Giugno 2012  Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792
Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni
Il profilo del seminarista come apprendente di italiano LS: i risultati di un sondaggio di Paolo Balmas

ABSTRACT

L’intricato rapporto tra lingua italiana e Chiesa cattolica viene presentato, con riferimento a dati e studi di recente pubblicazione, per introdurre la figura del seminarista straniero come protagonista principale nell’ambito dell’apprendimento della lingua italiana relativo a tale binomio. Il profilo dell’apprendente seminarista è definito attraverso i risultati di un sondaggio somministrato in vari contesti di sperimentazione. La definizione dei bisogni dell’apprendente seminarista è accompagnata da un tentativo di individuare quali caratteristiche dovrebbe possedere l’insegnante di italiano come lingua seconda nell’ambito dell’azione didattica verso apprendenti seminaristi. L’articolo si conclude con una proposta di didattica specifica per apprendenti seminaristi.

 

 

1. La lingua italiana e la Chiesa cattolica

In un recente studio sul rapporto tra la lingua italiana e la Chiesa cattolica si legge: «Non è rintracciabile alcun documento recente pubblicato dalla Santa Sede in cui si dichiari e si codifichi in modo esplicito l’ufficialità di una o più lingue nell’ambito della Chiesa cattolica» (Rossi, Wank 2011: 115). Per quanto riguarda la lingua, sembra che la politica adottata nei confronti della Chiesa debba essere ricercata più nei fatti che per iscritto. Intanto è necessario fare una distinzione: la Chiesa cattolica non è lo Stato della Città del Vaticano. Quest’ultimo, oltre l’italiano, possiede più lingue ufficiali e in concreto le utilizza tutte: il latino, che ha la «funzione di lingua veicolare scritta» (Diadori, Ronzitti 2005: 116), per redigere tutti i documenti ufficiali; il francese, nei rapporti di alta diplomazia. Quindi l’italiano, come ha già notato De Mauro, per il Vaticano è «la vera lingua di lavoro, quella che per altre istituzioni diremmo la langue de guerre» (De Mauro 2002: 17), ovvero la lingua dei documenti funzionali e la più diffusa.

Il Vaticano offre la possibilità ai chierici di tutto il mondo di apprendere la lingua italiana sul territorio in cui è parlata. Non si tenta in nessun modo di fare dell’italiano la nuova lingua veicolare della Chiesa. L’italiano, almeno nel prossimo futuro, non sostituirà il latino: l’atteggiamento della Santa Sede nei confronti della lingua è il risultato di una veloce e naturale evoluzione di quello che inizialmente sembrava essere un consiglio offerto dal Concilio Vaticano II, ovvero la lingua locale poteva sostituire il latino nella liturgia. Oggi quella possibilità è divenuta l’unica realtà. La lingua della Chiesa sotto ogni aspetto, quindi, è la lingua locale. L’italiano assume una particolare importanza per i chierici di tutto il mondo poiché nella maggior parte dei casi, l’Italia è l’ambiente naturale in cui sono sorte le istituzioni cattoliche, si pensi agli antichi ordini medievali ancora esistenti, fino ad arrivare a quelle di recentissima ispirazione legate a santi italiani. I chierici non approdano in Italia solo per studiare la lingua italiana, ma anche per progredire nel cammino spirituale intrapreso, vivendo a contatto con la cultura che fu la culla di quel “carisma” che li ha ispirati. Tale situazione giustifica lo sviluppo naturale di Roma come centro di attrazione per la popolazione cattolica di tutto il mondo e in particolare per i chierici. La città, infatti, presenta la massima densità di sedi istituzionali cattoliche: si pensi alle Case Generalizie, ai seminari, ai Collegi delle Nazioni, ai conventi che ogni anno ospitano chierici e suore provenienti da ogni parte del mondo. Ovviamente, il primato della densità spetta all’Italia a livello mondiale e tutti i piccoli centri sparsi per il territorio nazionale ospitano ogni anno decine di migliaia di chierici e suore, a lungo o breve periodo di permanenza: molti di questi, ma sembra impossibile definire esattamente quanti, studieranno la lingua italiana. In questo senso la Chiesa cattolica, nell’arco degli ultimi cinquanta anni, è stata un importante, sebbene poco notato, strumento di diffusione della lingua italiana nel mondo. A tale proposito, si ricordi la nomina che il Ministero degli Affari Esteri ha dedicato nel 2003 al Papa – allora al soglio vi era Giovanni Paolo II – “Ambasciatore della lingua italiana nel mondo”. Anche gli organi di comunicazione di massa, il sito internet, la radio, la tv satellitare, le riviste e l’unico quotidiano della Città del Vaticano, per quanto godano di versioni plurilingue, presentano una percentuale decisamente superiore di informazioni divulgate in lingua italiana (Rossi, Wank 2011: 124-125). Malgrado l’evidenza, non possiamo, però, affermare che la Chiesa cattolica, come istituzione sopranazionale, prediliga la lingua italiana: basta uscire dal nostro Paese per notare come le lingue locali vengano naturalmente utilizzate tanto nella liturgia quanto nelle comunicazioni quotidiane. Sembra che la lingua per la Chiesa abbia una “funzione accessoria” (Diadori, Ronzitti 2005: 118) e che la predisposizione nei confronti di una o dell’altra sia dettata da semplici fattori pratici, dalla sua diffusione sul territorio interessato o dalla necessità di penetrare in modo capillare in un nuovo ambiente. Ma l’atteggiamento assunto dal Vaticano non permette di identificare alcuna politica precisa in merito a tali strategie linguistiche, tanto meno nei confronti della lingua italiana e della sua diffusione, come sono difficili da interpretare i criteri secondo cui avvengono le scelte relative a chi la debba imparare. Solo una parte dei chierici, infatti, viene in Italia per intraprendere lo studio della lingua.

La presente ricerca è stata pensata con lo scopo di rinnovare l’interesse in un fenomeno che dal punto di vista dell’insegnamento dell’italiano come lingua seconda, rappresenta un ambito da approfondire: non solo perché gli apprendenti chierici di italiano L2 presentano dei bisogni diversi da ogni altro profilo, ma anche perché la richiesta sempre maggiore di ore di insegnamento da parte di tali apprendenti è sul punto di determinare la necessità di maggiori attenzioni. Malgrado la difficoltà di reperire statistiche certe sul numero di apprendenti chierici che ogni anno passano in Italia per motivi di studio, si è individuato nel seminarista il maggior interesse nell’apprendimento dell’italiano L2, sia per la quantità di studenti che per la motivazione che li porta ad uno studio più approfondito della lingua.

 

 

2. Un sondaggio per definire il profilo dell’apprendente seminarista

Le difficoltà che si riscontrano nel tentativo di individuare i tratti distintivi dell’apprendente seminarista di italiano L2, riguardano principalmente due punti: il primo è relativo alla ricerca di quelle peculiarità che devono accomunare tutti i seminaristi, grazie alle quali potranno non essere assimilati al profilo universitario con cui hanno molto in comune; il secondo, invece, riguarda l’individuazione del ruolo sociale che ricoprono linguisticamente: che tipo di “attori” sono? Quali sono i “domini” in cui agiscono? Per rispondere a queste domande è stato ideato un questionario somministrato a circa quaranta seminaristi di cui la maggior parte, attualmente, sta affrontando gli studi per ottenere la Laurea in Teologia presso una facoltà pontificia in Italia e che appartengono a diverse istituzioni: P.I.M.E., Pontificio Istituto per le Missioni Estere; Redemptoris Mater; Ordine dei Servi di Maria.

Solo dodici seminaristi, su trentaquattro questionari compilati, sono stati apprendenti in un corso intensivo di italiano L2 nel principale contesto di sperimentazione, tra ottobre 2010 e giugno 2011. Si tratta di corsi intensivi in classi miste secondo il profilo e suddivise in base alla scala globale dei livelli di competenza suggerita dal Quadro Comune Europeo di Riferimento per le lingue (Consiglio d’Europa, 2001, trad. it. 2002), presso Language in Italy che detiene il marchio Istituto Dante Alighieri, prima sede di Roma. L’Istituto è attivo da più di dieci anni e sin dai primi passi si è occupato dell’insegnamento ad apprendenti della sfera cattolica provenienti da tutto il mondo. La collocazione geografica dell’Istituto ha contribuito decisamente al consolidamento del rapporto con certi ambienti: la sede si trova su via Aurelia, sotto le mura vaticane, in una zona dove trovano domicilio numerose residenze ecclesiastiche.

Le informazioni riportate da coloro che hanno seguito il corso sono state preziose. Tali informazioni provengono anche da interviste informali e scambi comunicativi avvenuti in classe e hanno aiutato molto a definire meglio le motivazioni e i bisogni. I rimanenti seminaristi hanno compilato il questionario senza partecipare alla didattica contemporaneamente sperimentata. Alcuni di loro seguivano un corso all’interno del seminario, altri presso facoltà pontificie. L’incredibile varietà di profili individuali – nazionalità, lingua madre, formazione, istituzione di appartenenza, eccetera – ha reso il compito ancor più interessante: la varietà sembrava eccessivamente complessa, invece si è rivelata un perfetto contributo all’individuazione dei tratti comuni.

Il primo dato che aiuta ad individuare un tratto fondamentale del profilo dell’apprendente seminarista riguarda la classe d’età. Dei trentaquattro seminaristi, venticinque hanno un’età compresa tra i ventidue e i trenta anni. È assolutamente naturale associare, non solo per questo motivo, il seminarista al profilo dell’apprendente universitario. Ma il seminarista è uno studente che compie un percorso formativo diverso da ogni altro. Lo studio presso l’università è parallelo al cammino spirituale che distingue la sua vita. Sono due condizioni inscindibili l’una dall’altra, soprattutto se si vuole applicare quel principio di centralità dell’apprendente così importante per raggiungere gli obiettivi d’insegnamento.

Dal punto di vista della lingua, sono stati rilevati dati importanti. I seminaristi provengono da quattro continenti – Asia, Africa, Europa e Sud America – parlano dodici madrilingue differenti e venticinque di loro, il 74% del totale, hanno studiato almeno un’altra lingua straniera; ventisei hanno studiato il latino, dodici anche il greco antico; solo nove, 26% del totale, hanno frequentato un corso base di lingua italiana prima di venire in Italia.

La motivazione principale allo studio della lingua italiana risulta, con il 55% delle preferenze, il corso di Teologia; è interessante notare che alla stessa domanda il 18% dei seminaristi ha risposto con un semplice “perché fa parte del percorso di studio”, una risposta che lascia intravedere una certa rassegnazione, che probabilmente è dovuta all’assenza di una libera scelta del percorso formativo; il 9% ha barrato entrambe le risposte. Per quanto riguarda l’uso della lingua italiana, diciotto seminaristi hanno individuato la maggior difficoltà nella produzione scritta; ventiquattro individuano la lingua italiana come quella che usano di più in seminario; ventidue la parlano sempre – a scuola e in seminario – e tutti partecipano a messe celebrate in italiano. Alcuni seminaristi hanno la possibilità di partecipare, di domenica che è il loro giorno libero, a messe celebrate nella loro lingua madre, raggiungendo la comunità etnica, se presente a Roma.

Alcune domande del sondaggio cercano di definire le attività religiose e la comprensione del relativo linguaggio e del lessico specifico incontrato nei momenti liturgici. Le risposte sono caratterizzate da una forte omogeneità. Circa il 75% dei seminaristi dichiara di conoscere il lessico relativo agli strumenti del rito cattolico, degli abiti liturgici, di conoscere i riti di introduzione e conclusione in lingua italiana, di capire le parole della Liturgia Eucaristica e della Liturgia della Parola, di eseguire la scrutatio in italiano. Quasi la totalità delle risposte evidenzia la pratica quotidiana della preghiera e della lettura della Bibbia in lingua italiana. Tutti cantano i Salmi e gli Inni in italiano durante la messa.

 

figg. 1 e 2 – Conoscenza, comprensione e uso dell’italiano e del lessico specifico in ambito religioso

 

Il corso di Teologia è affrontato in lingua italiana da trenta seminaristi su trentaquattro; due dei restanti quattro torneranno in patria dove studieranno in lingua inglese; solamente a due è concesso di studiare in lingua spagnola in Italia. Di tutti i seminaristi, solo nove hanno studiato in lingua italiana durante il corso di laurea in Filosofia – propedeutico per Teologia – e hanno già conseguito una certificazione di livello B2 o C1. Il questionario si conclude puntando l’accento sul futuro dei seminaristi per tentare di capire quanti di loro rimarranno in Italia e se useranno l’italiano dopo l’ordinazione. Circa il 50% delle risposte lascia intravedere un’incertezza. Ciò fa riflettere sul fatto che spesso il seminarista non sa effettivamente cosa lo aspetti. Per quanto riguarda la lingua italiana, si traduce in una mancanza di prospettiva a lungo termine che può pregiudicare l’apprendimento, funzionale al conseguimento più o meno a breve termine della Laurea in Teologia.

In sintesi, è possibile individuare alcuni tratti di fondamentale importanza: l’età, compresa fra i ventidue e i trenta anni; la motivazione intrinseca, rivolta al conseguimento della Laurea in Teologia; la generale assenza dello studio dell’italiano LS; la diffusa conoscenza della lingua latina; un elevato numero di casi di plurilinguismo; la mancanza di una scelta esplicita nell’affrontare un lungo periodo di permanenza in Italia e lo studio della lingua italiana visto che a prendere tale decisione è il rettore del seminario di provenienza; l’assiduità con cui viene utilizzata la lingua italiana nella liturgia e negli altri momenti di preghiera; la conoscenza del lessico specifico della liturgia. A questi tratti che emergono dal sondaggio, possono esserne associati altri che sono stati rilevati durante l’azione didattica: una tendenza al voler imparare in un breve periodo di tempo; un naturale interesse nel comprendere i tratti distintivi della società italiana e delle problematiche ad essa relative; uno stile cognitivo legato a metodi classici di insegnamento e una conseguente ricerca di nuove metodologie per imparare più velocemente ad “usare” la lingua – spesso questo contrasto viene avvertito in classe di fronte a percorsi fortemente induttivi cui la maggior parte degli apprendenti non sono abituati; una decisa motivazione ad acquisire le competenze necessarie per “portare la Parola”, in particolare durante il diaconato, che non si limita ad un semplice commento ed esposizione del significato dei testi biblici, ma ad un contatto comunicativo profondo in lingua italiana partendo dalle Letture; un filtro affettivo inizialmente molto alto.

 

 

3. I bisogni dell’apprendente seminarista

Per procedere con questa analisi, prima di tutto, è bene chiedersi quali siano gli ambiti in cui il seminarista usa la lingua italiana e a quale italiano sia maggiormente esposto.

Sono stati individuati alcuni momenti della vita del seminarista, nella quotidianità e durante la lunga formazione. Il corso presso la scuola di lingue prima, poi presso l’università, la vita in seminario, il ridotto tempo libero in cui si può visitare una città, la parrocchia dove si svolge il diaconato, sono esempi di luoghi e di relative situazioni in cui il seminarista riceve e produce lingua scritta e parlata. Possono essere individuate differenti varietà linguistiche con cui viene a contatto: la varietà più vicina all’italiano standard durante le lezioni di lingua, dove l’insegnante – insieme ai confratelli italiani se presenti in seminario – rappresenta uno dei rari modelli di lingua; il gergo caratterizzato da modi di dire, espressioni e atteggiamenti sviluppatisi nell’ambiente esclusivo del seminario in cui si vive; l’italiano “arcaicizzante” dei libri dell’Antico Testamento che «conservano una morfosintassi complessa, di origine greco-latina, assai difficile da comprendere anche per un madrelingua italiano di cultura medio-bassa» (Balboni, Torresan 2003: 5); l’italiano comune dei fedeli che frequentano la parrocchia; la varietà diatopica dell’italiano, in base alla locazione del seminario; le microlingua, in senso lato, delle materie universitarie; infine, difficile da definire data la sua vastità, la microlingua della Chiesa cattolica. I bisogni oggettivi si possono così individuare, tenendo presente gli italiani scritti e parlati citati, attraverso i due obiettivi paralleli che il seminarista deve raggiungere: la Laurea in Teologia e il diaconato.

Per quanto riguarda il corso universitario l’apprendente ha come obiettivo il raggiungimento di un livello pari al livello Progresso – B2 – o superiore, come definito dal QCER. Quindi dovrà essere in grado di comprendere un testo espositivo, sia scritto che orale, caratterizzato da lessico specifico; di produrre un testo espositivo, sia scritto che orale, sapendo usare il relativo linguaggio specialistico; di esprimere la propria opinione sugli argomenti di studio; di prendere appunti; di formulare domande; di utilizzare un dizionario. Le competenze di cui avranno bisogno per la prima volta durante l’esperienza del diaconato, invece, riguardano tipologie testuali diverse. È vero che tale esperienza procede dalla Liturgia della Parola e che il seminarista ne conosce bene il contenuto e sarà tranquillamente in grado di comprenderlo in lingua italiana poiché il diaconato coincide di solito con l’ultimo anno di università, ma il testo orale che dovrà produrre sarà un testo nuovo. Non si tratta del testo espositivo dell’esame universitario, ma un testo che dovrà avere un effetto su un pubblico con particolari aspettative. Il seminarista vuole essere in grado di “toccare” le persone con le sue parole e di far loro cambiare punto di vista riguardo ad un determinato tema. Partendo dal presupposto che questa “super competenza” esula dagli obiettivi di insegnamento in una classe di italiano L2, è possibile chiedersi quale sia l’aspettativa del seminarista dal punto di vista linguistico per sentirsi più vicino ad affrontare il compito più importante della sua vita. Si è individuata una chiara tendenza dell’apprendente seminarista al voler scoprire quali siano le problematiche, i desideri, le idee, le passioni, le fobie, l’ironia e il sarcasmo; in generale si potrebbe dire che voglia arrivare alla comprensione dell’atteggiamento mentale dell’individuo italiano nei confronti della famiglia, del lavoro, della politica, del matrimonio, della ricchezza, del rapporto uomo-donna, degli animali domestici, del cibo, eccetera.

 

fig. 3 – Le difficoltà dell’apprendente seminarista in relazione alle abilità fondamentali

 

 

4. Le caratteristiche dell’insegnante di italiano L2 ad apprendenti seminaristi

In generale, l’insegnante in una classe di apprendenti seminaristi deve avere la professionalità e le attenzioni di sempre, né più né meno. Per raggiungere l’obiettivo di insegnamento, dare gli strumenti per “imparare ad imparare”, è necessario che l’insegnante tenga ben presenti i tratti socioculturali dell’apprendente seminarista, la sua scelta di vita, le particolari caratteristiche del suo progetto formativo, i suoi bisogni oggettivi e anche soggettivi. In condizioni ideali, ovvero di una classe dedicata al profilo specifico, la “relazione paritaria di collaborazione” che comporta una condivisione dei contenuti, auspicata per l’insegnante di microlingua (Balboni 2000), sembra adattarsi bene all’insegnante a seminaristi. Ciò vuol dire che la gestione della classe dovrebbe essere di tipo collaborativo e l’insegnante aperto ai contributi del mondo religioso – cattolico, in questo caso. Un’attenzione particolare, però deve essere riservata alla scelta del materiale didattico: è bene evitare argomenti poco relazionabili alla vita seminariale perché si rischierebbe di alzare il filtro affettivo. Ad esempio, potrebbe essere compromettente un’attività di ruolo che richieda l’immedesimazione dell’apprendente in un personaggio che agisce in un contesto in cui viene consigliato o richiesto esplicitamente, nella vita reale dell’apprendente stesso, di non entrare.

La mancanza di un’analisi approfondita del profilo seminarista in ambito glottodidattico si ripercuote direttamente nella mancanza di materiale didattico esaustivo. I manuali che si possono reperire attualmente in commercio, sono pochi: Balboni P.E., Torresan P. (cur.), L'italiano di Dio, Perugia, Guerra, 2003; Chiuchiù A., Italiano in Chiesa, Perugia, Guerra, 2007; Furnò L., Parlo l'italiano - livello intermedio, Roma, Città Nuova, 1999. Prima di tutto è bene notare che i suddetti manuali sono stati progettati per un pubblico di “religiosi”. È lecito credere che la progettazione non sia stata eseguita tenendo conto dei bisogni specifici dell’apprendente seminarista, ma con l’unico riferimento alla fonte scritta biblica o alle preghiere, con cui hanno un ovvio e naturale rapporto tutti i chierici cattolici. Allora, esistono materiali didattici per seminaristi? La tentazione è quella di fornire una risposta negativa. Tuttavia, è di particolare interesse il testo L’italiano di Dio, di Paolo E. Balboni e Paolo Torresan. Non presenta atti linguistici di alcun genere, unicamente testi religiosi didattizzati. L’obiettivo del manuale è quello di rafforzare gli aspetti linguistici tipici del testo biblico che si stanno perdendo nell’italiano comune: uso del congiuntivo, del condizionale, del passato remoto, dei connettori. Il testo biblico didattizzato per seminaristi si presta a questo obiettivo, infatti: «i religiosi conoscono già molto bene il contenuto informativo del testo e quindi concentrano maggiormente la loro attenzione, da un lato nell’ipotizzare regole di funzionamento del sistema linguistico e nella loro verifica, dall’altro nel trovare delle strategie personali di comunicazione e di facilitazione del testo spendibili anche in altri contesti di comunicazione» (Masciello, 2005: 94).

 

 

5. per una didattica dell’italiano L2 ad apprendenti seminaristi

Dal punto di vista glottodidattico la lingua obiettivo dell’apprendente seminarista, quindi, è costituita da più varietà: l’italiano comune, l’italiano regionale – in base al luogo dove avviene il corso –, il linguaggio settoriale nell’ambito del corso di teologia, la “lingua della Chiesa”. Così i bisogni non si limitano allo sviluppo delle competenze in ambito universitario, che prevede elevate abilità ricettive e produttive come la stesura di tesine o l’esposizione orale. Esistono ulteriori bisogni linguistici dell’apprendente seminarista: nella vita quotidiana sono definiti dai rapporti con i confratelli e da quelli più formali con i superiori; nella missione, quando “diffonde la Parola” durante il diaconato, da una competenza linguistica molto elevata per fare le omelie. Infine una competenza sociopragmatica profonda è indispensabile per comprendere il profilo psicologico degli italiani. Vista la particolare necessità di comunicare con i fedeli durante il rito della messa, momento in cui si affrontano argomenti relativi ai problemi di vita dei fedeli stessi e dell’intera società, sembra importante suggerire una “attualizzazione” dei temi da proporre attraverso i testi somministrati durante l’azione didattica. Per “attualizzazione” si intende, da un lato una scelta in favore dei temi – sociali, politici, scientifici – di ampia diffusione mediatica nella contingenza del momento in cui avviene il corso di lingua, dall’altro il trattamento di testi aggiornati e capaci di descrivere la società dal suo interno – quotidiani, periodici, spot pubblicitari, eccetera. È necessario che l’insegnante sia consapevole di ricoprire un ruolo di mediatore tra gli apprendenti e il loro obiettivo, ovvero la lingua italiana. Infatti questa “attualizzazione” si mette in pratica attraverso la consapevolezza di “mediare” la lingua italiana “qui e adesso”, in un ambiente vivo che produce testi di ogni genere che definiscono l’ambiente stesso e chi lo vive. Ciò rende necessaria una particolare flessibilità da parte dell’insegnante che deve essere dinamico e capace di superare i limiti che potrebbe comportare l’utilizzo di un unico manuale didattico, anche se accuratamente scelto. L’insegnante si troverà a dover organizzare l’azione didattica attraverso la quotidiana didattizzazione del testo “attuale” che avrà come obiettivo non solo la competenza linguistico-comunicativa, ma anche la competenza sociopragmatica. L’uso di attività relative a testi biblici didattizzati deve entrare nell’attività didattica soprattutto con lo scopo di sviluppare e rafforzare la competenza linguistica grammaticale e, come si è visto, vi si presta perfettamente. È necessario, però, operare una distinzione relativa al livello di competenza dell’apprendente: l’obiettivo integrato di lingua e “attualità” può essere affrontato da coloro che posseggono già un certo livello di competenza. Non sarebbe possibile affrontare una didattica di questo genere con apprendenti, ad esempio, di un livello di contatto. Quindi, per coloro che posseggono un livello di competenza ancora basso, sarebbe opportuno seguire un percorso diverso, sempre facendo attenzione a non servirsi di unità didattiche o singole attività che possano far alzare il filtro affettivo, particolarmente sensibile nelle fasi iniziali del corso di lingua e della nuova vita in Italia.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Balboni P.E. 1998, La didattica delle microlingue scientifico-professionali, UTET, Torino.

Balboni P.E., Torresan P. (cur.), 2003, L'italiano di Dio, Guerra, Perugia.

Chiuchiù A., 2007, Italiano in Chiesa, Guerra, Perugia. Consiglio d’Europa, 2001, Common European framework of reference for languages. Learning, teaching, assessment, Cambridge University Press, Cambridge. Ed. it. 2002, Quadro comune europeo di riferimento per le lingue. Apprendimento insegnamento valutazione, trad. di D. Bertocchi e F. Quartapelle, La Nuova Italia, Firenze.

Diadori P., Ronzitti M., 2005, “Chiesa cattolica e italiano L2: quale politica linguistica?”, in Guardiano C., Calaresu E., Robustelli C., Carli A. (cur.), Lingue Istituzioni Territori. Riflessioni teoriche, proposte metodologiche ed esperienze di politica Linguistica, Atti del XXXVIII Convegno Internazionale di Studi della Società di Linguistica Italiana (Modena, 23-25 settembre 2004), Bulzoni, Roma, 95-127

Fochi F., 1997, E con il tuo spirito. Chiesa e lingua italiana a più di trent’anni dalla riforma liturgica, Neri Pozza, Vicenza.

Furnò L., 1999, Parlo l'italiano - livello intermedio, Città Nuova, Roma.

Masciello E., 2005, “L’italiano a religiosi”, in E. Jafrancesco (cur.), L’acquisizione dell’italiano L2 da parte di immigrati adulti, Atti del XIII Convegno nazionale ILSA (Insegnanti Lingua Seconda Associati), Edilingua, Roma, 89-111

Rossi L., Wank R., 2011, “La diffusione dell’italiano nel mondo attraverso la religione e la Chiesa cattolica: ricerche e nuove prospettive”, in Arcangeli M. (cur.), L' italiano nella Chiesa tra passato e presente, Allemandi, Torino 113-171

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