Aprile 2009  Supplemento alla rivista EL.LE - ISSN: 2280-6792
Direttore Responsabile: Paolo E. Balboni
Circa l’uso dei testi autentici. A colloquio con Christopher Humphris di Paolo Torresan, Manuela Derosas

ABSTRACT

Christopher Humphris è il responsabile della formazione della scuola di lingua Dilit IH (Roma).
Nei testi didattici prodotti (tra cui il famoso manuale di italiano LS Volare) e nelle riflessioni raccolte nel Bollettino Dilit, ha realizzato una sorta di metodologia, che per quanto si richiami all’approccio comunicativo, rappresenta per molti aspetti qualcosa di nuovo e originale.
Tra le parole chiave del metodo dilitiano: lo studente-ricercatore (di significati e di forme); la centralità del testo (autentico).
In altre parole, se altrove, per esempio nell’esperienza della
Pilgrims (punta di diamante della metodologia dell’inglese LS) o del SEAL o della DGSL, si studiano modalità che fanno appello alla sfera affettiva, nell’ambito della ricerca dilitiana si è fatta strada una pista di ricerca che promuove strategie cognitive complesse: si lavora più sul lato dell’intelligenza, per capirci.
La nostra intervista si è concentrata attorno a uno dei punti cardine della filosofia dilitiana: il testo autentico; è su questo terreno che lo studente, come un topografo, segna i confini tra le parole, i significati e le forme.

 

 

 

L’INTERVISTA

 

Prof. Humphris, ci chiarisce la genesi e il significato dell’aggettivo ‘autentico’ riferito al testo?

 

Si cominciò a parlare di ‘materiale autentico’ all’inizio degli anni Settanta; a quel che ne so io, nessuno ne aveva mai parlato prima: non era nell’ordine del giorno di nessun dibattito sull’apprendimento linguistico.

All’epoca, prima di questo tipo di proposta, l’insegnamento era considerato input=output. Il docente insegnava determinate cose che dovevano essere imparate; era un’idea basata su teorie di tipo comportamentista. Apprendere una lingua significava acquisire delle abitudini; bisognava, perciò, risparmiare tempo e portare in classe soltanto ciò che gli studenti dovevano ripetere e assimilare.

Agli inizi degli anni Settanta si fecero strada altri concetti e l’idea comportamentista perse di credibilità. Si parlò dello sviluppo dell’interlingua; di un programma interno allo studente; si dimostrò che l’output non è uguale all’input -l’insegnamento non causa l’apprendimento, dal momento che l’apprendimento è un atto autonomo, gestito da chi impara-, si parlò di apprendimento involontario, non cosciente.

Si cominciò, in una parola, a ripensare l’insegnamento.

Del resto, già lo studio dell’acquisizione della prima lingua, un decennio prima, aveva avvisato che le lingue si imparano immersi in un contesto autentico.

Ora, in parallelo alle questioni sollevate sull’apprendimento, ci si interrogò sulla natura della lingua. Per i comportamentisti la lingua era costituita essenzialmente da una serie di strutture sintattiche e dal lessico; di conseguenza, imparare una lingua, equivaleva a ripetere strutture sintattiche e memorizzare vocaboli.

Tuttavia negli anni Settanta questa idea cominciò a incrinarsi. Nelle sue Lessons of Spoken English, Brown mise in rilievo che molti stranieri che frequentavano le Università anglosassoni, pur essendo in possesso di certificazioni che attestavano lo studio della lingua, non capivano affatto l’inglese. Chiedendosi, dunque, che cosa fosse la lingua vera, Brown prese in considerazione aspetti della lingua che, fino ad allora, erano stati trascurati.

Negli stessi anni, Hymes affermò che la competenza linguistica non si riduce a quello che diceva Chomsky –la capacità di produrre frasi corrette–; essa coincide piuttosto con la capacità di capire e produrre testi (e un testo non è dato dalla somma di singole frasi). Stando a queste premesse, la sfida per i docenti di lingua cambiò: in classe si sarebbero dovuti portare testi orali e scritti.

Ora, alla domanda ‘che cos’è che caratterizza un testo?’, negli ultimi quarant’anni, si sono date molte risposte; sono state fatte molte scoperte, e tutt’oggi ci si continua a confrontare con nuovi dati: la ricerca è aperta!

Personalmente, uso di meno il termine ‘autentico’; parlo semplicemente di ‘testo’, e mi riferisco a un dato così come l’ho trovato; non sono in grado, e nessun ricercatore lo è, di elencare le caratteristiche di un testo autentico.

Vorrei però mettere in guardia dall’operazione in cui ci si è lanciati negli ultimi anni: la creazione dei testi semplificati. Io dico: facciamolo con umiltà, perché non sappiamo se stiamo infrangendo le regole: non abbiamo scoperto tutte le regole che appartengono a un testo.

A volte sento insegnanti che dicono: Produco testi semplificati per immigrati, seguendo un elenco di fattori che devo prendere in considerazione per scrivere un testo. Io replico: Attenzione: se è vero che la mente impara a livello involontario, allora dobbiamo stare attenti alla qualità della lingua che arriva alla mente dello studente, attenti cioè a che non ci siano dati sbagliati.

Quando, durante la stagione comportamentista, lo studente andava nel laboratorio linguistico e ripeteva frasette del tipo: Does Richard dance?; Do Mary and Peter dance?, la sua mente non si illudeva di lavorare con la lingua vera; sapeva di compiere azioni assurde che potevano essere di una qualche utilità; in altre parole, sono convinto che non ci fosse affatto l’illusione che la lingua inglese vera fosse fatta di frasette tutte uguali.

Oggi come oggi, non lo so se la mente è in grado, una volta che gli viene dato un testo da leggere in LS, di cogliere se è autentico o meno.

Preferisco ribadire: se prendiamo sul serio che la mente può acquisire dati fuori dal controllo della coscienza, dovremmo cercare di garantire che i dati siano il più attendibili possibile. Qualora riuscissi a coinvolgere lo studente in classe con testi che ho trovato nella realtà –insegno italiano e porto in classe testi che italiani riconoscono come veri testi–, ho la garanzia che qualunque regola che la mente vuole/può acquisire sia al 100% affidabile.

Detto questo, io stesso riconosco che il manuale Volare presenta registrazioni semi-autentiche (per il primo livello del manuale e per parte del secondo). Come autori, abbiamo chiesto agli attori di fingere una conversazione spontanea; non c’era un copione, un canovaccio; per cui si suppone sia stato infranto un numero minore di regole, anche se la regola n. 1 non è stata comunque rispettata: la spontanea voglia di parlare. In registrazioni successive ai primi livelli gli attori chiacchierano, invece, spontaneamente su cose che a loro interessano e si riduce, quindi, la possibilità di avere aspetti che non sono esattamente tali e quali a quelli che si trovano in una interazione orale naturale.

 

Eppure, per il senso comune un testo semplificato facilita la vita allo studente

 

Non sono contrario a priori al fatto che uno scriva un testo semplice per gli immigrati, però mi interessa molto l’atteggiamento della persona: se sa o meno che può infrangere delle regole, che può indurre la mente di chi legge o ascolta a dare per buona una cosa che poi, in un secondo momento, dovrà disimparare.

Non è che il fatto in sé sia molto grave: abbiamo tutti imparato delle cose a scuola che poi, in un secondo momento, abbiamo dovuto disimparare; la questione è che vorrei che si riducessero i danni e, soprattutto, lo spreco di tempo.

 

Ci può approfondire questo aspetto della complessità delle regole?

 

Oggi come oggi si parla di sintassi, semantica e pragmatica; domani se ne aggiungeranno altre, di caratteristiche, oppure si ridefiniranno le stesse. Trovandosi di fronte a testi non autentici, la mente può dare per scontate delle regole che poi è costretta a ridefinire.

Prendiamo l’uso del silenzio. Brazil paragonava una conversazione a una partita di scacchi: dopo ogni mossa, la domanda che ci si pone è: Che cosa è appropriato fare in questo momento?; si ragionerebbe cioè in termini di regole, di norme, di convenzioni, gran parte delle quali sono implicite, e quindi processate a livello involontario.

Può essere che, in una certa cultura, in alcune situazioni sia normale produrre del silenzio, mentre in un’altra sarebbe assolutamente sgarbato, creerebbe un attrito con l’interlocutore.

Quando si cominciano a creare testi ad hoc, bisogna capire quanto è vasta la conoscenza della cultura e della lingua da parte di chi produce i testi: hanno realmente studiato il ruolo del silenzio? Hanno piena coscienza di come è regolata la frequenza delle sovrapposizioni? Tomatis ci dice che per imparare un’altra lingua bisogna abituarsi a un’altra serie di frequenze; ebbene, quanti autori di conversazioni semplificate pensano a questo? Che ne sanno del valore della ripetizione e della ridondanza? Rispettano le collocazioni?

Alcune persone che hanno imparato la lingua senza esser state esposte a testi autentici hanno esiti imbarazzanti nella comunicazione, rispetto invece a chi è stato immerso nella lingua vera. Perché si continua a dire che per imparare una lingua la miglior cosa è andare nel paese in cui la si parla? Io penso che una delle questioni fondamentali sia questa: spesso i dati linguistici di chi impara una lingua nel proprio paese d’origine non sono affidabili.

Se prendiamo delle registrazioni, si nota come spesso il pensiero di un interlocutore arriva 100% al destinatario; non c’è negoziazione. Eppure si sa che la comunicazione naturale è sempre caratterizzata da una certa negoziazione: c’è sempre un grado di ambiguità che va chiarito, precisato, espresso, come può avvenire in questa intervista.

 

Eppure, ci viene da pensare che per lingue molto distanti o per i livelli più bassi sia opportuno accompagnare gli studenti al testo autentico, presentandolo ad un certo momento dello sviluppo della competenza linguistica, non ex abrupto alle prime lezioni.

 

Questo lo pensavamo pure noi, negli anni Settanta, quando abbiamo iniziato a prendere sul serio le proposte di Wilkins di usare materiale autentico in classe. Non volevamo che i nostri studenti si sentissero frustrati, avevamo il desiderio che vivessero la lezione come un’esperienza piacevole.

Ricordo esperienze che in cui ho presentato registrazioni di conversazioni spontanee al livello intermedio-basso: dopo dieci secondi gli sguardi degli studenti mi fissavano con aria sfiduciata, manifestando l’intenzione di andarsene.

Oggi come oggi, agisco allo stesso modo e nessuno studente prende e se ne va.

Il problema allora è di ordine metodologico: la sfida consiste nel trovare un modo di presentare materiale autentico che non risulti frustrante.

La questione a monte secondo me è questa: molti insegnanti hanno l’illusione che gli studenti, poste in atto certe strategie, possano dire: abbiamo capito il testo.

Io stesso, come insegnante, quando leggo un testo, mi creo una rappresentazione del testo; idem accade nella mente di uno studente alle prese con il medesimo testo: alla fine si producono due rappresentazioni diverse. In classe, dunque, ci sono tante rappresentazioni quanti sono gli alunni, più quella dell’insegnante. La rappresentazione è, difatti, soggettiva, poiché dipende da molte variabili: la conoscenza della lingua è una tra le tante ma vanno considerate anche le conoscenze pregresse, l’atteggiamento nei confronti dell’argomento, ecc.

È proprio questa credenza dell’insegnante, secondo la quale gli allievi passano immediatamente dalla non-comprensione alla comprensione del testo, che va messa in discussione. C’è da dire, invece: se lavoriamo su un testo scritto, l’obiettivo non è capire il testo ma sviluppare la capacità di capire il testo.

Questo, ovviamente, vale anche se la lingua è distante. Giorni fa mi hanno mostrato un testo in arabo; io, pur non conoscendo l’arabo, ho capito che si trattava di una lettera. Cosa è successo? Mi sono creato una rappresentazione, la mia mente ha interagito con il testo e ho elaborato un’ipotesi. Ovviamente chi ha una competenza maggiore dell’arabo potrebbe elaborare una rappresentazione più ricca.

In linea teorica, la natura del processo non cambia a seconda del livello e della distanza tra le lingue; piuttosto, torno a dire, il problema si pone a livello di gestione della lezione, è cioè di ordine metodologico. Se io dovessi insegnare arabo a una classe di italiani che non ne sanno niente non li farei stare davanti a quel testo per mezz’ora, ma per cinque minuti sì: prendete questo testo e dopo cinque minuti ditemi qualcosa su questo testo. Lo stesso si potrebbe dire se la lingua fosse il cinese: dopo qualche minuto lo studente principiante comincia a interagire con una serie di dati che io, insegnante, so che sono affidabili.

La questione delle lingue distanti implica dunque la liberazione dall’ansia del capire: gli studenti non sono tenuti a capire, piuttosto vanno esposti all’input, con un atteggiamento sereno, come se stessero ascoltando una musica. Occorre, in altre parole, fissare un rituale, che offra agli studenti una sicurezza. E la sicurezza non è prodotta, come si è tentati di pensare da parte di molti, dal fatto che lo studente dica alla fine: io ho capito il testo. La sicurezza è semplicemente il frutto del rituale: ascolterete la conversazione per due minuti, per più volte: è un esercizio, un allenamento, esattamente come quando andate in palestra; non è che lì vi chiedete perché fate un esercizio una serie di volte.

Se lo studente ha fiducia nell’insegnante (e l’insegnante lo sa), si cimenta. L’importante è che non cambino le cose: non c’è niente di peggio di quell’insegnante che dice: ascolteremo sei volte, e poi, quando lo studente si lamenta, dopo la quarta volta, smette di far ascoltare o leggere; questo è dannoso! Di fatto, l’insegnante, in questa situazione, non si accorge che sta cambiando il programma per una persona; gli altri magari hanno fiducia, credono nelle sue parole e così ora si formano l’idea che sia debole!

Ripeto: va annunciato il rituale, e poi rispettato: ascolterete sei volte, l’esercizio poi si ripeterà ogni tre ore. Questo rituale è ciò che dà sicurezza allo studente. Dopo un certo numero di ascolti, anche per lingue distanti, avviene la magia: lo studente riesce a cogliere il confine di una parola, in mezzo al flusso dei suoni. È un miracolo: il computer non riesce a farlo ma la mente sì.

Dopo un po’ si arriva all’ascolto che in genere pratichiamo noi, alla Dilit, in cui tra un ascolto e l’altro c’è uno scambio con il compagno.

 

Se le lingue fossero invece molto vicine, tipo italiano e spagnolo?

 

Il problema è esattamente il contrario ma metodologia è la stessa.

 

Si riduce il numero di ascolti?

 

No, gli ascolti (o le letture) rimangono sempre sei, ma si espongono gli studenti a testi più complessi.

Se io insegnassi italiano in Spagna, non userei Volare 1 con i principianti, ma comincerei a partire da metà di Volare 2. Alzerei il livello. Io sono convinto che ascoltare un brano sei volte rappresenta un efficace utilizzo del tempo.

I problemi stanno agli estremi: quelli che dicono di non capire niente (e qui va tolto qualsiasi senso di dover capire) e, ancor più grave, quelli che ritengono di aver capito tutto dopo poco (e qui si tratta, ripeto, di alzare il livello di difficoltà del testo).

 

Un’ultima cosa: il Framework usa solo il termine ‘testo’: cosa ne pensa?

 

Ripeto: nemmeno io insisto sull’aggettivo ‘autentico’: parlo di testi, che si possono attingere da diverse fonti. Per gli autori del Framework, secondo me, è quasi scontato il fatto che, parlando di ‘testi’, ci si riferisca a testi attinti dalla cultura in cui la lingua è parlata.

Una cosa interessante è il fatto che il Framework nasce al centro dell’Europa, dove le persone parlano inglese; gli insegnanti di scuola media –in Germania, in Olanda, in Austria– usano normalmente materiale autentico (a differenza dei colleghi dei paesi latini), senza pensare formalmente: sto usando materiale ‘autentico’. Magari, certo, producono riviste, materiali ad hoc per gli studenti ma non è che si prefiggano una serie di limiti, dicendo, per esempio: non uso il periodo ipotetico.

Io sono contrario a questa imposizione di limiti perché riduce la ricchezza della lingua. È come se si tornasse indietro, all’idea dell’i+1 di Krashen; praticata, peraltro, ancora prima di Krashen (in effetti, noi insegnavamo inglese su un testo assolutamente strutturale, Kernel Lessons, che si basava su questa sorta di progressione: i+1: c’era una storia scritta, un giallo, che continuava per episodi; in ogni episodio, c’erano tre o quattro esempi della struttura che sarebbe stata spiegata durante la lezione).

Se ci poniamo nell’ottica di usare testi ricchi, non limitiamo la possibilità di apprendere regole ulteriori, più complesse, da parte dello studente.

 

 

CONCLUSIONE

La via tracciata da Humphris è affascinante e impegnativa: impone una coerenza metodologica, un’autodisciplina e uno spirito di ricerca affatto scontati.

L’idea che l’input sia una realtà difficile da ‘semplificare’ o da ridurre ad una versione ‘ad alta comprensibilità’ senza il sacrificio di infrangere alcune regole, ci appare forte.

La ricerca, come lo stesso Humphris indica, si sposta sempre più sul versante metodologico, attraverso l’adozione di tecniche volte a far ritornare lo studente sul testo, stimolando indagini che arricchiscono la rappresentazione che il lettore/ascoltatore può avere dello stesso. 

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