il tramonto di una moda? di John White

Molti progetti educativi, ad ogni livello, si ispirano alla teoria delle intelligenze multiple di Howard Gardner. La teoria individua otto-nove tipi di intelligenza: oltre a quella linguistica e logico-matematica misurate dal QI (il Quoziente di Intelligenza): musicale, spaziale, corporeo-cinestesica, intrapersonale, interpersonale, la naturalistica e, con qualche riserva, quella esistenziale.

A motivare l’interesse che la teoria ha riscosso vi è proprio l’operazione di aver sganciato il concetto di intelligenza dal quoziente di intelligenza. Molti sono cresciuti infatti ritenendosi poco intelligenti sulla base dei risultati mediocri ottenuti nei test tradizionali, basati sui ragionamenti astratti. La teoria delle intelligenze permetterebbe alle persone di liberarsi da percezioni limitanti di questo tipo. Gli studenti possono dare il meglio di sé quando scoprono quanto intelligenti sono nel comporre musica o interagire con le persone; quelli che riescono nelle attività fisiche ma hanno scarsi esiti in matematica, possono comunque ritenersi dotati di talento cinestesico.

La teoria spopola ovunque. Mi è giunta notizia che il modello sta per essere implementato nelle scuole secondarie del Quebec. In Gran Bretagna molte scuole si rifanno alla teoria al fine di promuovere un insegnamento/apprendimento flessibile, che rispetti i diversi “stili di apprendimento” degli allievi.

Non tutti imparano in maniera efficace mediante metodi tradizionali che privilegiano le abilità linguistiche e quelle logico-matematiche. Il modello riconosce uno spazio a quegli studenti che possono sfruttare, ai fini dell’apprendimento, abilità musicali o cinestesiche. Affrontare un argomento storico, come il Trattato di Versailles, potrebbe prevedere la stesura di un saggio per lo studente dotato di intelligenza linguistica, o la composizione di una canzone rap per quello dotato invece di talento musicale.

In molte istituzioni agli studenti vengono somministrati dei questionari che permettono così di evidenziare il profilo cognitivo degli allievi. Alcune scuole forniscono agli allievi persino delle “carte di intelligenza” –simili a carte di credito– in cui sono scritte le loro intelligenze.

La popolarità della teoria si riflette anche in molte iniziative di politica scolastica. Il ministro inglese dell’educazione, David Miliband, ha condotto la campagna di promozione di un apprendimemento personalizzato, brandendo la teoria delle intelligenze multiple. Il Commissario delle scuole londinesi, Tim Brighouse, ha sollecitato le scuole a considerare la questione degli stili di apprendimento.

Programmi pensati per l’eccellenza, fanno spesso riferimento alla teoria per identificare gli studenti più dotati. Le scuole professionali, per ovvie ragioni, danno ampio credito alla teoria. Uno dei fattori, poi, che rende il modello particolarmente accetto dalle scuole religiose è il fatto che ripropone il concetto cristiano secondo il quale gli esseri umani possiedono, per volontà divina, talenti unici.

L’idea che gli allievi presentino un largo spettro di abilità e che ciascuno si distingue dai compagni nell’esercizio di una piuttosto che un’altra, è di certo accattivante, tuttavia rimane da chiedersi quanto è fondata.

Pensare che l’intelligenza possa assumere diverse forme e che non sia necessariamente collegata al ragionamento astratto oggetto del QI, ci pare corretto; per quanto non sia inedito. Molti filosofi e psicologi, in accordo con il senso comune, ritengono che l’intelligenza abbia a che fare con la flessibilità di cui uno è capace nel perseguire i propri scopi. Al momento di comprare un’auto, uno si accerta che essa risponda alle sue necessità, anziché scegliere a caso; nel gioco del calcio un attaccante sa variare la sua tattica in funzione della squadra avversaria che gli si presenta; un genitore che scopre che il figlio è vittima di bullismo, soppesa le azioni possibili prima di decidere come comportarsi. Insomma, sono innumerevoli gli obiettivi che uno si può dare, innumerevoli quindi sono le forme in cui l’intelligenze può manifestare

Quello che fa la teoria delle intelligenze è cristallizzare tale varietà in un piccolo numero di categorie, nove o dieci2. Plaudono all’operazione i responsabili della programmazione, giacché il loro lavoro ne risulta facilitato.

Tuttavia è bene guardarsi da categorizzazioni così nette, che paiono semplificare la vita. Ad uno sguardo attento, infatti, i fondamenti della teoria vacillano.

Agli insegnanti e ai responsabili della programmazione manca il tempo per una disamina di questo tipo; piuttosto il largo credito che la teoria riceve è per loro una garanzia di validità. La domanda cruciale che si dovrebbero porre, invece, è: “Ci sono delle basi per sostenere che queste intelligenze esistono veramente?”. Se gli venisse da rispondere: “Perché così sostiene un famoso psicologo di Harvard”, consiglierei di badare bene: illustri psicologi di Harvard si sono sbagliati e la teoria di Gardner è quanto mai equivoca.

Per un’analisi approndondita, rimando al mio articolo “The Myths of Multiple Intelligences, Formazione & Insegnamento”; e prego, quanti siano interessati, a contattarmi all’indirizzo di posta elettronica. Qui ci basti dire che Gardner non riesce nell’impresa di dimostrare le intelligenze; gli argomenti cui egli si rifà sono piuttosto incerti. Egli procede considerando i comportamenti sociali come classificabili in otto-nove tipologie. Il suo punto di partenza non è la psicologia sperimentale ma è una vera e propria teoria sociale.

In un senso più ampio, intende collegare la sfera biologica con quella culturale. Se prendiamo la musica per esempio, è un evidente prodotto culturale a cui si può dar ragione nei termini di un’abilità di cui, al nascere, gli individui sono [potenzialmente] dotati e che quindi si può effettivamente sviluppare seguendo delle tappe che culminerebbero nella creatività musicale dei gradi artisti. In altre parole, si tratta di un processo di sviluppo biologico alla Piaget; la musica è cioè una manifestazione sociale che ha delle radici fisiologiche per cui è possibile presagirne l’esistenza, così come quella di altre prodotti sociali, considerando com’è configurato il cervello.

Di fatto, Gardner definisce le varie intelligenze ritagliando, nell’ambito della cultura, quelle aree del sapere che si prestano a rispondere a questo modello evolutivo. Piaget si era limitato alla matematica e alle scienze; Gardner estende il modello ad altre aree del sapere, in primis le arti. La classificazione delle intelligenze, in parole povere, riflette un suo giudizio di valore circa quelle che sono le più importanti suddivisioni del sapere.

Si tratta di modello però che genera problemi. La teoria, ripetiamo, vuole che le abilità in cui si distinguono gli studenti –lo sport, la matematica, ecc.- rimandino a differenze insite nel cervello. Le loro intelligenze sono quindi come semi neuronali, che prendono a svilupparsi in forme via via più complesse. In sostanza, sulla base suo patrimonio genetico, il bambino che ora sta scarabocchiando con i colori potrà o non potrà essere un domani un Picasso.

Alle radici della teoria c’è lo stesso interesse che molti insegnanti degli anni ’60, orientati ad un insegnamento centrato sul discente, provavano per il concetto di sviluppo mentale. La teoria di Garnder è, insomma, una versione pluralistica dello stesso concetto.

Tuttavia è un modello che manca di rigore. Il concetto di uno sviluppo cognitivo che parte da strutture predefinite, innate, è estremamente problematico e Gardner non produce prove sufficienti per poterlo sostenere. La mente non è come il corpo: non è programmata a svilupparsi, poste alcune condizioni, dallo stato germinale alla maturità. Ciascuno di noi, da piccolo ha bisogno di essere educato a ciò che corretto credere e fare, fino a che non impara a educare e a correggere se stesso.

Ci sono altre incertezze e oscurità nella teoria, non da ultimo il fatto che Gardner si rifaccia ai cosiddetti “sistemi di simboli”, considerando le arti e le altre discipline, quali pilastri che permettono il ponte tra il sociale e il biologico.

Desta ancora maggior preoccupazione il fatto che la teoria eserciti un’influenza nel mondo dell’educazione. A mio parere, l’esistenza delle otto o nove intelligenze non è dimostrata; come si possono giudicare allora le conseguenze pedagogiche tratte e introdotte nell’insegnamento?

Gli studenti sono incoraggiati a pensare di avere, come doti innate, determinate capacità; ma si tratta di un’immagine di sé che può essere falsa, se appunto la teoria non è attendibile.

Certo, se uno è indotto a pensare di avere un’intelligenza corporea o musicale, è facilitato e motivato ad apprendere; però, in agguato, c’è sempre il pericolo di stereotipare gli studenti. Vogliamo veramente che pensino di avere un talento innato per la musica o per intrecciare la rafia o per aiutare gli altri, se non ci sono prove fondate a riguardo?

Molti di noi hanno giustamente accantonato il concetto di intelligenza associato al quoziente di intelligenza, che bolla le persone come capaci o incapaci di pensiero logico. Vogliamo forse un nuovo modo di etichettare le persone che, per quanto multidimensionale rispetto al precedente, è ugualmente limitante?

Pure noi riconosciamo che le persone possano essere intelligenti (cioè capaci di mente flessibile) in molti modi (e penso a tutte le bacchettate che mi sono preso in tempi recenti per aver suggerito che anche Beckham, non meno di Einstein, è una creatura intelligente), e siamo disposti ad applicare questo pensiero, in maniera intelligente, all’insegnamento, avendo cura di considerare gli interessi e gli ambiti in cui i nostri studenti raggiungono dei buoni risultati. Però siamo convinti che non ci sia alcuna ragione perché ci imprigioniamo nella MI Theory, dove appunto ci pare che l’acronimo MI stia per inabilità multiple.

 

1 Si tratta di un articolo inedito di John White, Professore di Filosofia dell’Educazione presso il “Institute of Education” dell’Università di Londra.

La traduzione dall’inglese è a cura di Paolo Torresan.

Una critica più estesa alla teoria si può leggere in White, J., “The Myth of Multiple Intelligences”, Formazione & Insegnamento, III, 1,2,3.

2 In molti ambienti va diffondendosi una versione ridotta della Teoria delle Intelligenze Multiple, conosciuta con le iniziali VAK; gli studenti sono classificati a seconda del canale sensoriale preferito per apprendere: la vista (visual), l’udito (auditory) o il movimento (kinaesthetic).

 

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