Aprile 2004  Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792
Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni
EMPATIA IN CLASSE di Rebecca Montagnino

Empatia significa capacità di immedesimarsi nell'altro.
Carl Rogers, che per primo introdusse la variabile empatia come qualità fondamentale di ogni relazione d'aiuto, definiva l'insegnante come un facilitatore d'apprendimento.
Le tre caratteristiche che un facilitatore dovrebbe possedere sono:
a) l'autenticità;
b) la sollecitudine non possessiva, ovvero la fiducia e il rispetto;
c) la capacità di ascolto (l'empatia appunto).
In termini operativi egli dovrebbe:
a) predisporre un ambiente-classe caratterizzato da un senso di accoglienza e di accettazione;
b) aiutare i discenti a scegliere gli scopi personali e a negoziare quelli di gruppo;
c) fornire il maggior numero possibile di strumenti e di stimoli per l'apprendimento;
d) accettare e valorizzare ogni aspetto emotivo ed intellettuale del gruppo;
e) entrare a far parte del gruppo come risorsa, ovvero condividerne idee e sentimenti.

A scorrere questa lista, si potrebbe avere la sensazione di una visione idealistica della classe; un'utenza numerosa, e più in generale rigidi programmi scolastici che lasciano in genere pochissimo spazio all'iniziativa personale, paiono rendere improbabile l'attuazione di questi principi. Del resto, tenendo conto che il ruolo tradizionale dell'insegnante ne esce completamente messo in discussione - per il fatto che non ha più regole e comportamenti da seguire, ma deve piuttosto essere pronto a ridefinire continuamente gli obiettivi, attraverso approfondimenti e discussioni -, l'idealismo pare confondersi con l'utopia.
Eppure l'empatia è alla base di ogni comunicazione efficace, è un ascolto attivo privo di giudizio: la persona che parla ha la sensazione di essere realmente compresa, considerata, accettata.
Certamente non empatico è l'atteggiamento mentale che traspare in alcune frasi che ricorrono con particolare e fastidiosa evidenza in classe, del tipo: "potresti fare di più". Un giudizio del genere, attraverso il quale si stabilisce che uno studente è pigro, provoca un determinismo: il seguito immediato è allora un atteggiamento che conferma l'ipotesi (la profezia che si autodetermina secondo la teoria psicanalitica: un avvenimento che si "autoannuncia" ha maggiori possibilità di presentarsi). Per evitare un simile impasse occorrerebbe chiedersi invece perché quello studente potrebbe fare di più e che cosa si può fare per aiutarlo. Insomma, bollare un discente con aggettivi del tipo "pigro", "disattento", etc., piuttosto che relativizzare quei vissuti all'hic et nunc, è in realtà uno strumento di potere da parte degli educatori. Asserzioni come "sei insopportabile" non chiariscono che non è la persona ad esserlo, quanto la sua condotta; se si dicesse "il tuo comportamento mi infastidisce", l'affermazione avrebbe un altro impatto psicologico, e sicuramente altre conseguenze sul piano educativo.
La percezione che ciascuno ha di se stesso, ricordiamolo, dipende da come si sente giudicato dagli altri, tanto più quanto il giudizio è formulato da chi è chiamato a valutarne le capacità. Scrive Umberto Galimberti: "Per la formazione di un adeguato concetto di sé occorre quella considerazione positiva che siamo soliti chiamare autostima e quell'accoglimento del negativo che è l'autoaccettazione indispensabile per far fronte agli eventi avversi della vita. L'una e l'altra cosa sono tenute dalla scuola in minimo conto" (Paesaggi dell'anima, Mondadori, Milano1996).
Sicuramente lavorare in un clima empatico - in cui si sappia ascoltare e comprendere cosa accade emotivamente negli studenti, in cui si accettino le diverse personalità ed opinioni, per quanto siano differenti dalla proprie, in cui si crei un clima di apertura e di discussione, in cui si assuma più un ruolo reattivo che proattivo - non risolve tutti i problemi della scuola, ma può facilitare la crescita del sé, che è il primo compito di ogni studente, come di ogni persona. 

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